Dunkirk è un film sul suono dell’orologio che si sovrappone al momento vivente, sul tempo narrativo che si anima curvandosi e flettendosi, sulla vita assediata dalla morte. Siamo abituati a percepire la seconda guerra mondiale come una mezza decade densissima, lunghissima e difficile da riassumere. Film e romanzi hanno alimentato questa percezione accrescendo a dismisura il peso specifico della fase storica. Ma proviamo a saltare dentro il 1940: il compimento della guerra lampo della Germania appare un rischio molto concreto. Si profila la possibilità di vedere in pochi mesi tutto il mondo sotto il dominio della svastica nazista. Sulle spiagge di Dunkerque nel nord della Francia sono bloccati 400.000 soldati inglesi e alleati.
Dietro: i fucili dei tedeschi.
Davanti: il braccio di mare che separa dall’Inghilterra.
Una moltitudine di ragazzini esausti e terrorizzati aspetta le navi tra siluri, cannonate e raid aerei. Tutti, coraggiosi e codardi, in balia di una macchina bellica soverchiante. Eppure una flotta di piccole imbarcazioni comandate da circa settecento civili inglesi riesce a “fare la Storia” attraversando la Manica per contribuire all’evacuazione dei soldati. Christopher Nolan sceglie di raccontare l’episodio posizionando uno sopra all’altro tre cerchi narrativi di ampiezza decrescente ovvero tre percezioni distinte dello stesso momento storico.
Una settimana tra spiaggia, molo e navi silurate è l’arco più ampio e narra le peripezie dei soldati in ritirata. Un giorno nella vita del padre di famiglia (interpretato da Mark Rylance) che affronta il mare con la sua imbarcazione per andare a recuperare qualche soldato. Un’ora nella carlinga di uno Spitfire con il pilota (interpretato da Tom Hardy) a caccia di aerei nemici per proteggere la ritirata. Tre cerchi che si distinguono per poi sovrapporsi, contrarsi e, infine, coincidere. Tre teatri di guerra per un’unica illusione: fare la Storia. Tre tempi narrativi per un’unica allucinazione: catturare la Storia.
Quando la forma è sostanza
Il marchio di Christopher Nolan sembra quello di smontare e rimontare il cinema come dispositivo. Prevedibile che intenzioni così ambiziose accendano dibattiti. Intanto Nolan è da anni stabilmente tra i primi cinque registi che hanno incassato di più nella storia del cinema. Ciò implicherebbe tracce di un qualche impatto emotivo non trascurabile o almeno la capacità di conferire spessore epico a soggetti non necessariamente originali. Tutto ciò nonostante la tecnica o grazie alla tecnica? Eccessivo formalismo in Nolan? Forse. Ma dov’è il problema? Anche ai tempi di Sergej Ejzenstejn l’attenzione alla tecnica e alla forma sembravano un oltraggio alla presunta qualità umana (naturalità?) insita nell’atto del narrare. In quanto pioniere e teorico del montaggio cinematografico Ejzenstejn veniva spesso accostato all’esperienza estetica dei formalisti russi. La sua filmografia e i suoi scritti (cfr. Ejzenstejn, 2004) sono votati alla teorizzazione del concetto di “montaggio intellettuale” ovvero produzione di senso e riflessione filosofica attraverso la messa in sequenza di immagini. Oggi è ancora possibile?
Christopher Nolan, grazie a una spiccata sensibilità postmoderna, riesce sempre a conferire un tocco particolare anche a progetti apparentemente scontati. Il Batman ne Il cavaliere oscuro è molto più vicino a Heat di Michael Mann di quanto non lo sia ai cinecomics Disney/Marvel. In questo senso Dunkirk, anche al netto delle complesse geometrie di montaggio, è comunque lontano da film di guerra più convenzionali come Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg (1998) oppure Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick (1957): si presenta come uno strano ibrido tra un disaster movie allegorico à la Titanic (1997) di James Cameron e un action movie d’assedio come Distretto 13 (1976) di John Carpenter. I nemici si vedono pochissimo e la seconda guerra mondiale si presenta inaspettatamente senza nazismo a fare da controcanto etico o politico.
