Quando si tenta di capire i lunghissimi e graduali passi in avanti, gli stacchi cognitivi che hanno permesso di farci diventare ciò che siamo e quindi quando vogliamo vedere quei salti, di solito andiamo a guardare con attenzione i segni delle caverne perché quelli sono i nostri gesti, le nostre parole, l’inizio della nostra immaginazione. È così che generazioni di paleoarcheologi risalgono da quelle grotte con scoperte straordinarie, portando in superficie tra i mille interrogativi anche il classico problema filosofico sulle idee innate o sull’impossibile esistenza nella mente di nulla che non sia passato attraverso le porte della percezione. A noi non resta che accorgersi che fare salti del pensiero, specie quelli essenziali per la vita, non significa solo dare avvio alla progressione dell’evoluzione, ma avere a che fare con la pesante responsabilità di decifrarli.
Una cosa è certa: molte discipline ci confermano che quando l’uomo sperimenta il fatto che un oggetto possa esistere anche quando non lo vede, in quel momento sta avvalendosi della sua facoltà di formare concetti astratti. Da questi dipendono sia la capacità fondamentale di archiviare rappresentazioni del mondo esterno che di reagire a esse anche quando gli oggetti reali non sono presenti.
Questo è il salto che sa fare l’Homo Sapiens e (sembra sempre più evidente), anche il Neanderthal. Dunque – visto che geneticamente parlando non è cambiato nulla tra il Sapiens e noi – è ora di ammettere la grande verità: non è più possibile chiamare i segni cavernicoli “preistoria” senza assegnare a quel “pre-” tutta la ricchezza e la compattezza di quello che verrà dopo. Senza considerare cioè d’avere a che fare con gli ingredienti di quella che da Erodoto in poi abbiamo cercato con tutte le forze di sistematizzare in una disciplina sempre insicura come la “storia”.
Le mani impresse nella Cueva de las Manos in Argentina.
Contare con le dita con agio cognitivo e poi tradurre l’operazione nel sistema dei contrassegni fisici è un salto impegnativo tanto quanto quello enorme e raffinato che ci ha portato al numero, con la sua astrazione e con il suo simbolo. Convertire qualcosa di tridimensionale in una rappresentazione visiva e bidimensionale è un altro di questi salti straordinari che ci porta a chiedersi come ci siamo arrivati trentamila anni fa? E che tipo di salto è stato? Ci si chiede se è stato un processo concettuale o percettivo. E soprattutto, se si può parlare di astrazione, laddove dall’esperienza dell’incontro reale e fisico con un leone o un bisonte, si passa alla superficie piana.
Prima fu il disegno…
Il saggio Il salto, Segni, figure, parole: viaggio all’origine dell’immaginazione, di Silvia Ferrara tenta di rispondere a queste domande, parlandoci di ogni genere di salto evolutivo: dai salti fisici, visibili nelle impronte di Yenikapi fino ai salti verso l’invisibile come le creature antro- e zoo- mitiche sulle pareti della grotta di Chauvet che vengono collocate nel periodo detto “aurignaziano”. Lo fa con un linguaggio piacevole molto lontano dalla polvere del saggio accademico, familiare si direbbe, se non fosse che si tratta di una scelta precisa dell’autrice di avvicinare il proprio modo di scrivere al laboratorio della studiosa che si occupa di decifrare l’origine della scrittura (cfr. Ferrara, 2021). A esser precisi questo è un libro di segni e dunque – come vuole la radice protoindoeuropea di questa parola – si occupa di ciò che ha a che fare con la parola sek, ovvero “tagliare”, “incidere” esattamente come accade alle figure dipinte, alle forme e alle silhouette di animali e ai segni non figurativi, astratti e geometrici che troviamo in tutto il mondo, da quaranta o forse sessantaquattromila anni a questa parte, sulle rocce delle caverne preistoriche sparse ovunque.
Quei segni sono il primo stacco cognitivo, l’inizio del salto che ci porterà ai codici e a tutta la comunicazione codificata. È possibile cioè che dentro tutte quelle immagini rupestri ci sia il punto zero della scrittura, tutto quello che la precede. Sono fasi di rodaggio di un grande laboratorio di creazione di grammatiche scritte che va dalla grotta La Pasiega in Spagna a quella intatta di Pech Merle in Francia o alla figura incisa di “bubalus” della grotta di Tassili n’Ajjer inAlgeria, passando dal Niger agli USA.
