Sono passati undici anni da quando, il 30 ottobre 2012, Disney annunciava al mondo l’incredibile notizia dell’acquisizione della Lucasfilm e l’intenzione di riprendere a realizzare nuove storie di Star Wars, a partire dalla mitologica “trilogia sequel” che il suo creatore, George Lucas, si era rifiutato di girare. Undici anni dopo, quell’enorme scrigno di storie che nel tempo si era trasformato in una sorta di mitologia moderna per l’Occidente, si è ridotto a un franchise come tanti, con gli stessi problemi che attanagliano l’intera l’industria dell’intrattenimento: agli inizi di quest’anno il CEO di Disney, Bob Iger, che aveva negoziato con Lucas l’acquisizione della sua fabbrica di meraviglie durante un incontro a Disney World (una scena che avrebbe estasiato Jean Baudrillard), e che dopo due anni di pensionamento è stato richiamato d’urgenza nel novembre 2022 a riprendere il timone della corazzata americana, ha dato una sforbiciata netta a una pletora di progetti di nuove trilogie cinematografiche, spin-off, serie televisive live action e animate, nella speranza di poter ricominciare da capo con più metodo e restituire a Star Wars il suo ruolo di prodotto di punta dell’immaginario contemporaneo.
La vicenda Star Wars non è interessante solo nell’ambito, pur rilevante, dell’industria dell’intrattenimento, di cui il recente sciopero degli sceneggiatori di Hollywood ha messo a nudo molteplici criticità; è soprattutto emblematica della grande crisi di immaginazione che affligge la nostra epoca, le cui conseguenze spaziano molto più in là delle sale cinematografiche e dei salotti di casa: se infatti lo sviluppo della civiltà è andato avanti di pari passo alla sua capacità di immaginare e raccontare ciò che non esiste, secondo quella brillante intuizione di Vladimir Nabokov, per cui la letteratura è nata quando ai tempi dei Neanderthal “un ragazzino, correndo, gridò ‘Al lupo, al lupo’ senza avere nessun lupo alle calcagna” (Nabokov, 2018), allora a una crisi dell’immaginazione non può che corrispondere una crisi della civiltà.
La grande disillusione
Un vasto movimento d’opinione nel fandom online di Star Wars afferma che bisognerebbe disconoscere ufficialmente la trilogia sequel uscita al cinema tra il 2015 e il 2019. Anche se può sembrare un’esagerazione da nerd – dopotutto, feroci critiche accompagnarono anche l’uscita della trilogia prequel di Lucas, che oggi le nuove generazioni idolatrano – non si può negare che il difetto principale di quei film consistesse in una doppia carenza: di immaginazione, appunto, e di coerenza.
Di immaginazione: all’imbarazzo che accompagnò l’uscita dell’Episodio VII, Il risveglio della forza (2015), dove J.J. Abrams di fatto si limitò a ricalcare l’Episodio IV del 1977, presentando un intreccio identico – l’eroe di un remoto pianeta desertico che si ritrova coinvolto in una guerra più vasta e scopre le vie della Forza – e “omaggiando” (ossia copiando) intere scene (la distruzione del sistema repubblicano da parte della base Starkiller/la distruzione di Alderaan da parte della Morte Nera; l’uccisione di Han Solo da parte di Kylo Ren a cui Rey assiste sconcertata da lontano/l’uccisione di Obi Wan da parte di Darth Vader a cui Luke assiste impotente; la distruzione della base Starkiller grazie allo scoppio del reattore principale per opera della Resistenza pochi istanti prima che la base ribelle venga distrutta/la distruzione della Morte Nera per analoghe cause grazie all’attacco della Ribellione che per un pelo impedisce la distruzione della base di Yavin), seguì lo sconcerto dell’Episodio VIII, Gli ultimi Jedi (2017) in cui Rian Johnson cercò di allontanarsi dal richiamo all’Episodio V senza davvero riuscirci: assistevamo così all’addestramento di Rey da parte di Luke Skywalker come questi era stato addestrato da Yoda nella trilogia classica, alla decimazione della Resistenza da parte del Primo Ordine come già era accaduto ne L’Impero colpisce ancora per i Ribelli, a una battaglia su un pianeta ghiacciato con i quadropodi imperiali che omaggiava quella del film del 1980, e così via. Il colmo si raggiunse poi nell’Episodio IX, quello conclusivo, in cui si scoprì che “in qualche modo” Palpatine era tornato, senza che nei due film precedenti alcun indizio in tal senso venisse posto allo spettatore, e in cui lo scontro finale risultava talmente identico a quello dell’Episodio VI che chiudeva la trilogia classica da chiedersi perché Palpatine avesse progettato il suo ritorno così a lungo per poi compiere gli stessi errori e morire nello stesso modo in cui era morto trent’anni prima.
