Lev Manovich, in uno dei suoi scritti più significativi, Software Culture, pubblicato nel 2010, partendo dalla visione di Alan Kay e dalla definizione di Adele Goldberg del computer come “meta-medium”, sottolinea l’importanza del software nella riscrittura filologica dei sistemi mediali, con uno sguardo profetico sulla mutazione che deriva dall’ibridazione e dalla deep remixability: non si mescolano più solo i contenuti, ma i media stessi (cfr. Manovich, 2016).
Una remixabilità definita “profonda” proprio perché vede oggetto non solo il semplice contenuto delle differenti piattaforme mediali, ma anche le loro tecniche fondamentali, le modalità di rappresentazione ed espressione. I medium stessi, una volta digitalizzati si interpolano in un unico medium digitale, basato su una piattaforma comuna: quell’unico meta-medium che può utilizzare tutte le tecniche precedentemente dominio dei singoli media.
Il software, per sua natura, si evolve con velocità grazie alla mancanza di legami con infrastrutture pesanti dal momento in cui l’hardware diventa una base sufficientemente standardizzata, le piattaforme prendono il sopravvento su qualunque forma di ri-organizzazione mediale.
Si è parlato molto, nell’ambito della cosiddetta sociologia digitale, dell’impatto dei media informatici sull’esperienza dello spazio e sulla rimodulazione della percezione e dell’azione a distanza. La digitalizzazione delle pratiche e degli artefatti culturali ha implicazioni significative che ri-strutturano le nostre relazioni anche per ciò che riguarda la dimensione temporale, sia con il futuro che con il passato.
Quest’influenza reciproca fra società e sfera mediologica è stata al centro degli studi di Harold Innis, capostipite della scuola di Toronto. In particolare le sue opere Impero e comunicazione (1972) e The Bias of Communication (1991), gettano le basi per tutti gli studi che successivamente andranno ad analizzare le modalità di comunicazione come agenti centrali di trasformazione delle civiltà. Lo studioso canadese ha analizzato le civiltà tracciando i cambiamenti nei materiali e nelle tecniche utilizzate per organizzare le attività sociali, comunicare nello spazio e trasmettere la conoscenza nel tempo. Ha confrontato e valutato queste civiltà in base alla loro sfera mediale.
L’analisi di Innis sul rapporto tra tecnologie della comunicazione e il cambiamento culturale si è estesa solo fino all’era della carta stampata e della radio. L’eredità di Innis fornisce, tuttavia, un’occasione per meglio comprendere l’impatto dei media digitali nella loro versatilità.
Alan Turing, con il suo famoso esperimento in cui dimostra come qualunque “macchina di Turing” (in estrema sintesi, un modello astratto che definisce una macchina in grado di eseguire algoritmi) può simulare qualsiasi altra macchina di Turing, ci autorizza a superare definitivamente la materialità del media, complicando un assioma fino ad allora imprescindibile; costruendo, tuttavia, un immaginario di permanenza dell’informazione distaccato dalla realtà: per quanto i media possano cambiare forma e sostanza, non dobbiamo dimenticare l’importanza della persistenza del legame con la materialità.
Gli effetti culturali della mutevolezza degli standard di memorizzazione sono accentuati dalla percezione dell’immaterialità dei dispositivi di memorizzazione dei dati. Un senso di “magico” distanziamento dalle informazioni è rappresentato dalle soluzioni di storage cosiddette “cloud”, che si sono affermate gradualmente come la soluzione dominante per la memorizzazione di quasi tutti i dati; un cambiamento radicale nella produzione e nella registrazione della conoscenza che a differenza dei media precedenti, è una tecnologia ascritta a una “scatola nera” in cui la tecnica risulta nascosta, remota e invisibile, lontano dalla mano e dall’occhio dell’utente.
Molti dei cambiamenti nella cultura informatica nell’ultimo mezzo secolo possono essere attribuiti a cambiamenti nei materiali e nell’economia della produzione. La complessità dei cambiamenti culturali associati alla proliferazione dei media digitali è una manifestazione della complessità materiale dei computer come dispositivi fisici, così come della complessità dell’informazione.