In Dunkirk dialoghi e didascalie al minimo. Meno contesto e più azione, gesti, sguardi, sospensioni. Da notare l’uso di Tom Hardy, quasi sempre il volto coperto dalla maschera dell’ossigeno (ricorda Bane nella trilogia di Nolan su Batman). E poi ancora tante altre scelte sottrattive: niente stanze dei bottoni con politici e generali a definire strategie, niente didascalie sull’evento storico, niente indugi documentaristici. Soprattutto: niente backstory per i personaggi. Gli eroi sono veri e propri militi ignoti, giovani anonimi (e probabilmente incoscienti), sacrifici umani in pasto al dio della guerra. Film d’assedio più che war movie perché mette al centro la sopravvivenza, depurando il racconto da malinconie o motivazioni, da paralleli fronte/casa, prima/durante la guerra come in Salvate il soldato Ryan.
Il lavoro sul tempo
Partendo dalle lezioni di Kubrick, Nolan impara a sviluppare una formidabile capacità di entrare e uscire dal contesto (anche in uno stesso frame) costruendo audaci geometrie audiovisive. Ma proprio sul concetto di Storia le due strade si dividono: le radici del potere e il futuro approdo postumano sono i punti cardinali del percorso kubrickiano; l’allievo ambisce invece a riprodurre la teoria della relatività nel tessuto filmico facendo coincidere la curvatura temporale con il découpage. Rispetto al maestro, meno antropologia e più filosofia, provando a plasmare mondi tramite un discorso sul tempo. In questo senso Christopher Nolan è abile a collocare i suoi racconti all’esterno, ai margini, ai confini, nel punto in cui il viaggio sembra più lungo e difficile, se non impossibile. Le distanze appaiono sovrumane e scoraggianti. In Dunkirk il molo sembra una stazione per l’infinito. Il tempo dell’attesa viene bruciato aprendo e chiudendo la valvola della suspense. I momenti di pausa, quando emerge l’onnipresente ticchettio dell’orologio affidato alle cure di Hans Zimmer, preparano le numerose tempeste action. Un’ora, un giorno, una settimana: geometrie dichiarate con molta precisione all’avvio. Ma non si tratta banalmente di assumere la soggettiva psicologica di tre personaggi distinti. Non vi sono punti di vista divergenti tra loro: più che altro si arricchiscono a vicenda, ciascuno complementare agli altri. A pensarci bene si fa fatica a separarli come plot distinti, non solo per via delle intersezioni.
Il concetto di montaggio alternato viene portato a un nuovo livello.
Il suono e la musica sono apparentemente banali e monotoni come un ticchettio di orologio. Invece è proprio lì che si insinua il richiamo al fattore tempo e quindi al concetto di meccanismo narrativo. Quanta benzina resta? Quando arrivano le navi? Quanta acqua possiamo imbarcare prima di affondare? Ma a ben vedere (e sentire) al centro del sound design e della colonna sonora spicca l’effetto “scala Shepard” (cfr. Shepard, 1964) a generare un’ansia eternamente ascendente. Si tratta dell’illusione auditiva di una salita continua che sottintende un approdo finale in realtà mai raggiunto. Come il corso della Storia: incompiuto anche al termine di fasi apparentemente decisive come le guerre. L’unica costante sembra essere la sopravvivenza della specie umana: l’umanità brulicante sul molo e sulle imbarcazioni non ha nessuna intenzione di andarsene “docile in quella buona notte” (i versi di Dylan Thomas citati in Interstellar del 2014). In un certo senso la vitalità disperata dei giovani in fuga sulla spiaggia francese ricorda la corsa finale di Antoine Doinel ne I 400 colpi di François Truffaut (1959). Dunkirk si candida come la miglior (o almeno la più onesta) rappresentazione possibile della Storia senza storie. Visto dall’alto, senza le distrazioni di destini individuali, il flusso degli eventi d’interesse collettivo è sempre sostanzialmente irrisolto/irrisolvibile.
