Tra le letture preferite del piccolo Martin Rees nell’Inghilterra degli anni Cinquanta c’era Eagle, una serie a fumetti che raccontava le gesta di Dan Dare, “pilota del futuro”. “C’erano bellissime illustrazioni di città in orbita, gente che volava con i jetpack e invasori alieni”. Non c’è da meravigliarsi se la generazione di Rees “seguì con entusiasmo le imprese eroiche dei pionieri”, dal momento che “le tute degli astronauti della Nasa (e dei cosmonauti sovietici) mi erano familiari, tanto quanto le procedure di lancio e rientro”. Oggi Martin Rees è dal 1995 Astronomo reale britannico, dal 2005 membro della Camera dei Lord e fino al 2010 presidente della Royal Society. Ma è anche e soprattutto un attento studioso del futuro. Nel 2003 pubblica Il secolo finale, testo che tra i primi introduce il concetto di “rischio esistenziale” e associa l’accelerazione del progresso tecno-scientifico a possibili scenari estintivi per la civiltà umana entro questo secolo. Il nostro futuro, pubblicato quest’anno e subito portato in Italia dalla nuova collana Visioni della Treccani, condensa le visioni del futuro di Rees “in qualità di scienziato, di cittadino e di membro preoccupato della specie umana”. Dopo questo titolo, la collana ha proposto La terra, la storia e noi, denso trattato sull’evento Antropocene degli storici francesi Christopher Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz, e il testo-manifesto di Peter Frase, Quattro modelli di futuro, pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Verso con il titolo Four Futures. Insieme, questi tre titoli ci offrono un itinerario privilegiato per addentrarci tra i nostri futuri possibili.
Il futurismo ben temperato
Partiamo da Rees. Il suo è un testo classico di futurologia (o futurismo: in Italia si sta affermando questa traduzione dell’anglosassone futurism per cercare di sottrarla al suo pesante retaggio ideologico del primo Novecento). Similmente ai testi sul futuro di autori-scienziati come Isaac Asimov, Rees mette sulla bilancia i pro e i contro, ma con un esplicito caveat iniziale: la tecnologia, di per sé, non ci salverà. Non condivide affatto, scrive, i “toni enfatici dei progressi non solo materiali ma anche morali che ci attendono”. È vero, “grazie alla tecnologia la maggior parte dell’umanità ha visto progredire la propria condizione in termini di durata della vita, di salute e di istruzione, ma la distanza tra realtà e possibilità non è mai stata così grande”.
Si riferisce, in particolare, alla spettacolare sproporzione tra i mille individui più facoltosi del pianeta e il miliardo di persone più povere del mondo. “Il fatto che non si riesca a risolvere questa urgente crisi umanitaria, sebbene gli Stati moderni abbiano il potere di farlo, getta un’ombra di dubbio su chi, a livello istituzionale, è convinto che vi sia stato anche un progresso morale”. Questo già ci fornisce un prezioso indizio su come è cambiata la nostra idea del futuro.
Certo, il futurismo oggi continua in maggioranza a decantare le magnifiche sorti e progressive offerte dall’accelerazione tecno-scientifica, e non parliamo solo del movimento transumanista (cfr. Pinker, 2018; Diamandis e Kotler, 2019; Ridley, 2013). D’altronde, è facile lasciarsi incantare dal progresso quando si è pieni di soldi. Lo è anche Rees, naturalmente, che però non ha mai smesso di porsi domande su dove stiamo andando, come aveva fatto con le sue lectio poi raccolte nel libro Da qui all’infinito: una riflessione sul futuro della scienza (2012) che abbandonava i tradizionali toni enfatici del divulgatore scientista per mettere in guardia dai limiti di un paradigma scientifico che non lascia spazio al dubbio. Rees, invece, si lascia eccome trasportare dai dubbi e Il nostro futuro parte proprio dalle minacce che la nostra civiltà è chiamata ad affrontare: il cambiamento climatico, la guerra nucleare, la perdita di biodiversità, il cambiamento demografico.
Sul lungo termine siamo tutti morti?
