Spedizione a Ziroshima,
la città dopo la città


Questo articolo è stato originariamente pubblicato
su (oasis) – cultura etérea
con il titolo:
Expedición a Ziroshima.
Traduzione dallo spagnolo
di Beatrice Ferrara.


Questo articolo è stato originariamente pubblicato
su (oasis) – cultura etérea
con il titolo:
Expedición a Ziroshima.
Traduzione dallo spagnolo
di Beatrice Ferrara.


Chi se lo sarebbe mai immaginato che il mondo sarebbe finito. Anche Medellín, in quanto parte del pianeta, è giunta alla fine, e però, al pari di ogni altra cosa che se ne è andata via con la Terra nell’antropocene, persiste ancora e appare come se fosse viva; insistendo nell’esserci, nonostante sappia le condizioni la legano all’effimero, anche quando non sfugge alla propria esistenza volatile e al suo essere indefinita, così, nella bilancia del tempo. E allora questa persistenza è accesso a nuovi territori, governati da meccaniche proprie, con una propria dimensione estetica che genera altre possibilità logiche. Però creare mondi oggi non è la stessa cosa di qualche anno fa, non solo perché sono cambiate le modalità tramite cui si accede alle profondità del reale, ma più ancora perché si è trasformata la capacità di definire la realtà stessa, di tesserne la trama a partire dall’interstizio squisito dell’ipnagogia.
È qui che emerge la finzione sonora, rivelando la sua funzione elementare nella costruzione di altri panorami, come se nella manifestazione sonora si costruisse sempre una nuova Macondo; non un territorio reale che si fa territorio magico, bensì il contrario: evocazione della musica stessa, che diventa reale. In questo modo, il musicista è artefice di universi, alchimista della sonorità, navigante che percorre in lungo e in largo un’impalcatura distillata dalle linee di una storia qualunque, di una qualche città forgiata nella dimensione acustica, come Ziroshima.

“Eterna rimadera
C’è un nuovo rap sulla montagna, che non sarebbe quel che è se non ci fosse Zof Ziro. Non solo perché è dalla sua incubatrice che viene MBZ, l’etichetta discografica, ma anche per quello che lui da solo riesce a cucinare.
La sua visione, le sue idee, il suo approccio rizomatico alla trama dell’hip-hop, il suo esistenzialismo, il suo enciclopedismo. Il suo modo di intendere il rap riesce ad intrecciare diversi livelli che vanno dal metafisico al quotidiano, dove la dimensione mentale si fa direttrice di una logica astratta a tratti, in altri momenti piuttosto palese, che in misura maggiore o minore ha come risultato un uso straordinario della metafora e della poetica, della critica e della narrativa, del sarcasmo e dell’ironia.

A partire dalla manifestazione stessa del linguaggio e dal suo legame con la cultura, l’eredità e il ritmo, si costruisce la figura di un eretico capace di lanciare invettive contro qualunque entità, incluso se stesso; tutto pur di raggiungere quel punto in cui la rima si trasforma in loop inesauribile. Non ci si  aspetti quindi di trovare qui la Medellín “dell’eterna primavera”, dove l’eternità era puro slogan per vedere fumo: una città consumata in un viluppo narcotico che, pur essendo ancora visibile tra le crepe o dietro gli angoli, si copre sempre con quest’altra Medellín, fatta di macchine e innovazione. Ziro qui ha in mente una forma diffusa di militanza e così si indirizza non tanto verso una città specifica, quanto verso  una sua personale città, cucendo insieme vari posti di Antioquia e al contempo però avvicinandosi al proprio mondo distopico che, come uno spazio realista e magico, si fa ora più simile ora più distante dalle differenti versioni di quel che già esiste nel mondo.
La sua lirica sa bene de “lo occiso de las calles y del prepucio con el que piensan muchos” in questo paradosso che chiamiamo città, che però ciascuno vive a modo proprio e costruisce a partire dai propri ricordi e dalle proprie logiche. E così lui costruisce una città a partire dai propri drammi, immagini e parole, facendo del vocero un juglar cybersonico, ricettore di informazioni e creatore di un mondo proprio. Non lo fa però scrivendo libri, ma piuttosto programmando beats, per poi spedire i propri fonemi a ballare fra i dati.