Più di trent’anni dopo L’erede dell’Impero, il personaggio del Grand’Ammiraglio Thrawn sbarca finalmente sullo schermo in Ahsoka (da cui sono tratte le immagini di quest’articolo).
Il crollo dell’hype nei confronti della trilogia – già evidente dal clamoroso flop di incassi del film Solo uscito nel 2018 e dalla freddezza con cui il fandom attese l’uscita dell’ultimo capitolo nel 2019 – fu confermato ai botteghini: rispetto ai 2 miliardi di euro incassati in tutto il mondo con l’Episodio VII (il doppio degli incassi dell’Episodio I con cui Star Wars ritornò nei cinema nel 1999), l’Episodio IX racimolò a stento un miliardo. Praticamente una persona su due che si era recata al cinema nel 2015 non era tornata quattro anni dopo per scoprire come finisse la saga. Da allora le speranze del franchise si sono spostate su Disney+, la grande scommessa delle piattaforme di streaming, sfornando una serie dopo l’altra, soprattutto grazie all’ottimo riscontro di The Mandalorian, la cui ambientazione pochi anni dopo la fine della trilogia classica permette di raccontare una storia ancora sconosciuta e soprattutto ellittica rispetto all’ingombrante epica della saga degli Skywalker (che pure vi fanno capolino a un certo punto della storia). Non tutto ha funzionato, a partire dalla pessima Obi-Wan Kenobi (2022), che sulla carta aveva tutto in regola – ambientazione negli anni dell’Impero, ritorno di Ewan McGregor nei panni di Obi-Wan e di Hayden Christensen in quelli di Darth Vader diciassette anni dopo il loro ultimo incontro sugli schermi, il tema principale composto da John Williams – ma che gli sceneggiatori hanno mandato in vacca complice una sconcertante vuotezza di idee e una completa indifferenza per la coerenza con il resto della saga.
Una galassia piena di falle
“Coerenza” era appunto l’altro problema a cui si accennava. Ha in realtà un’origine antica: già quando George Lucas si mise a scrivere la sceneggiatura della trilogia prequel alla metà degli anni Novanta decise che, in quanto creatore, era libero di contraddirsi rispetto a quanto stabilito nella prima trilogia. Lì i pochi accenni al passato evocavano una storia molto chiara: Obi-Wan era un cavaliere Jedi relitto di una religione ormai dimenticata (“tu sei tutto ciò che resta di quell’antica religione”, ricordava a Darth Vader il Gran Moff Tarkin), che per mille generazioni aveva servito la Repubblica, “prima dell’oscurantismo, prima dell’Impero”. Aveva incontrato il padre di Luke quando questi era già un “grande pilota” e aveva deciso di addestrarlo alle vie della Forza, come lui era stato addestrato dal suo maestro Yoda. Si faceva infine riferimento a una non meglio precisata “guerra dei cloni” in cui Obi-Wan aveva servito il padre (adottivo) della principessa Leia. Di qui si desumevano tutta una serie di assunti che la trilogia prequel mandò per aria, per assecondare il lato infantile di Lucas che intendeva presentare nell’Episodio I un protagonista di appena dieci anni, oltre che per la sua scelta di raccontare la caduta della Repubblica e l’ascesa dell’Impero non con i toni epici che i fan si attendevano fin dal 1977, ma con espliciti riferimenti all’attualità – attacchi alla presidenza Bush inclusi – che rendevano i burocrati repubblicani non dissimili da quelli del Congresso americano (scelta ripresa anche in anni recenti: il personaggio della senatrice Mon Mothma ha le chiare fattezze di Hilary Clinton) e l’ascesa di Palpatine un magheggio da House of Cards. Persino le guerre dei cloni, che alcuni riferimenti nei romanzi dell’universo espanso pubblicati in precedenza permettevano di immaginare come uno scontro tra i Jedi e un esercito di cloni folli, si trasformarono nel frutto di un contorto quanto incomprensibile piano in cui i Jedi stessi, dopo aver scoperto che un esercito di cloni era stato creato a loro insaputa probabilmente da esponenti del lato oscuro, decidevano nondimeno di servirsene.