Le “classiche” pitture rupestri che si trovano sulle pareti della grotta di Lascaux.
La nostra mente li ha creati in diverse parti del mondo, in diversi contesti, con diversi risultati, da migliaia di anni. Anche i segmenti, i tratti verticali e orizzontali, intercalanti, hanno la stessa radice indoeuropea e prima ancora d’essere decorazione o segni religiosi, sono in tutto e per tutto tagli/incisioni, il che significa che quelle linee geometriche, i cerchi, le spirali e la loro particolare punteggiatura sono scrittura di pensieri, di paure, sogni, fatti intenzionali, politici, economici e amministrativi. Segni “astratti” solo per il lettore moderno ma tagli disegnati dai Neanderthal con una frequenza e un ritmo che è assai significativo per quanti volevano vedere una loro probabile estinzione a causa dell’arrivo dei Sapiens. In realtà, questi luoghi ci stanno confermando che tra le due specie si è trattato di convivenza con moltissime connessioni. Le popolazioni si sono spostate, incontrate, scambiate materiale genetico e competenze. Dunque ciò che ci lasciano per esempio, nella Grotta dei Cervi in Italia – ha un significato che non possiamo più permetterci di assegnare sempre e solo al culto. Si tratta di migliaia di esempi e non solo del classico Lascaux che ci chiedono di sospendere il concetto di religione per cominciare invece a rendersi conto che si tratta di “un’atmosfera narrativa” nella quale danza e caccia si fondono con le storie di magia, di trasposizioni e sovrapposizioni nelle quali è possibile rintracciare (oltre alle polemiche moderne) una certa continuità storica.
L’ipotesi dell’autrice (filologa interessata alle neuroscienze e a tutto ciò che chiama in causa storia, archeologia, antropologia, scienza cognitiva e psicologia evoluzionistica) è che il nostro cervello (in quanto Homo Sapiens) si prepari alla scrittura, molto tempo prima di quella sumera finora ritenuta la prima e unica.
L’evoluzione culturale delle discipline che integrano il suo lavoro di filologa le permettono di dire che il cervello ha imparato a integrare molte informazioni alle immagini, che sa stabilire ordine e dare un nome alle cose che disegna o forse disegna cose a cui è già stato dato un nome. Di questo se ne era accorta Genevieve von Petzinger giovane archeologa che Silvia Ferrara stima molto, per aver abbinato alle esplorazioni un computer e aver confrontato dati per studiare i contesti di quasi centocinquanta caverne da tutto il mondo. Applicando il metodo scientifico l’archeologa vede che ci sono degli schemi comuni e che molti di questi segni (per la precisione trentadue), sono gli stessi, osservati in tutti i continenti. Tra questi trentadue, anche le mani impresse nella Cueva de las manos in Argentina, secondo l’archeologa non sono semplicemente figure, ma immagini-codice cariche di intenzionalità.
Questi segni sono il nostro patrimonio più antico anche perché sono dappertutto, simili o uguali, in luoghi anche lontanissimi tra loro. Sono simboli che ci portiamo dietro da decine di migliaia di anni. Periodo che precede l’arrivo dei Sapiens e che il Neanderthal della sala XI nella Galleria C della grotta de La Pasiega ci conferma con ostinata sicurezza: la scrittura nasce dal disegno, punto!
I leoni sulle pareti della grotta di Chauvet.
La teoria che affianca questo Neanderthal ha un’implicazione importante e non poco controversa. Ci dice che quei simboli, (token) sono i precursori della scrittura e che le loro forme, impresse anche su tavolette di argilla servivano per mantenere memoria del conteggio fatto o dare informazioni su proprietà, costruzioni, territori. Segni che inseguito si sono sempre di più stilizzati fino ad assumere la forma di numeri e scrittura, creando le basi per il sistema che poi diventerà il cuneiforme. Stiamo parlando di qualcosa che è già in uso dodicimila anni fa, nel decimo millennio avanti Cristo, forse prima di Göbekli Tepe, quindi prima della nascita dell’agricoltura. Dunque, azzarda l’autrice, perfino i leoni di Chauvet (grotta che ricordiamo, è stata scoperta nel 1994) sono immagini più vicine a un sistema di codici comunicativi che all’arte figurativa vera e propria. Sono senz’altro pittogrammi cioè, ma è probabile che in futuro saranno decifrati più come parola e meno come arte.