Interstizio
Non cerchiamo qui un punto, bensì una linea. Anzi, nemmeno una linea, bensì un mondo di linee. Ma non è tanto il mondo in sé, quanto la storia e il suo linguaggio. Però una persona non è solo storie, bensì anche mondi, anche linee. Magari solo un punto. Sì, proprio così, ecco: Zof Ziro è punto che può diventare linea e finire per essere mondo, però essenzialmente è un punto in cui converge ciò che mai prima si era trovato riunito insieme nella città e che invece in lui sì, lo fa.
Questa immaginazione ipnagogica, che già si trova in Gabo (soprannome di Gabriel García Márquez, ndr), in Juan Rulfo, in Jorge Luis Borges: i loro mondi immaginari, personalissimi, possibili.

Nel caso di DobleZeta è Ziroshima, con il suo realismo speculativo, dove si affaccia al mondo la finzione sonora personale di colui il quale è, senza dubbio, all’interno della scena rap attuale di Medellín, quello in cui converge, nelle forme più peculiari, l’algoritmo della sua nave Moebiuz: i riferimenti continui al cinema o alla letteratura, la polisemia, i giochi di senso, il ricorso al linguaggio popolare, la rima inattesa, o inesistente.
Non è probabilmente la Ziroshima che lui definirebbe, ma è quella che noi ascoltiamo nel suo canto; un ascolto dopo l’altro, un ascolto tra gli altri, raccogliendo echi come parole e parole come figure per una storia che forse, si spera, funzionerà almeno come valido invito ad andare a vedere lo spettacolo di cinema sonoro offerto da ZZ.

Ziroshima
Tutto quanto osi dialogare in questo interstizio strano che si percepisce tra realtà e finzione presto o tardi finisce per forgiare il suo mondo, il suo spazio di mezzo peculiare, una sua propria crepa, la sua forma particolare di captare l’oscillazione del paradosso interno in ogni singolo item del samsara. Come Macondo o Comala, Ziroshima si tesse da sola, salvo che per una singolarità, cioè nel rap: a partire dalla voce e la mente che riesce a collegare pensieri, edificare metafore e macchinare forme astratte del proprio romanzo.
La sua lirica è una complessa struttura di forze, tensioni, ascolti, riferimenti, punti dell’Aleph; solitamente dispari, connessi senza senso apparente, però pieni di intenzione profonda, di legami surrettizi, di doppi, tripli e infinitesimali sensi. Le sue frasi possono contenere molte frasi che contengono molte frasi ancora e intagliano, dentro la canzone, tutto un metatesto e un ipertesto.
I suoi testi, asimmetrici nel senso e a loro volta annidati nel ritmo in maniera assai complessa, sono una perfetta esemplificazione di un fenomeno fino a ora riscontrabile solamente nel “nuevo rap de la montaña”.