Netflix, Fortnite e Google, esemplari di mutanti mediali
Reed Hastings, CEO di Netflix, durante l’ultima riunione per illustrare i risultati finanziari dell’ultimo trimestre del 2018, ha affermato che, ad oggi, il concorrente diretto del gigante mondiale dello streaming OTT è Fortnite, un videogame.
Fortnite, sviluppato da Epic Games, è uno dei videogame più giocati al mondo, con oltre 250 milioni di utenti registrati, distribuiti tra PC, console di ultima generazione e piattaforme mobili, nonché uno dei più seguiti, dal punto di vista performativo, su YouTube e Twitch.
Fortnite ha attirato l’attenzione di attori estranei al settore del gaming, come attori o altre celebrità, venendo menzionato molto spesso da giornali e trasmissioni televisive, non ultima la sua apparizione in Avengers: Endgame (2019), ricambiata con la presenza di Thanos e di alcune armi del mondo Marvel all’interno del videogioco.
Inizialmente nato come videogioco PvE (“Player versus Environment”) ottenne dal mercato una tiepida accoglienza. Nel marzo 2017 la casa di sviluppo Bluehole lancia sul mercato il videogioco PlayerUnknown’s Battlegrounds (solitamente abbreviato in PUBG), in cui 100 giocatori vengono paracadutati su un’isola col fine di ricercare armi ed equipaggiamento per eliminare gli avversari fino a rimanere gli unici superstiti e ottenere la vittoria: questa modalità verrà definita “battle royale”, prendendo spunto dall’omonimo film cult giapponese in cui gli studenti di una scuola sono costretti dal governo a combattere a vicenda per la sopravvivenza (cfr. Feldman, 2018). PUBG ottiene fin dal principio un grande successo, diventando già ad agosto 2017 il sesto titolo per PC più giocato, posizionandosi in coda a giganti del panorama videoludico come League of Legends, World of Warcraft o Grand Theft Auto V (cfr. Osborn, 2017).
Ironia della sorte, o del videogame business, PUBG utilizza il motore grafico Unreal Engine 4, prodotto e concesso in licenza d’uso proprio da Epic Games, la casa di sviluppo produttrice di Fortnite. Epic Games, assistendo all’inarrestabile scalata delle classifiche da parte di PUBG, propone Fortnite: battle royale in versione Free-to-Play per Xbox One, Playstation 4 e Pc. La struttura di gioco di Fortnite è simile a quella di PUBG pur essendo caratterizzata da un’ambientazione meno seriosa, in qualche modo più family friendly, con una grafica da cartoon, dove non ci si paracaduta da un aereo cargo ma da uno stravagante Battle Bus, uno scuolabus che fluttua in aria grazie ad un pallone aerostatico posizionato sopra di esso (Feldman, 2018).
Fortnite, come sottolineato in precedenza, è un gioco Free-to-play, non ha costi di accesso e non richiede di abbonamenti on-line per giocare (nemmeno quelli delle piattaforme cui si appoggia, Playstation Network e Xbox Live). Epic Games ha deciso di generare ricavi esclusivamente attraverso la vendita di beni virtuali di natura cosmetica, che forniscono al giocatore soltanto peculiarità estetiche senza assicurare alcun vantaggio competitivo al giocatore.
Tornando all’affermazione di Hastings, per certi versi sorprendente, possiamo osservare la sua lucida visione della direzione intrapresa dal mediascape contemporaneo. Il semplice modello narrativo trans-mediale o cross-mediale (cfr. Evans, 2011; Giovagnoli, 2011) sembra non essere più adatto a rappresentare lo status quo; non sono più solo le narrazioni a trasformarsi e a suddividersi per occupare l’intero sistema dei media, ma i media stessi mutano forma (e sostanza) ibridandosi in un mercato dai confini sempre più indistinti.
