Capita di interrogarsi su cosa effettivamente possa essere riconosciuto ancora come un teatro degno di nome; quale artifizio scenico conferisca una rilevanza e ancor di più una credibilità allo spettacolo dal vivo oggi: l’era della tecnologia, del trionfo dei media e delle intelligenze artificiali. Laddove la distinzione tra realtà e simulazione è talmente labile oggi, che da uno schermo, telefonico o cinematografico che sia, siamo abituati a egregi spettacoli di perfetta simulazione della vita, del reale, del tangibile e osservabile.
Riflettiamo poi su come sorprendentemente, nonostante il mutare dei tempi, dei mezzi e delle esigenze nella storia dell’uomo, il teatro è forse l’unico mezzo comunicativo che è sopravvissuto a tutte le rivoluzioni del mondo. Nato con la tragedia greca, il teatro ha cambiato forma e necessità, conservando però nella sua sopravvivenza la matrice originaria: il racconto fatto da uomini per gli uomini. Non per meravigliare con l’artificio, la tecnica, con la sola mimesi della realtà, ma per pura necessità sociale. Creare una relazione con la sola parola, il mezzo povero accessibile a qualunque uomo; lo sguardo, il tuono di voce, la magia di una percossa al cuore che ricevi con la singolare volontà di accoglierla.
Tornando alla questione originaria: esiste ancora un teatro che sia fedele all’antica matrice comunicativa? Avendo ora i migliori mezzi a disposizione, la sola parola, la danza di un attore che si agita dinanzi a noi, riesce ancora a scuotere i sentimenti degli uomini, continuamente sballottati in questa vita accelerata di immagini, impulsi ed informazioni? E seppur talvolta ci si possa sentire sfiduciati in merito, puntualmente assistiamo a sprazzi di luce che confermano che ancora esista un Teatro degno di nome. Un teatro che nella sua forma conferma le origini, del perché la società avesse bisogno di riunirsi dinanzi ad un uomo che si agita, e come straordinariamente nell’era digitale questa modalità sia ancora efficace.
Sopra e di seguito alcuni momenti dello spettacolo (© Flavia Tartaglia).
Tra gli ultimi esempi di ottimale riuscita del teatro italiano è da annoverare lo spettacolo Sanghenapule, vita straordinaria di San Gennaro, testo e drammaturgia di Roberto Saviano e Mimmo Borrelli, regia dello stesso Borrelli, andato in scena al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Lo spettacolo illustra la vita dell’atempore santo popolare, protagonista nella quotidianità del popolo napoletano e non solo. Protettore degli umili e dei buoni d’animo, anche quando superano il margine dell’errore e talvolta del reato, purché vi sia intenzione buona. La messinscena dipinge il santo e il suo rapporto con Napoli nella storia, dal suo martirio nel 302 d.C. ad oggi, seguendo il fil rouge del sangue, protagonista del memorabile miracolo.
Sanghenapule è un viaggio di cultura, ma sicuramente anche di insediamento nei meandri del sentimento popolare, attraverso una narrazione che illustra l’indole di un santo come fosse un eroe e amico comune. Fraterno, talvolta complice, San Gennaro viene contestualizzato nei margini del potere e vita attuale a livello universale. Congeniale la scelta registica della tenuta di palco da parte di due unici protagonisti: un narratore (Roberto Saviano) e un attore-interprete (Mimmo Borrelli). Rivelando una messinscena essenziale, non riferendoci solamente alla scenografia, ma quanto più alle presenze. La ben riuscita dello spettacolo è possibilmente dettata anche da questa scelta, sintomo di professionismo e cura nell’assegnazione dello spazio espressivo. È un esempio di come in teatro ancora sia efficace la semplicità e la scelta di pochi elementi ma eccezionali nella propria categoria. D’altronde sul palco si sono avvicendati due grandi figure geniali del nostro tempo.
© Flavia Tartaglia.