È interessante il fatto che nei diversi stili di rap il linguaggio si riveste di una dimensione di cui è privo nella sfera quotidiana del parlato: nel rapeo, nel rapping, dire non è solo un gioco di sensi nelle parole, ma anche una manifestazione della capacità di fare di ogni frase musica; nel modo in cui la fonetica balla in un beat, nella disposizione di quel che vuol trasmettere dietro o davanti a ogni frase, nella profondità del territorio che si nasconde in ogni canzone.
Il contesto, la storia, i testi, le letture, i viaggi psiconautici, i mondi del subconscio, il vomito mentale, la tradizione filosofica, la Medellín che, come l’amore di cui canta ZZ, non morì: l’uccisero.
Poco conta chi abbia assassinato Medellín. Per adesso ci interessa conoscerla solo come fantasma abitabile, come spazio per creare spazi, come fonte per la finzione sonora. E allora Ziroshima è città dentro la città, però è città dopo la città, con una topografia eterea, una struttura senza struttura spaziale, però temporale, transitoria, sonora.
È forse l’inviluppo della sua forma d’onda, il suo mestizofuturismo, il rifiuto di questo territorio così come ce lo vuole vendere la Grande Macchina Audiovisiva, per costruirsene invece un altro, che non è solo una via di fuga ma anche uno specchio di quell’altro, apparentemente tanto solido, tanto reale, però ugualmente fittizio, come questa Ziroshima, che a tratti pure sembra solida, pure sembra reale, visionaria. E allora ZZ è profeta, ma anche cronista, o alchimista, in generale bravo a studiarsi bene il modo in cui l’hip hop è stato fatto in altri territori, per metterlo in pratica a partire dal proprio contesto, in una forma immediata, plasmata però anche attraverso le diverse rotture che deve operare per riuscire infine a trovare le proprie skills, come un monaco tra le montagne.

In questo modo ZZ si cura mettendo nel rap la sua malattia, portando “su casa al firmamento”, navigando in un mare di erudizione umile, in cui gli immaginari collassano per generare una finzione sonora che non è possibile se non guardando all’hip hop sempre in riferimento al suo contesto. Perciò qui non si tratta tanto di pintas, cioè  della roba che uno indossa, e nemmeno delle pose o di altri elementi visuali, che contano anzi veramente poco. Qui si tratta piuttosto di guerra acusmatica, voci nell’oscurità: rap cieco; rap senza strada, rap di studio, rap mentale. Si tratta più di come plasmare la realtà attraverso il rap, che di atteggiarsi a rapper in una presunta città. Per questo Ziro non abita né a San Antonio, né nella città dell’eterna primavera. E nemmeno a Ziroshima, che è più che altro un fantasma.
La sua competizione la si trova nella materia: è acustica, semantica, metrica, poetica. Ci sono molte variabili nella struttura dell’algoritmo, c’è troppo contenuto, in fluidità esatta dentro la pista, che in un certo qual modo interviene nel modo in cui si costruisce un rapper e nel modo in cui questi può raggiungere un punto in cui arriva anche ad aprirsi a diverse forme del suo stesso linguaggio.

 Metaforologia
Una delle zeta fluttua indefinita nelle infinite giravolte di un nastro di Moebiuz. L’altra si dibatte in una sequela infinita di eventi personali, introspettivi, ebbri o illuminati. Due zeta vanno e vengono per creare infine una sola voce, che a tratti è una persona, a tratti una fotografia perfetta di una società spettrale, fantasma, inospitale, svanita nell’anelito che la fonda. Lui, la sua propria metafora, la sua più profonda allegoria: un vuoto che lotta con l’ego stesso, capace qui di estrapolarsi, per sviluppare una rima che gioca con sé stessa e allo stesso tempo ricorre a un rizoma di riferimenti inesauribili, tropos e tópicos, cioè topoi e localismi al tempo stesso. Abbraccia tanto: dalla cultura pop a forme esoteriche di idee ancestrali di filosofia.

Il suo rap esalta il più vicino e prossimo, cioè che è proprio, e però riconosce l’abisso, nichilista e ironico, mistura di virtù e vizio, o forse una ridefinizione di entrambi, nell’anarchia sonora. Ad ogni ascolto, Zof Ziro vi rivelerà nuovi riferimenti. La sua vita sono le parole, “all day abc”. Per questo, Ziroshima è multiverso e ZZ fluttua indefinitamente negli infiniti tornanti del nastro di Moebiuz.

