Si chiamano preppers, perché si preparano. Alle catastrofi climatiche, all’attacco nucleare, allo tsunami, alle pandemie, all’asteroide che colpirà la Terra, alle tempeste solari, alla guerra batteriologica, alla III guerra mondiale. Ma soprattutto, nella maggior parte dei casi, si preparano al momento in cui il collasso economico e finanziario trasformerà ogni angolo del territorio americano in un campo di battaglia. Tutti contro tutti, armati e preparati alla conquista o alla difesa di scorte di cibo e ogni bene di consumo, con l’unico e imprescindibile obiettivo di sopravvivere al caos e alla catastrofe. Non ci si chieda perché queste persone considerino la sopravvivenza un obiettivo in sé, perfino in scenari post-apocalittici in cui ben poco resterebbe a dare un senso alla permanenza su un pianeta devastato. Le risposte potrebbero essere molte, a cominciare da quel risveglio dei cinque sensi che talvolta è più facile incontrare nell’assoluta incertezza e nel tempo sospeso di uno scenario catastrofico piuttosto che in un’esistenza scandita dal nine-to-five dentro a un ufficio, i weekend allo shopping mall, le vacanze in Florida. Altre volte può essere anzi il caos a generare un inconscio desiderio del suo stesso ritorno, visto che alcuni preppers hanno vissuto Katrina o l’uragano Sandy, e si preparano al peggio proprio dal momento in cui il peggio li ha sorpresi. Ma non ci si soffermi, appunto, su interrogativi troppo filosofici e ci si concentri invece su alcuni “fatti”: sembrerebbero molti, secondo alcune stime moltissimi, gli americani convinti che una grave crisi economica e monetaria sia ormai alle porte, e il loro numero parrebbe essere cresciuto da quando Barack Obama ha riconquistato la Casa Bianca per la seconda volta; la cautela espressa dall’utilizzo dei verbi è dovuta al fatto che queste stime sono basate su discutibili sondaggi, e se questi avessero torto allora il picco nelle vendite di oro e armi registrato negli Stati Uniti all’inizio del 2013 potrebbe risultare soltanto una coincidenza. Che sia coincidente o meno, questo picco è un’altro “fatto”. Poi c’è l’indice di gradimento di Doomsday Preppers, il programma televisivo in questione. In onda dal febbraio del 2012 su National Geographic Channel negli Stati Uniti e ora anche sul canale italiano con il titolo Gli Apocalittici, è a detta dei suoi creatori lo show più seguito in quindici anni di storia dell’emittente, sebbene il palinsesto proponga numerosi altri show a contenuto catastrofico a placare le acquoline più avventurose… Apocalypse 101, Forecast: Disaster, Hell on the Highway, Locked Up Abroad, per citarne qualcuno.
Un sottobosco variopinto e inquietante
Poi ci sono i gruppi, siti, blog e forum, un gergo pieno di acronimi talvolta impronunciabili, come TEOTWAWKI, The End Of The World As We Know It, che evoca una mescolanza magica di tribù native e antichi linguaggi lovecraftiani, o WTSHTF, When The Shit Hits The Fan, metafora domestica dell’apocalisse che si legge come una stramba onomatopea di un fumetto Walt Disney e raffigura degli escrementi che per qualche inspiegabile ragione si trovano a colpire le pale di un ventilatore in funzione, provocando un esito irrecuperabile. E naturalmente una nicchia di mercato ampia e articolata di prodotti creati per ogni grado di preoccupazione, che varia da un minimale ed innocuo BOB identico allo zaino di un alpinista fino a un generale assetto dell’esistenza in funzione dell’imminente disastro. Più ci si approssima a questo grado estremo di preparazione più è facile che accanto al BOB, altro acronimo che esprime il più basico eppure ampio concetto di Bug-Out Bag, il bagaglio per fare armi e bagagli, contempla anche un BOV, il Veicolo per trasportare le armi e i bagagli, e un BOL, la Location dove rifugiarsi con le armi e i bagagli e praticare la sopravvivenza. Se la sequenza di questi acronimi può risultare irritante e produrre l’effetto di assistere a un brutto telefilm d’azione americano in cui un eroe father figure dice a moglie e bambini terrorizzati e in disperata attesa di istruzioni “Take the BiOBis, put’em in the BiOVi and drive the children to the BiOeL!”, non bisogna trascurare il loro potenziale magico e il loro contributo in termini di identificazione in una «comunità» in potenza.
Ma torniamo al programma, Doomsday Preppers–Gli Apocalittici, un reality show di dodici episodi giunto alla seconda stagione, sponsorizzato dallo United States Gold Bureau e la Wise Food Storage Company. I protagonisti sono scelti tra le migliaia di preppers che rispondono alla casting call sul sito di National Geographic, e in ogni episodio ne conosciamo tre, con le loro teorie sulla fine del mondo, il loro equipaggiamento e le provviste, le pratiche quotidiane di prepping e spesso i contributi creativi all’arte del survivalismo. A giudicare ogni prepper una “giuria di esperti”, che assegna un punteggio valutando il capitale del soggetto in termini di acqua, cibo, rifugio, sicurezza e fattore X, e produce una percentuale convertibile in mesi di vita dopo la catastrofe. La colonna sonora incalzante e la voce fuori campo sono quelle classiche del genere TV adventure documentary, e gli Apocalittici in questione sono coppie di hippy miliardari che si sono costruiti “rifugi” di qualche migliaio di metri quadri nei siti missilistici sotterranei dismessi del Kansas, per continuare a godere del piacere delle pratiche yoga e dell’idromassaggio quando il mondo fuori sarà precipitato nel caos; casalinghe disperate di cittadine ai confini con il Canada terrorizzate da sogni ricorrenti di catastrofi naturali e rassicurate dalle simulazioni di evacuazione in cui coinvolgono la famiglia una volta a settimana; ex-marine e contractor che non si preoccupano troppo di definire la natura del pericolo, che apparentemente non sono più in grado di vivere senza giocare alla guerra e riciclano l’addestramento militare offrendo corsi di survivalismo ad aspiranti preppers; produttori di musica folk obesi convinti che, nonostante la caduta del muro di Berlino, i russi siano pronti a buttare una bomba nucleare su Washington.