Se Lucas, che tanta attenzione aveva dato negli anni Settanta al processo di sub-creazione, cercando di inserire le vicende raccontate nel film in un affresco più vasto di cui gli spettatori potessero intuire la profondità e desiderare di saperne di più, avesse studiato meglio la lezione di J.R.R. Tolkien, si sarebbe reso conto che al creatore non spettano affatto privilegi di libertà creativa riguardo alla propria storia, perché una volta creato un mondo e una storia, essi producono vincoli che non possono essere derogati. Tolkien impiegò anni della sua vita a cercare di garantire la coerenza interna al suo legendarium. I suoi sforzi di far quadrare, per esempio, la geografia della Terra di Mezzo nel Signore degli Anelli con la cosmologia desumibile dal Silmarillion, attraverso la redazione di numerose mappe, l’elaborazione di modelli cosmologici e la riscrittura di interi brani delle sue opere, possono sembrarci oggi la follia di un ossessivo-compulsivo; ma è solo grazie a tali sforzi che la sub-creazione tolkieniana continua a essere fonte di tante soddisfazioni tra coloro che la frequentano, perché lì immaginazione e coerenza procedono di pari passo e quando ci imbattiamo in un drago non viene mai meno la “sospensione dell’incredulità”, perché tutta la cornice intorno lo rende possibile. Dopo l’enorme successo della trilogia classica, Lucas acconsentì a far esplorare il suo universo da altre voci e diede vita a quella geniale operazione che fu l’expanded universe (“universo espanso”), la serie di romanzi, fumetti, giochi di ruolo e videogame che nel corso degli anni andò a raccontare altre storie, a partire dalle vicende successive all’Episodio VI, dato che Lucas alla fine degli anni Ottanta aveva deciso che non avrebbe girato una trilogia sequel ma solo i prequel, incentrati sul passato di Darth Vader/Anakin Skywalker.
Il suo errore fu tuttavia quello di non vigilare adeguatamente sulla creazione del cosiddetto “canone”, anche se ogni storia doveva passare prima per la sua approvazione. Prova ne è l’enorme pasticcio che si verificò agli inizi degli anni Novanta, quando le vicende successive al Ritorno dello Jedi furono raccontate in modo alternativo dalla trilogia di romanzi di Timothy Zahn iniziata con il celebre L’erede dell’Impero (1991) e dalla serie-cult di fumetti Dark Empire scritta da Tom Veitch avviata sempre nel 1991. Come se non bastasse, Kevin J. Anderson, a cui era stata affidata una successiva trilogia di romanzi basata sulla rifondazione dell’ordine Jedi da parte di Luke Skywalker, si rese conto che le vicende narrate nella saga di Veitch entravano in contraddizione con quanto andava scrivendo (cfr. Taylor, 2015). I tentativi di omogeneizzare questa anarchia creativa produssero risultati non memorabili e palesi contraddizioni interne (per esempio Dark Empire, chiaramente ambientato pochi mesi dopo la fine dell’Episodio VI, veniva spostato in avanti di sei anni, dopo le vicende raccontate dalla trilogia di Zahn, a cui però mai veniva fatto cenno); il risultato fu che fin da allora l’idea di una coerenza interna all’universo di Star Wars venne mandata alle ortiche, lasciando alla Disney, dopo l’acquisto della Lucasfilm, enorme libertà, al punto che la prima decisione presa dai nuovi padroni del franchise fu di bollare l’intero universo espanso come “leggende” (con il marchio Legends), al fine di costruire un nuovo canone in teoria più coerente, ma in realtà decisamente meno originale del precedente.
Il ritorno dell’universo espanso
Non che le storie dell’universo espanso brillassero di luce propria, salvo alcune memorabili eccezioni. Tra queste, lo spettacolare affresco scritto da Tom Veitch e Kevin J. Anderson con la saga a fumetti Cronache degli Jedi, ambientata migliaia di anni prima delle vicende della trilogia classica, che propongono un’estetica egizianeggiante e approfondiscono la storia dei Sith in modo decisamente innovativo; questa serie, scritta tra il 1993 e il 1998, fornì il materiale di riferimento della serie Dark Empire, così da creare un quadro coerente in cui il passato dell’imperatore, i Sith e il lato oscuro trovavano una loro spiegazione e producendo un immaginario accattivante di cui Lucas decise di non servirsi nella trilogia prequel, giudicandolo probabilmente troppo cupo. Anche la trilogia di Zahn, costantemente ristampata negli anni, e più simile alle idee e all’estetica di Lucas (di qui egli trarrà per esempio l’immagine luccicante del pianeta Coruscant come pianeta-città sul modello di New York, lontano da quella di Veitch che lo immaginava come un mondo di grandi palazzi e piramidi impregnato del lato oscuro), pur al netto di una certa legnosità, brillava di capacità inventive e soprattutto metteva in scena un