“¿Cuanta de tu felicidad la debitas?”
Tra i suoi torrenti di pensiero e il suo ben gestito monologo, Ziro emette costantemente una sorta di paradossi politici che trascendono la mera critica, invitando alla riflessione ma, certamente, evitando qualunque cedimento al rap di coscienza: Ziro è sommamente sinistro e la sua strategia non è quella di essere cosciente di un mondo bello e presuntamente armonico.
A Ziroshima, piuttosto, c’è aperta dicotomia, accettazione sia della grasa sia della penumbra, del grasso e della penombra al contempo. Vi abbondano forme nuove di una Antioquia d’altri tempi, che può darsi solo nel filtro di una voce che rappa quello che vive, quello che osserva, quello in cui si imbatte, ovunque accadano gli eventi.
La versatilità di ZZ è la sua tattica. E la strategia, a sua volta, in molti casi non sarà  quella di un rapper di schemi, bensì quella di un poeta maledetto, vagabondo e vicario, avido nell’arte di perdersi però allo stesso tempo sostenuto, schivando la morte, dandosi a volte a un limbo strano, tra la notte e le sostanze, e di conseguenza alimentando una psiconautica trasversale a tutto il suo rap, che cede alla lirica non semplicemente per rimare, ma anzi per filosofare, come un Diogene cane, gridando nudo nella sua città immaginaria “una verdad desnuda que nadie se quiere comer”.

“Mientras todo”
Almas de Dios llenas de demonios”: come se non ci fosse alternativa che accettarci, in questo mondo mischiato e indeciso. Ziroshima è in larga parte una specie di paese-città che viene dopo le bombe degli anni Novanta, però attaccato alle rivelazioni dell’eredità psicotropica che scoppiò a mo’ di linguaggio. Tuttavia, ZZ ci sta stretto nel tipico ritratto del sicario e narcotrafficante della valle e preferisce piuttosto adottare altre montagne, come quelle del Tibet, senza dover arrivare fin là.
La sua mente, allora, si situa qui e però si cimenta arditamente con il grande mercato dei saperi, per farsi una mescla tutta sua di letture e pensieri, che combina la situazione locale in un unico tempo. “Mientras todo”, “mentre tutto”, lui sente le pallottole, però pensa anche ai teoremi. Mentre tutto, è scienziato del barrio, figlio della strada, però anche ombra di ricerche intense in biblioteche mentali, virtuali, di carta o di etere.

La sua ricchezza di riferimenti è straordinaria e il cruce non è meno fortuito: una tale alchimia di cultura popolare e significati intimi delle parole, nelle loro mutazioni in base al territorio o al sistema epistemologico di riferimento, che riesce a conferire alle frasi vari strati di senso, che sono al contempo rimandi a vari mondi. Mentre tutto, lui registra, suona, come se si allenasse a fare quello che fa un hacker, che deve riuscire a sopportare la propria routine tra reti, mondi, domande sopra altre domande. Nichilismo e vitalismo compresenti, come via di fuga dalla realtà o quanto meno come forma di resistenza alla rinuncia completa al reale.
Intanto, quella di Ziroshima è una realtà che si crea tra mota (erba), sample e rime, e forse sarebbe troppo definirla ‘speranza’; ma per ora basti dire che si tratta di una sorta di attitudine particolare di fronte all’eterialità dei nostri contesti, qui espressa in quanto modo di vivere attraverso, intorno, verso e grazie al rap. “Mientras todo se agrava, grabo. Y cuando grabo, ya no es tan grave”.

“Esa paz que buscas, que empiece por la mental”
L’inquietudine di Zof Ziro non è radicale nel senso di un’opposizione assoluta ai momenti di calma. Anche lui guarda il cielo e passa momenti di gloria “a lo Miles Davis”. Però in fin dei conti la sua storia è quella di un trompo solo, una trottola, un nastro combattuto tra le sue due facce, ma pur sempre un nastro solo; che gira tra i beats e cerca il suo punto d’inizio, oltre la sua famiglia, la sua storia, il mondo, oltre tutto.
Il suo trattamento della musica è sincero e pertanto include anche il suo onirismo, la sua allucinazione, “los golpes de su torre”; su raye, la sua rabbia pazza, che a momenti è più reale del film che ci vorrebbero vendere per strada a noi altri. Ziroshima quindi non solo è inevitabile, ma anche abitabile, perfino quando le sue strade oscure potrebbero sembrare contenere null’altro che la forma distopica del nulla. Il trucco sta nel fatto che, nell’ascoltare, a volte l’unica cosa che si può fare è restarsene zitto, perché in questo posto ZZ suggerisce a chi ascolta di far tacere la voce; gli impedisce di parlare e lo invita a rendere culto al rap seguendo il ritmo, la metrica, la filippica eccelsa dell’alchimia del simbolo che si dà tra i beat.