Riferendosi in particolare a pellicole dalla struttura cronologica complessa, Gilles Deleuze nota come “nei percorsi più larghi percezione e ricordo, reale e immaginario, fisico e mentale o piuttosto le loro immagini si rincorressero senza posa, correndo l’una dietro l’altra e rinviando l’una all’altra attorno a un punto di indiscernibilità” (Deleuze, 2017). Flettendo e manipolando il tempo tramite i tre cerchi concentrici, Nolan permuta vari possibili contatti tra il momento vivente dell’azione e i vari costrutti mentali teorizzati da Deleuze, in particolare l’immagine-cristallo. Analogamente a quanto già fatto in Inception (2010), il regista inglese costruisce uno spazio mentale (in Dunkirk appoggiandosi alla cornice dell’episodio storico) all’interno del quale far interagire strutture più piccole protese verso un punto teorico in cui la vicinanza tra realtà e rappresentazione è infinitamente piccola e quindi ineffabile. Tale punto sarebbe, sempre per dirla con Deleuze, “il cerchio più piccolo” ovvero quel “punto di indiscernibilità” in cui l’immagine attuale e il suo doppio virtuale si saldano. In questo modo le immagini sonore scandite da un tempo filmico (meglio se non lineare) vanno oltre il senso di mero strumento di narrazione, di conoscenza o di rievocazione: proprio in virtù della loro doppiezza possono diventare strumenti dinamici di riflessione filosofica.
Sulla durata e il ricordo
Sin da Memento (2000), Christopher Nolan ha mostrato interesse per la struttura del flashback portandola poi a un livello più complesso al fine di esplorare il concetto di tempo e memoria nell’arco di una certa durata. Da una parte l’arco narrativo stesso del film può suggerire delle curvature più o meno ampie; dall’altra ricordi che partono da lontano ovvero quei “percorsi più larghi” che magari toccano strutture latenti o nebulose dell’immaginario. Qualunque sia l’origine, i ricordi si condensano in schegge di pensiero violentemente riattualizzate nel momento dell’azione o nei punti di svolta narrativa. Ma se Deleuze parla di immagini come entità intrinsecamente doppie (attuale/virtuale, presente/passata, reale/immaginaria), il discorso di Nolan sembra volersi poggiare su questa doppiezza per dare forza alla sua conclusione: non è possibile restituire una rappresentazione definitiva del momento storico. Detto sulle note di una scala Shepard.
Ecco il senso del discorso di Nolan: coscienza oppure orologio, nel tempo scolpito in Dunkirk non c’è spazio per l’eternità immobile e la Storia può essere vista solo come divenire senza sosta. L’evacuazione di Dunkerque è un semplice segmento (anche fisico) che porta da un punto A a un punto B, non oltre. Il viaggio e le attese sono come movimenti che legano tutto in una eterna migrazione verso qualcosa: il miglioramento che viene dalla sconfitta e dalla lezione appresa (la ritirata strategica), l’avventura di umani che si ingegnano per sopravvivere (i mille sotterfugi dei soldati in cerca di un passaggio), infine la morte biologica e il transito nella Storia (la prima pagina dei giornali, il discorso di Churchill fuori campo). Questi 106 minuti emozionano e trascinano ma ci ricordano anche che la Storia non ha un finale e non è possibile sorprenderla con un fotofinish.
- Sergej Ejzenstejn, Teoria generale del montaggio, Marsilio, 2004.
- Roger N. Shepard, Journal of the Acoustical Society of America, 36, 2346, 1964.
- Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Einaudi, Torino, 2017.
- Christopher Nolan, Interstellar, Warner Bros, 2015 (home video).
- Christopher Nolan, Inception, Warner Bros, 2010 (home video).
- Christopher Nolan, Memento, Eagle Pictures, 2011 (home video).
- Stanley Kubrick, Orizzonti di gloria, Twentieth Century Fox, 2002 (home video).
- Steven Spielberg, Salvate il soldato Ryan, Universal Pictures, 2010 (home video).