Netflix, per esempio, nacque sul finire degli anni Novanta e all’alba del www a Los Gatos, in California, come servizio per il noleggio di DVD, VHS e videogiochi tramite posta. Mediante il sito web, era possibile scegliere il prodotto da noleggiare e attendere l’arrivo via posta del prodotto. La formula del noleggio singolo stentò a decollare così Hastings decise di trasformarlo in un abbonamento mensile senza limiti, dando al cliente la possibilità di scegliere tre titoli, riceverli via posta, restituirli e riceverne altri anche più volte nello stesso mese. Netflix, con la sua vocazione alla mutazione, è un perfetto esempio dell’esprit du temps: parliamo, infatti, di un’impresa che, nata come videonoleggio postale, si trasforma in Over The Top Television (cfr. Wolk, 2015) nel febbraio 2007, affiancando al noleggio di film una piattaforma per lo streaming video.
Sempre con un abbonamento mensile, grazie agli sviluppi tecnologici della rete, i clienti potevano guardare direttamente sul sito di Netflix tutti i film e le serie tv vuole senza alcun limite. Con oltre venticinque milioni di utenti negli USA, Netflix, nel 2013, entra in rotta di collisione con i network Pay per view come HBO, investendo nella produzione originale di serie tv e film. Si parte nel marzo del 2011 con House of Cards, serie tv basata sull’omonima trilogia dello scrittore inglese Michael Dobbs, che racconta i retroscena della politica britannica. Dal gennaio del 2016 Netflix ha portato il suo servizio di streaming in oltre 190 Paesi nel mondo, raggiungendo, nel 2018 la cifra record di 140 milioni di abbonati.
Il 28 dicembre 2018 Netflix, nell’ottica di differenziare la propria strategia di distribuzione di contenuti e, allo stesso tempo innovare l’offerta e la modalità di raccolta di dati relativi al proprio pubblico (forse il vero core-business dell’azienda californiana) ha rilasciato uno strano esperimento, all’interno della serie antologica Black Mirror (2011, -), un episodio che potremmo racchiudere nel genere (solitamente letterario) del “choose your own adventure” (in italia molto diffuso negli anni Ottanta e Novanta come “librogame”) chiamato Bandersnatch.
A partire dalle prime ore dall’uscita, i fan si sono messi al lavoro decodificando i filoni narrativi, analizzandone il simbolismo, a caccia di indizi e citazioni. La dedizione del fandom ai processi comunitari di decodifica non è un fenomeno nuovo, soprattutto nelle serie tv di genere mistery (basti pensare a Lost o Twin Peaks) così come le narrazioni interattive non lo sono per Netflix, sperimentate sin dall’inizio del 2017. Tuttavia, Bandersnatch è il primo grande successo di Netflix in questo formato e potrebbe aprire la strada a un nuovo flusso di entrate per il gigante dello streaming, e una naturale estensione della sua infrastruttura esistente.
Il formato interattivo offre a Netflix alcuni chiari vantaggi: è più difficile da piratare rispetti ai classici audiovisivi lineari e la sua natura di puzzle incoraggia un coinvolgimento più attivo dei fan rispetto alla maggior parte dei progetti. Ma il vantaggio maggiore risiede nei dati che Netflix può raccogliere dalla partecipazione degli utenti e nei modi in cui i dati possono essere utilizzati per creare un’infrastruttura interna di marketing.
Netflix, infatti, è stata una data company dapprima di essere produttrice di contenuti. Il suo algoritmo di raccomandazione è stata una delle prime caratteristiche che ne hanno decretato il successo, un sistema per decodificare il pubblico televisivo, da sempre opaco alle letture del marketing. Grazie a queste informazioni, Netflix ha potuto personalizzare la propria offerta con la creazione di “micro-generi”; la capacità di lettura del gusto dei propri clienti gli ha permesso il dominio del mercato delle Over The Top Television (cfr. Marrazzo, 2016).
Includendo un numero di decisioni interconnesse all’interno di un’unica narrazione, Bandersnatch permette di ottenere una più solida ricerca di modelli e intuizioni nell’analisi delle tendenze rispetto ai contenuti tradizionali. Laddove Netflix ha, in precedenza, focalizzato la raccolta di dati sui modi in cui gli spettatori si sono confrontati con i contenuti offerti – cosa hanno visto, quando e per quanto tempo – questi nuovi dati vanno più in profondità, mostrando, per esempio le preferenze verso alcuni prodotti, i gusti musicali e il coinvolgimento con alcune scelte (etiche e personali) intraprese dai protagonisti.