La gente di Ziroshima
Basta soffermarsi un attimo a notare la quantità di personaggi che si ritrovano in Zof Ziro. Fra i brani di quest’album e di altri album troviamo tutta una confluenza del sogno, la veglia, il cinema, la poesia, la politica, il mondo dello spettacolo, l’arte contemporanea o l’eresia. Tyler Durden, Muhammad Ali, Alain Goraguer, James Bond, Nietzsche, Sirilo, Bacco, Simbad il marinaio, Baba, Govinda, Tito Puentes, Billie Holiday, Marco Aurelio, Héctor Lavoe, Giuda, Michael Jordan, Almirante Padilla, Richie Rich, Facundo Cabral, Asciughino, Grayskull, Édgar Rentería, Ercole, Otto Disc, Gustavo Cerati, Scottie Pippen, Mañas, Willie Colón, Ben Affleck, Miguel Rivas, Emily Blunt, José Asunción Silva, Fox Mulder, Jim Morrison, Jack lo squartatore, Hajime Saitō, Mufasa, Ali Babà, Nicolas Cage, Happy Lora, Tom Sawyer, Satana, Paul Gauguin, Otoniel, Urana, Giordano Bruno, Yoda, Goya, Siddhartha, Mark Lenders, Eminem, Aladino, Granuja, il Mago Babidi, X-504, il Conde de Sal si puedes, Michael Jackson, Wilson Saoko, E.T., Anna Kúrnikova, Eva, Reggie Miller, Dio, James Blunt, chucho, il Felipe di Antonio Aguilar, Raúl Gómez Jattin, Doom, Batman, Barbie, Ken, Chucky, Juan Valdés, Roger Rabbit, Peter Pan, Carl Sagan, Roberta Flack, San Sebastiano, Lucas Villegas, Mitch Buchannon, Alicia, Bender, Kid Pambelé, little Susie, Malcolm.


Sultani, messia, rapper, monache, bambini, preti, accoliti, arpie, spacciatori, angeli, serpenti, maiali, ubriachi, grassi, sbirri, schiavi del Togo. Ziro è una metropoli di fantasmi, che non solo parlano dentro le sue frasi, ma sono evocati e influenzano il senso lirico delle forme, che vanno dalla più eloquente erudizione, all’ironia o lo sberleffo. Cercate tutti i summenzionati e sicuro li troverete nelle frasi di ZZ, a creare tutto un universo di personaggi dentro una sola voce. “No son parábolas, son palabras que hacen carambolas.
Ziro è serendipità con i testi, l’alchimia del verbo del francese, altopiano su cui si riuniscono tutti nel suo teatro.

Come Marco Aurelio
Zof Ziro si addentra nelle meraviglie del monologo e dell’enumerazione caotica, nonché in una modalità tutta originale di esplorare aforisticamente le idee. In questo modo, le sue canzoni non si costruiscono lungo una dimensione lineare, temporale o rigidamente segnata in senso narrativo; anzi, al contrario, la metafora e il simbolo si dispongono lungo un percorso che è sempre diverso e in qualche modo tenuto insieme da una rete di dicotomie, fatta di idee sciolte ma coerenti, dispari però collegate, distanti nell’immediato eppure intimamente legate nell’ascolto prolungato. Per questo, le storie di Zof Ziro si estendono con l’ascolto coltivato, con la ripetizione dei pensieri: come un pitagorico, come uno stoico, pieno di massime, ricolmo di akousmata.