Nel secondo capitolo Rees affronta le principali sfide tecnologiche, dall’ingegneria genetica all’intelligenza artificiale, condividendo le speranze di un decisivo miglioramento della specie umana grazie al loro impatto positivo, ma mettendo anche in guardia dai rischi: l’eugenetica, l’uso delle biotecnologie per finalità terroristiche, la disoccupazione tecnologica, la superintelligenza artificiale che potrebbe porre fine alla vita umana, nonché nuove frontiere scientifiche oggi inimmaginabili che però potrebbero concludersi in esperimenti fuori controllo tali da mettere a repentaglio il mondo.
La conclusione di Rees è che senza una revisione del principio di precauzione e una solida regolamentazione per impedire fughe in avanti della ricerca tecno-scientifica finiremo con un nuovo Progetto Manhattan, ossia con una nuova spada di Damocle sul destino dell’umanità emersa per l’incoscienza degli scienziati, privi di un codice etico che li porti a dubitare della liceità morale delle loro azioni. Da astronomo, Rees non dimentica di discutere del futuro umano nello Spazio, nel terzo capitolo, ma conclude sostenendo che molto probabilmente toccherà alle macchine colonizzare il Sistema Solare. Nelle conclusioni, dopo averci nuovamente messo in guardia, dei limiti della scienza, Rees ribadisce che non sarà la tecnologia a salvarci da queste minacce, ma solo l’intelligenza, in particolare l’intelligenza collettiva come civiltà. Aspetto essenziale dell’intelligenza è la capacità di anticipare i rischi ed evitarli: pertanto, secondo Rees, occorrerà una società maggiormente in grado di guardare al lungo termine.
Il cuore di tenebra del capitalismo
Una delle scoperte più sorprendenti a cui sono arrivati Bonneuil e Fressoz nel loro libro La Terra, la storia e noi è che i nostri antenati avevano già capito tutto su come sarebbe andata a finire secoli prima che iniziassimo a sentir parlare di Antropocene. Sì, è vero, siamo entrati in un’epoca nuova della storia umana e forse della storia del pianeta, ammettono i due autori, a causa dell’impatto devastante del progresso tecnologico e della crescita industriale sulla biosfera; ma non è affatto vero che abbiamo acquisito la consapevolezza di questi problemi solo da pochi anni o decenni. Anzi:
“La storia dell’Antropocene è una storia delle disinibizioni che hanno normalizzato l’insostenibile: l’igienismo che scavalca la medicina ambientale del XVIII secolo, la norma tecnica che azzera le contestazioni e diviene l’ontologia dell’amministrazione delle nocività ambientali, la proliferazione di oggetti che hanno dato forma al soggetto antropologico liberista, il Pnl e la nozione di economia che hanno imposto l’idea di una crescita infinita, le ‘soluzioni’ tecno-scientifiche che in ogni epoca hanno preteso di migliorare la gestione della natura fino a portarla al massimo rendimento sostenibile e, oggi, il ‘capitalismo verde’, che integra la critica ambientalista della sua utopia finanziaria della compensazione generalizzata”.
Esistono diverse spiegazioni alla domanda sul perché abbiamo dovuto attendere così tanto tempo per iniziare ad affrontare il problema. Una di queste, suggeriscono gli autori, è che per tutta la storia umana abbiamo considerato l’ambiente e il clima come del tutto indipendenti rispetto alla nostra presenza. La Natura ci ignora, ergo possiamo fare quello che vogliamo, lei continuerà ad agire indifferente nei nostri confronti. Non è così, hanno dimostrato gli scienziati; ma non è mai stato così: il passaggio dall’economia dei cacciatori-raccoglitori a quella agricola ha trasformato l’ecosistema, così come lo sterminio delle civiltà indigene americane dopo l’arrivo degli Europei, e ancora le enclosures in Inghilterra, la deforestazione dell’Europa, le miniere.