villain indimenticabile quale il Grand’Ammiraglio Thrawn. È singolare che proprio da queste due serie – Dark Empire e la Trilogia di Thrawn – lo Star Wars disneyano abbia pensato di attingere per uscire dalla sua crisi. La risurrezione dell’imperatore Palpatine mediante clonazione, che fece storcere qualche naso nel 1991, è stata ripresa tal quale ne L’ascesa di Skywalker (e d’altro canto la stessa base Starkiller, in grado di colpire attraverso l’iperspazio, riprendeva l’idea del cannone galattico di Dark Empire). Soprattutto, il personaggio di Thrwan, già ripreso nel nuovo canone a partire dall’omonima serie di romanzi affidata nuovamente a Timothy Zahn, dopo essere stato inserito nella serie televisiva d’animazione Rebels (2014-2018) è stato finalmente portato sullo schermo nella prima stagione di Ahsoka (2023), impersonato da Lars Mikkelsen. Un momento attesissimo dai fan e attentamente pianificato dalla Disney, che già in The Mandalorian aveva ventilato il suo ritorno e che ora promette di riportare finalmente Star Wars al cinema con un film scritto da David Filoni (l’autore della serie animata Clone Wars scritta all’epoca di Lucas, e più recentemente di Mandalorian e Ahsoka) in cui proprio Thrawn sarà protagonista. Titolo di lavorazione: L’erede dell’Impero. È una scelta indicativa: più di trent’anni dopo, l’universo di Star Wars torna da dove era partito e ammette che, dopo tutto, quelle storie che erano state buttate a mare dopo l’acquisto della Disney per lasciare libero sfogo ai creativi nelle writers’ room non erano poi così male, anzi. Gli stessi fan ora chiedono a gran voce che L’erede dell’Impero diventi il primo di una trilogia che di fatto prenda il posto di quella del 2015-2019, riportando anche sul grande schermo i protagonisti della trilogia classica grazie a un re-casting, affidandone cioè i ruoli ad attori più giovani. Se ciò avvenisse – e la cosa non è poi così implausibile – assisteremmo a una straordinaria rivincita del vecchio Star Wars.
Qui sembra emergere in modo plateale tutta la crisi d’immaginazione di cui soffre non solo il franchise, ma l’intera industria audiovisiva. Il Thrwan ripreso da Filoni in Ahshoka, del resto, è decisamente più piatto di quello inventato da Zahn, che lo aveva tratteggiato come uno stratega eccezionale e che in effetti riusciva sempre a sorprendere il lettore anche quando questi credeva di averne compreso i piani. La differenza tra questi due personaggi – il Thrawn dei romanzi e quello televisivo (e prossimamente cinematografico) – rende esplicito l’abisso creativo tra scrittori e sceneggiatori. È in fin dei conti quest’ultima categoria la vera responsabile della crisi d’immaginazione di cui soffre Star Wars come l’intero cinema contemporaneo: un’intera generazione di mestieranti privi di talento, usciti dalle scuole di sceneggiatura, impegnati a copiarsi tra loro e a riciclare sempre le stesse idee, immersi nelle gabbie del pensiero unico rappresentate dalle writers’ room, dove ogni idea originale viene uccisa nella culla dal conservatorismo degli stessi produttori, che interferiscono pesantemente nel cosiddetto “processo creativo” (che di creativo ha ormai ben poco), sta di fatto uccidendo l’industria audiovisiva. La questione, come si diceva, non riguarda nemmeno solo questo; ha a che fare piuttosto con le conseguenze di ampia portata della crisi dell’immaginazione nella società contemporanea. I mondi alternativi non sono affatto vie di fuga dalla realtà, ma strumenti per immaginare futuri diversi dal presente esteso in cui siamo immersi. Se la capacità di sub-creazione viene meno, se i mondi immaginari non funzionano più, a farne le spese è anche la nostra possibilità di pensare futuri alternativi. Conseguenze a cui ci mise in guardia a suo tempo Ursula K. Le Guin:
“Coloro che rifiutano di ascoltare i draghi sono probabilmente condannati a passare la loro vita nella rappresentazione degli incubi dei politici”
(Le Guin, 1986).
- Ursula K. Le Guin, Il linguaggio della notte, Editori Riuniti, Roma, 1986.
- Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, Adelphi, Milano, 2018.
- Chris Taylor, Come Star Wars ha conquistato l’universo, Multiplayer, Milano, 2015.
- Timothy Zahn, L’erede dell’Impero, Sperling&Kupfer, Milano, 1993.
- J. Abrams, Star Wars Episodio VII – Il risveglio della forza, Walt Disney, 2016 (home video).
- J. Abrams, L’ascesa di Skywalker, Walt Disney, 2020 (home video).
- Jon Favreau, Dave Filoni, The Mandalorian, Disney+, 2019-in corso.
- Rian Johnson, Star Wars Episodio VIII – Gli ultimi Jedi, Walt Disney, 2018 (home video).
- Genndy Tartakovsky, Star Wars: The Clone Wars, Cartoon Network e Lucasfilm, 2003-2005.
- Tom Veitch, Cam Kennedy, Il lato oscuro della forza, Magic Press, 1998.