Che cosa ha creato i segni?
Quali sono stati gli spunti, le ispirazioni? C’è una sorgente? E poi, la domanda ancora più importante: esiste una continuità storica, una comunicazione diretta, un percorso conduttore che unisce tutti? L’autrice si chiede se questi salti siano parte di una catena, o se sono anelli interrotti che viaggiano in parallelo. Per rispondere non si limita al racconto delle sue esplorazioni, ma si preoccupa di scoprire che ruolo gioca la nostra capacità cognitiva e biologica, ben sapendo che non sono domande a cui è facile rispondere. Se non altro, perché bisogna sapere cosa succede nella mente. Bisogna accorgersi insomma, una volta per tutte che anche ciò che chiamiamo segni astratti potrebbero essere iconici, proprio perché sono voluti, sono intenzionali. Non sono pittogrammi perché non sono segni specifici che rendono riconoscibile una rappresentazione figurativa. In queste grotte il pittogramma, se mai esiste costituisce una fase effettiva che si applica allo sviluppo di un sistema di scrittura, il quale (come indica il Neanderthal) inizia sempre con un assetto iconico e con referenti materiali chiari e identificabili.
Pitture ruspestri Navajo.
Queste considerazioni sono ovviamente possibili in un contesto di studio molto particolare come il gruppo di ricerca finanziato dall’European Research Council che svolge indagini sull’invenzione della scrittura con metodi di analisi interdisciplinare (linguistica, archeologia, percezione visiva e studi cognitivi, Digital Humanities) nel quale Ferrara ha lavorato a Londra. All’interno di questo ambiente, si studia che la mente umana sin dalle più antiche impronte di mani risalenti a duecentoventiseimila anni fa, ha incorporato gradualmente gli strati di cultura, i passaggi cognitivi che porteranno in quella direzione, strati che si aggregano con il passare delle generazioni di individui che imparano e trasmettono. E sempre in questi laboratori si vede che quando ci si forma l’immagine mentale di una cosa, pur nella sua assenza, creiamo un indice, che si associa alle proprietà di quella cosa (il colore, le dimensioni, la forma) che compongono le essenze del ricordo. Il ricordo – ci spiegano – è così intrecciato al corpo e al mondo esterno che per capire che cosa faccia uno, bisogna vedere che cosa succede in tutti gli altri.
Guardate: ho fatto un disegno. Da oggi in poi, questo è un bisonte!
Ognuno di questi salti che danno il nome ad ogni capitolo di questo libro, presuppone un contesto intenzionale complesso fatto di un apparato “pensante” (anche questo, inevitabilmente complesso), connesso ad altri fenomeni, come le mani, la faccia e la vocalità, architettura portante del linguaggio. Le lettere nascono dalle immagini e dalle storie che si narravano con tutte le strategie di cui abbiamo ancora bisogno: figure retoriche, giochi, grammatiche avanzate piene di metafore al fine di registrare, conteggiare, selezionare e poi raccontare tutto.
L’uomo è un animale gracile, lento, goffo, disarmato: ha dovuto inventare il sassolino, una pietra focaia, una lancia e quando ha visto un bisonte lo ha raccontato. È andato in una grotta e ha fatto dipinti di animali in luoghi oscuri, segreti, remoti, nascosti, inaccessibili. Per condurre tutte queste operazioni ha fatto dei salti, ampliando il suo sistema cognitivo e quello degli altri. La mente – ci dice la Ferrara – non è solo quello che fa il cervello, il fuori conta parecchio. Corpo, mente e il mondo fuori sono così intrecciati, che tutti questi passaggi cognitivi che porteranno in direzione della scrittura, sono da considerarsi come strati che si aggregano con il passare delle generazioni di individui che imparano e trasmettono. Questi segni hanno il potere dell’anticipazione: sono immaginazione lungimirante in azione. Sono la capacità di visualizzare il futuro, di prevedere ciò che potrebbe accadere e di rappresentarcelo in immagini che proiettiamo e muoviamo nella nostra testa. Ciò che l’autrice chiama Salto e altri chiamano evoluzione culturale è insomma crescita e ampliamento costanti dell’immaginazione umana.