Profeti di sventura
Sapevamo perfettamente quel che stavamo facendo. Charles Babbage già nel 1832 osserva che le macchine a vapore “emettono costantemente nell’atmosfera enormi quantità di acido carbonico e di altri gas nocivi per la vita animale”. La prima commissione d’inchiesta sull’entità degli scarichi tossici dei motori a vapore risale addirittura al 1819. Preoccupazioni sull’esaurimento delle risorse naturali, come il carbone, sono al centro di diversi studi dell’Ottocento, oltre un secolo prima di diventare materia di analisi del Club di Roma. Quello che si verifica, sostengono Bonneuil e Fressoz, è che l’economia viene gradualmente svincolata dalle restrizioni naturali. Dopo la crisi degli anni Trenta, John Maynard Keynes è tra i teorici di questa rivoluzione copernicana: l’esaurimento del carbone non avrà conseguenze perché l’economia si fonda sulla corretta circolazione della moneta. “Grazie alla smaterializzazione, l’economia può finalmente essere concepita come qualcosa in grado di crescere indefinitamente, libera da qualsiasi determinismo naturale e senza alterare i limiti fisici, sotto la stretta sorveglianza di economisti esperti”.
La tesi di fondo di La Terra, la storia e noi è la stessa del libro di Rees. La scienza, da sola, non basta. Il problema vero è la “lunga azione di contenimento e imbavagliamento degli allarmi scientifici e delle contestazioni sociali” che si sono susseguiti nei decenni: “Dobbiamo tenerci alla larga dall’illusione scientista secondo la quale la presa di coscienza ecologica e la «salvezza» possono venire solo dagli scienziati, e non anche dalle lotte e dalle iniziative di altri terrestri”. Ecco perché è vero quell’adagio, reso celebre da Mark Fisher nel suo Realismo capitalista (2009), secondo cui “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Oggi siamo imbrigliati in un presente continuo e persistente, quello della postmodernità, che non riesce a uscire dalla bolla costruita dal capitalismo e che anzi immagina un solo futuro possibile, quello della grande narrazione della crescita perpetua e della legge di Moore. Questo futuro unilaterale, egemonico, imposto dall’1% del mondo, bianco, maschio e occidentale, è tuttavia attraversato da due potenti spettri, come osserva Peter Frase nell’incipit di Quattro modelli di futuro: la disoccupazione tecnologica e l’Antropocene.
There Is No Alternative (?)
Del secondo ci siamo già occupati. Del primo si occupa anche Martin Rees nel suo libro, e sono così tanti i testi, i report, gli articoli pubblicati negli ultimissimi anni su questo pericolo che Frase si chiede perché continuare a scriverne. Ma il problema è che, esattamente come per l’Antropocene, sappiamo che esiste un problema ma non sappiamo come affrontarlo, perché il sistema non fornisce alternative, anzi si fonda esattamente sul principio There Is No Alternative. E allora? Allora diventa necessario “aprire” il futuro a nuove possibilità.
Frase ne individua quattro, incrociando quattro variabili: la coppia abbondanza-scarsità, che fa riferimento al futuro del nostro sistema economico globale, e la coppia uguaglianza-gerarchia, che fa riferimento al futuro ordine politico mondiale. Da qui Frase elabora quattro scenari che sono in realtà degli idealtipi, ammettendo che si tratta di estremizzazioni e che la realtà è ben più complicata; queste quattro combinazioni sono: comunismo, socialismo, renditismo, sterminismo. Frase le analizza a partire dalla fantascienza, perché dopotutto sono stati gli autori di fantascienza i primi a immaginare tanto la disoccupazione tecnologica (Asimov) che l’età dell’Antropocene (James Ballard, William Gibson), ed elaborato scenari fantapolitici da cui è possibile trarre ispirazione. Un esempio per tutti: i replicatori di Star Trek, che sfornano senza alcun costo cibo, bevande, armi, medicine, vestiti, tutto ciò di cui i protagonisti hanno bisogno.
Sono alla base dell’economia dell’abbondanza che vige nella Federazione, l’organizzazione che regge la Terra e molti altri sistemi stellari. È un’utopia? In parte sì, ma meno di quanto fosse negli anni scorsi. In un futuro in cui tutto il lavoro è automatizzato, in cui l’energia non dipende più dalle risorse della Terra, e in cui la stampa 3D può rivelarsi in grado di riprodurre materiali e prodotti organici a partire da schemi salvati in cloud da designer di ogni tipo, i replicatori potrebbero rappresentare una realtà del domani.