Bandersnatch rappresenta una nuova forma di data mining che fornisce a Netflix informazioni più ricche e specifiche che in passato. Queste potrebbero essere utilizzate per orientare le scelte autoriali o anche, in uno scenario forse più inquietante affine alle tematiche affrontate in Black Mirror, essere rivendute a terzi.
Anche il gigante dell’Internet economy Google, nato come motore di ricerca e divenuto media company a 360 gradi, non perde occasione per reinventarsi e invadere nuovi mercati: dopo aver preso d’assalto il mondo degli smartphone con la piattaforma (e i servizi correlati) Android, l’ultimo eclatante progetto è quello dell’annunciato servizio STADIA, una piattaforma di GaaS, Gaming as a Service, che potrebbe rivoluzionare il modo in cui fruiamo dei videogame, eliminando la necessità di acquistare una console o un PC per giocare: basterà uno schermo e un dispositivo di input, al resto penserà la potenza di calcolo dei server di Google. Una sfida, dal punto di vista tecnico, affascinante e impervia: pur essendo apparentemente un servizio che sembra condividere molte soluzioni tecnologiche con lo streaming video, trasformare il videogame in un servizio remoto è decisamente più ambizioso, complesso e problematico.
Il Gaming as a Service (GaaS) è un concetto relativamente nuovo nel campo dell’informatica e del cloud computing. Si tratta di fornire videogiochi on-demand ai consumatori attraverso l’uso di tecnologie cloud (cfr. Cai et al., 2014). Un vantaggio della tecnologia cloud è il trasferimento dello sforzo computazionale da un dispositivo utente relativamente debole (o thin client) a server cloud più potenti. Il paradigma del thin client, nato in ambiti professionali nei primi anni Novanta, sembra essere la strada da seguire: il passaggio da multimedia a meta-medium sembra palesarsi in maniera sempre più definita. Il conflitto per la conquista del loisir dello spettatore sembra aver luogo in un unico campo, dove si fondono, si influenzano, trans-mutano pratiche differenti i cui confini appaiono sempre più sfumati. L’impatto sociale, economico, occupazionale diviene sempre più rilevante, espandendo l’importanza del tempo libero fino a renderlo la base su cui ri-costruire interi spazi dell’organizzazione sociale. Sempre ponendo la dovuta attenzione alla fisicità dei media che, per quanto digitalizzati e apparentemente dematerializzati, si scontrano inevitabilmente con ostacoli che appartengono alla sfera dell’hardware.
- Wei Cai, Min Chen, & Victor C. M. Leung, (2014). Toward gaming as a service, IEEE Internet Computing, volume 18 n. 3, maggio/giugno, Los Alamitos, California, 2014.
- Elizabeth Evans, Transmedia Television: Audiences, New Media, and Daily Life, Routledge, Londra, 2011.
- Brian Feldman, The Most Important Video Game on the Planet. New York Magazine, 09/07/2018.
- Max Giovagnoli, Transmedia Storytelling: Imagery, Shapes and Techniques, Etc Press, Pittsburgh, 2011.
- Harlod A. Innis, Empire and Communications, Rowman & Littlefield, Washington DC, 1972.
- Harlod A. Innis, The Bias of Communication, University of Toronto Press, 1991.
- Lev Manovich, Software Culture, Edizioni Olivares, Milano, 2016.
- Francesco Marrazzo, Effetto Netflix: Il nuovo paradigma televisivo, Egea, Milano, 2016.
- Edgar Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, Milano, 2017.
- Mario Tirino, Antonio Tramontana, I riflessi di «Black Mirror». Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, Rogas, Roma, 2018.
- Alan Wolk, Over the Top: How the Internet is (Slowly but Surely) Changing the Television Industry, Createspace Independent Publishing Platform, Seattle, 2015.