“No hay bless pero hay bros
Se mai a qualcuno dovesse venire in mente di dire che ZZ non fa implosioni nei suoi testi, ció vorrebbe dire solamente che questo qualcuno non ha veramente finito di ascoltarli per bene. La loro intimità emerge infatti nell’ascolto attento e nella tattica prolungata di prestare attenzione a questo individuo e al suo universo.
Il suo rap è esoterismo piano, ateismo in rima, astrazione disposta a una meravigliosa cosmovisione. Bisogna ascoltarlo per capire come va il mondo, per comprendere la cartografia di una valle assassinata ma resistente, como quella di Aburrá.
Ascoltare rap, in questi casi, diventa molto più che una fuga dal reale: diviene costruzione del reale, senza la protezione degli dei, però spalleggiati da voci vicine che collaborano, a Ziroshima, per creare uno spazio collettivo senza pari, scegliendo bene i propri, capendo bene in che momento integrarsi per lanciare in giro bombe sonore.
Rap del combo, como una specie di alleanza acusmatica che non è altro che una strategia per disporre le forme nella finzione sonora, come le voci alleate di MBZ e i loro particolari collegamenti alla politica, la religione e la cultura.

Medium
Ziroshima non è il posto in cui scoppia la bomba, è il mondo che nasce dal suono stesso e il modo stesso di detonare tutto quanto in punta di sampling, lì dove si rivela una dimensione paranormale che si costruisce come opportunità di rinnovare il passato e lasciarlo persistere come un’eco stregata, hauntologica, disposta ad essere spettro di memoria, eco viva di tempi morti.
Il sampling di Ziro, con ciò che normalmente lo accompagna, riprende radici della musica colombiana e latina però evitando il cliché. Il suo metodo è piuttosto quello di utilizzare risorse provenienti da altri posti, facendo del sampleo, del sampling appunto, un incontro di voci, di ritmi d’altri tempi. La forma secondo cui si strutturano i loop e si tagliano alcuni elementi permette la creazione di una pista su cui decollano “versos que son aviones”, capaci di solcare spazi disponibili solo nella finzione di Ziroshima, che si offre per essere intessuta come una selva di dati cui solo l’ascolto ripetuto può rendere testimonianza.

“Siempre es la hora de la quema”
La realtà a volte sembra un delirio di irrealtà e “los que más hablan de lo real son ficción”. Allora la psicotropia diventa un fatto quotidiano e prende forma un rito dedicato al moño, all’erba, che fa da stazione intergalattica.
In un territorio, poi, in cui l’esplorazione enteogena risale a tempi immemorabili ed è praticata da epoche ancestrali, e tenendo in conto anche la situazione di Medellín negli anni Novanta, quando le sostanze illegali fecero scoppiare un’inquietudine psiconautica, lasciandosi dietro canali di distribuzione ben organizzati che, anche se il tutto rimane illegale, fanno sì che la vendita avvenga allo scoperto e che il consumo raggiunga livelli che non sempre le inchieste e gli studi riescono a misurare. E quindi, per poter sapere com’è l’esplorazione psiconautica della Medellín cibernetica, bisogna ascoltare. Ci si deve fermare, non solo nei parchi e nelle piazze, ma anche nelle stazioni dei bus, nelle canzoni, negli antri, lì dove le droghe, i liquori o le piante sono semidei di una strana tensione a navigare per l’universo senza navi di materia.
Nel caso di ZZ, il fiore di cannabis è la musa prediletta, la compagna di ogni giorno, la nave spaziale. Anche se Antioquia, e Medellín in particolare, sono famose per la nieve, la cocaina, in fin dei conti saranno sempre selva psicotropica, stracarica di fiori che contengono paradisi segreti. Perciò il rap qui è rituale psichico, non legato ad alcuna forma di sciamanesimo, bensì errante, spettrale, intessuto dentro una città personale.