Le differenze rispetto alla prima generazione di survivalisti
Rispetto ai loro predecessori della Guerra Fredda, quando era il governo a promuovere per ovvie ragioni la necessità di costruirsi rifugi antiatomici e riempirli di provviste, questi survivalisti del terzo millennio sventolano la bandiera della ricerca come vessillo di Verità e autonomia di pensiero; molti dei protagonisti di Doomsday Preppers passano la metà del tempo libero a prepararsi e l’altra metà “doing research” (nel caso di nuclei familiari, talvolta ci si dividono i compiti), che essenzialmente significa entrare in Rete, digitare su Google l’argomento della propria preoccupazione e inoltrarsi nell’infinità di informazioni cui si approda (naturalmente seguendo, consciamente o meno, le tracce più consone alla propria teoria) con tutte le conseguenze dell’inevitabile quantità e dell’effetto prominente del focus. “Le osservazioni aleggiavano in uno stato di perenne flottazione. Non una sola cosa era più o meno plausibile di qualsiasi altra. Poiché eravamo stati strappati alla realtà, eravamo anche dispensati dal bisogno di distinguere”, racconta Jack Gladney nel mezzo dell’Evento Tossico Aereo che investe il Nord-Est degli Stati Uniti in un romanzo di DeLillo (1999). Ancor prima del verificarsi del catastrofico evento, inoltrarsi in una “ricerca” nella Rete può provocare uno strappo alla realtà niente affatto traumatico e impercettibile che porta a vagare all’infinito tra i capannelli di piccole folle da cui si irradiano “il vero, il falso e altri tipi ancora di notizie” (DeLillo, 1999). Come ha notato un commentatore del New York Times, dietro all’appeal televisivo di “fanatici armati accovacciati dentro a bunker in attesa della Fine dei Giorni”, a impegnarsi nella sistematica preparazione al peggio c’è una popolazione di “medici, portinai, presidi, conducenti della metropolitana, copywriter e coppie felicemente sposate del Bronx”. Lo stesso giornalista, Alan Feuer, confessa che dall’indomani della bancarotta di Lehman Brothers lui stesso possiede una Bug-out Bag, ha regalato alla moglie il “classico” Self-Sufficient Life and How to Live It del guru John Seymour (2009), ha acquistato quantità considerevoli di cibo liofilizzato e qualche moneta d’argento. Ma questo cosa dovrebbe significare, allora, che hanno ragione loro?
Quella degli Apocalittici è insomma una sorta di cieca professione di fede o una saggia attitudine preventiva dettata dagli inequivocabili segnali di cedimento del pianeta e dall’imminente crollo del capitalismo e dell’intera civiltà umana? Si rischia qui di incagliarsi in uno di quei ragionamenti circolari tipici dell’osservazione sociologica da cui difficilmente si può uscire con qualche genere di risposta. Tantomeno di questi tempi, in cui una rassicurante opinione maggioritaria non esiste più, e a predicare la Fine sono interessati ciarlatani, ma anche analisti finanziari o acuti osservatori del presente come Slavoj Žižek, per citarne uno, per finire con il mare magnum dei media e i torrenti del marketing, che inondano il pubblico (americano) di messaggi di Paura, Incertezza e Dubbio (FUD – Fear, Uncertainty and Doubt – altro esoterico acronimo che sta a indicare una diffusa tecnica di manipolazione e propaganda), invitandolo subdolamente a pensare al peggio e ad acquistare tutto ciò che occorre per farsi trovare pronti. Altro impedimento a uscire da tale circolarità è l’ormai pressoché nulla capacità della civiltà occidentale di dominare il proprio immaginario. Aton Edwards, Executive Director dell’International Preparedness Network e principale autorità in fatto di prepping nella Grande Mela racconta che il suo interesse per la preparazione ai disastri è incominciato quando da bambino andò al cinema a vedere Deliverance di John Boorman. L’Orda d’Oro di cui si parla nelle discussioni di survivalblog.com, “l’attesa grande onda assortita di rifugiati e saccheggiatori che esonderà in massa dalle aree metropolitane” richiama alla mente gli eserciti di non-morti di Walking Dead e un’intera cinematografia dedicata, e a guardare qualcuno di questi preppers non si fatica a immaginarli come i sopravvissuti all’apocalisse zombie di un classico Romero. Distinguere il reale dall’immaginario e dalla sua rappresentazione è probabilmente uno degli esercizi più illusori e arroganti del pensiero moderno. Per questa ragione si mette in guardia il lettore dalla presunta realtà descritta in questo stesso articolo, che non difficilmente potrebbe essere frutto di una magica illusione.
- Don DeLillo, Rumore Bianco, Einaudi, Torino, 1999.
- Alan Feuer, The Preppers Next Door, in The New York Times.
- John Seymour, Self-Sufficient Life and How to Live It, DK Publishing, 2009.
- Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, Milano, 2011.
- John, Boorman, Deliverance, Warner Bros, 1972.
- Frank Darabont, The Walking Dead, AMC Studios, 2010–.
- George Romero, L’alba dei morti viventi, Universal Pictures, 2004 (home video).
- Jeff Nichols, Take Shelter, Sound Mirror, 2016 (home video).