A seconda dell’ordinamento politico, questa società dell’abbondanza potrà essere o profondamente egalitaria, come nel modello comunista finalmente avveratosi grazie alla piena automazione, ma dove non è vero che le gerarchie non esistono, semplicemente le gerarchie di status che oggi dominano la nostra società saranno svincolate dal reddito e fondate su concetti più nobili; o basata sulla rendita, derivante dalle leggi sulla proprietà intellettuale. Frase osserva che già oggi “la proprietà intellettuale sta diventando una componente sempre più importante dei beni della classe capitalista”, addirittura pari al 39% del PIL europeo nel 2013. In futuro coloro che sanno progettare nuovi prodotti da replicare potranno sfruttare la proprietà intellettuale per accumulare ricchezza.
Decrescita infelice
In un’economia della scarsità, le due alternative sono il socialismo e lo sterminismo. La premessa è quella di un futuro sconvolto dai cambiamenti climatici, dove la transizione a una società dell’abbondanza non è stata possibile e in cui bisogna affrontare un’economia in piena decrescita a causa della distruzione delle risorse naturali. Nel romanzo Pacific Edge di Kim Stanley Robison (1990, inedito da noi), Frase individua un modello di socialismo della scarsità del futuro, dove comunità di pari si associano per riciclare gli sprechi del passato e fondare su di essi la sopravvivenza della civiltà. Non il massimo, ma sempre meglio dello sterminismo. Qui, di fronte al collasso ecologico, le élite hanno deciso di mettersi al sicuro (in orbita, come nel film Elysium (Blomkamp, 2013) o in città-fortezze dotate di ogni comfort, come sembra già stiano pianificando i signori della Silicon Valley e i magnati dei paesi in via di sviluppo, costretti a convivere con slums sempre più grandi), lasciando che il resto della specie umana si estingua da sé.
In una società della scarsità, dove peraltro anche il lavoro è una risorsa scarsa (l’automazione si è comunque verificata), tutta questa manodopera in eccesso è uno spreco come i cavalli dopo l’introduzione dell’automobile. Nel migliore dei casi spariremo senza clamore, nel peggiore soccomberemo sotto una girandola di fuochi d’artificio degli arsenali di tutto il mondo, o in giganteschi universi concentrazionari.
In conclusione, Frase ci invita a riprendere in mano il nostro destino e ad abbandonare ingenue speranze in una tecnologia salvifica i cui vantaggi restano in verità nelle mani di pochi. È lo stesso messaggio anche degli altri due titoli. Il futuro è molto più fosco di quanto non fosse alcuni decenni fa, ma se lo è, è perché ci siamo rassegnati a viverlo passivamente anziché crearlo attivamente. Il turbocapitalismo, da questo punto di vista, è l’autentico responsabile: non solo della distruzione dell’ecosfera (non a caso molti, tra cui Bonneuil e Fressoz, preferiscono parlare di Capitalocene), ma anche delle diseguaglianze crescenti, dei rischi esistenziali della tecnologia e dell’indebolimento dell’etica globale.
- Peter H. Diamandis, Steven Kotler, Abbondanza. Il futuro è meglio di quanto pensiate, Codice, Torino, 2019.
- Mark Fisher, Realismo capitalista, NOT, Roma, 2018.
- Steven Pinker, Illuminismo adesso, Mondadori, Milano, 2018.
- Martin Rees, Il secolo finale, Mondadori, Milano, 2005.
- Martin Rees, Da qui all’infinito: una riflessione sul futuro della scienza, Codice, Torino, 2012.
- Matt Ridley, Un ottimista razionale, Codice, Torino, 2013.
- Kim Stanley Robinson, Pacific Edge, Tor Books, New York, 1990.
- Neill Blomkamp, Elysium, Universal Pictures, 2013. (home video).