Ziroshima è un ritorno all’onirico attraverso una formula semplice: rap y hierbas. E così il microfono si trasforma in una roccia di confessione e trance, uno spazio in cui “sacarse la flema”, levarsi insomma il peso vischioso dal petto; dove i fumi sono una sorta di esercizio spirituale che permette di elevarsi tra gli strati della realtà per arrivare infine ad auscultare l’etereo, l’oscillante, l’intermedio, l’irriverente che esistono nel multiverso. E, a questo punto, …sfogarsi, sfogarsi con verità amare, suoni semplici, un beat, un altro beat, e la sua voce, la mia voce, quella di quello, quella di nessuno, in un mondo con “más vicios que prejuicios.”

Dopo Ziroshima
ZZ gioca con gli effetti, il suo disegno sonoro è sobrio e il sample è quasi sempre presente come forma ineludibile della sua trama cosmologica. L’algoritmo sonoro che sostiene la sua arte si colloca all’incrocio tra musica colombiana, jazz, hardcore, salsa, vari abissi che sono lo stesso, momenti lucidi o senza memoria. La sua “bomba” è come un Big Bang: eco abitabile, scia senz’anima che diventa realtà.
Quest’album, quindi, è soltanto la porta d’entrata per un universo assai più ampio e Ziro ha tutto il materiale che serve per continuare a giocare con altri ritmi, altre strutture, altri processi, tanto nella DAW, come sul marciapiedi o tra i neuroni. Così come ne ha per giocare ancora con altre narrazioni, con film più complessi, con modalità più elevate di intessere un album.
Nella sua voce già risuona il futuro, e il futuro della sua voce potrebbe essere ancora più interessante; chissà, solo il tempo ce lo dirà. Per ora, basti dire che quest’album è un presagio forse non della bomba, ma del mondo dopo l’impatto. Orecchie pronte, allora, in attento ascolto, per vedere se si riesce davvero a varcare la soglia e inoltrarsi più avanti, più dentro questa città fatta d’eco, per conoscere forse ancora altri labirinti di una voce che ci fa venire la tentazione di credere che niente altro, se non il rap, può mantenere ancora in vita la stirpe del nadaísmo.

Vagabondo
ZZ è un ninja: si nasconde, si mimetizza tra le rime, è sempre occiso, sempre la vittima morta ammazzata, spesso complesso e saturo di referenze e figure criptiche. Anche così, il suo modo di articolare le parole, e lo humor nero che imprime ai suoi toni, conferiscono alla sua metrica una certa leggerezza, permettendole di fluire in molti personaggi, tanti quanti quelli che di notte e di giorno parleranno di questa Ziroshima distante, dove il satiro trova sempre il modo di comparire nel bel mezzo del festino. Non è “de ningún sitio y no hay rincón que lo hospede”, per cui non aspettatevi che Ziroshima sia casa sua.
Se ne sta anzi quasi sempre nell’ombra, errabondo, in questa città che neanche lui riesce a decifrare, con la sua voce piantata quanto basta sulla cima della montagna, il tanto che basta perché possiamo ascoltarla ancora un po’.
L’artefice de La Bomba de Ziroshima ci perdonerà l’ardire di aver voluto scavare nel suo mondo, ma come non farlo, quando le schegge dell’esplosione continuamente incrociano il cammino dell’ignaro ascoltatore?
Chi conosca il rap di DobleZ saprà anche che qualunque cosa si possa dire sul suo lavoro non potrà mai essere interamente riassunta nelle improvvisate parole del modesto servitore che qui scrive, che forse non lo ha ascoltato ancora abbastanza da poter scrutare tutte le infinite rotte che si ramificano da ogni metafora, che si fà mondo in chi parla.
Continuiamo allora ad ascoltare, ché la rima non è mai un archivio chiuso e l’ascoltatore non è un residente dotato di mappa, ma piuttosto un vagabondo, senza mappa alcuna, ma con tutto il resto: “el tesoro, el timón, la brújula y la bitácora.”

ascolti
  • Zof Ziro, La Bomba de Ziroshima, Moebiuz, 2016.