Roberto Saviano si dimostra un abile narratore portando sé stesso sulla scena, connotando lo spettacolo di conoscenza antropologica e sociologica, grazie alle competenze da letterato e studioso che lo contraddistinguono. È il momento di cronaca, di racconto, tuttavia senza cadere in una possibile ridondanza d’inchiesta già affrontata, né nei toni né tanto meno nella scelta delle tematiche. Pensando alla figura di Saviano che tratta il concetto del sangue, dalla mitologia di un santo sino ad addentrarsi nell’attualità politica di potere, ci si sarebbe aspettati un riferimento più o meno approfondito alla camorra, protagonista dei suoi più importanti interventi; cosa che non è avvenuta. Certo, è stata accennata o almeno sottointesa parlando della malavita partenopea, eppure non vi si è soffermato come ci si potesse aspettare. Possiamo riflettere poi positivamente sulla scelta compiuta da Saviano di andare oltre una tematica per cui lui fosse già divenuto noto (vedasi il romanzo Gomorra e la successiva serie televisiva) e abbia acquisito tutto il successo che ora lo circonda. Saviano è stato intelligente nella sua umiltà nel non fossilizzarsi sul fenomeno mediatico che l’ha portato in auge, onda che molti a differenza sua avrebbero cavalcato, poiché possibilmente non in grado di raggiungere un successo ex novo. Preferendo invece cimentarsi in un qualcosa di nuovo, riscuote ugualmente il meritato successo: la sua scelta espressiva fa si che la si possa descrivere in termini di professionalità e grandezza. Dall’altro lato, alternandosi sulla scena abbiamo Mimmo Borrelli, artista virtuoso definito da Gianandrea Piccioli “il più grande drammaturgo e capocomico italiano del momento”, che ha fatto della sua terra natia, Napoli, l’ambientazione anche di questo ultimo lavoro. Nello specifico destreggiandosi sul palco con pièce subalterne agli interventi di Saviano, in cui l’attore simula le vicende del Santo subito prima narrate. Il risultato di questa composizione scenica è una danza in cui due protagonisti si lasciano rispettosamente dello spazio per catturare abilmente lo spettatore. Scelta congeniale per la tenuta di uno spettacolo dalla durata di novanta minuti, nel quale l’eventuale scelta di una sola modalità rappresentativa statica, come per esempio la semplice narrazione, avrebbe dilatato i tempi e di conseguenza affievolito l’attenzione del pubblico.
© Flavia Tartaglia.
Concorde alla buona direzione dello spettacolo è la drammaturgia attorica di Borrelli. Tra le potenzialità esclusive del teatro la mimesi non ha di certo un primato, la cui massima riuscita la si ha con la fotografia e il cinema; d’altronde sul palco non si imita o simula in maniera naturalistica, ma si producono perlopiù suggestioni. L’elogio più esaustivo per la performance di Borrelli è forse descriverlo come un ottimo lavoro di evocazione. Non si è limitato a un’interpretazione imitativa della realtà, ma bensì una ripetizione spossessata di parole rigurgitate e vomitate che spaziavano dalla lingua latina, al dialetto napoletano arcaico sino a una reinvenzione della stessa lingua. Conciliandosi in una danza corporea di agitazioni e gestualità che suscitano un momento ritualistico, l’allucinazione linguistica permette di perdersi in una relazione di compartecipazione tra l’attore e gli spettatori. Modalità geniale poiché spesso con questa tecnica espressiva risulta difficile comprendere quali parole vengano enunciate, per cui potrebbe parere una rappresentazione indecifrabile. Ma è nell’abile gestione di questa crisi, data la grande esperienza che ha Borrelli alle spalle, che risiede quella meraviglia che sta andando perdendosi nel teatro postmoderno. Non comprendiamo la sua parola, ma riconosciamo inconsciamente in lui la nostra esistenza umana, per cui ci è possibile fare nostre le sue emozioni, il vissuto e in generale cosa volesse comunicare. Il metodico lavoro delle azioni fisiche di Borrelli è possibilmente un esempio contemporaneo delle avanguardie teatrali novecentesche che sperimentavano la possibilità di comunicazione attraverso dei singolari impulsi fisici energetici, evocabili e inviabili attraverso una predeterminata partitura di gesti, che permette la comunicazione senza l’impiego del verbo.
© Flavia Tartaglia.
D’altronde il teatro esiste nel momento in cui si instaura una relazione tra attore e spettatore, non è oggetto di univoco voyeurismo, come osservanza di un fenomeno distante da sé. E in questo senso Mimmo Borrelli ha fatto sì che anche noi facessimo parte del travaglio del santo in una messinscena truculenta, a tratti inquietante, fatta realmente di corpo e di sangue, rendendoci irrimediabilmente parte del Mistero di San Gennaro. È una perdizione oltre la fascinazione. Non è più l’osservanza del bello, ma è lo choc di credere d’essere effettivamente fuori dal tempo e dallo spazio realmente vissuto. Il tutto incorniciato dalla scenografia di Luigi Ferrigno, un paesaggio essenziale con rovine mobili dalla conformazione concava, come fosse un anfiteatro che contorni chiunque parli al centro della scena. Richiamando comunque lo stile pittorico napoletano a metà tra il gusto barocco e neoclassico. Le architetture rotanti conferiscono un’aura sacra e talvolta profana, illuminate da fiochi bagliori metafisici. La scena risulta semplice ma più che efficace per la rappresentazione di una Napoli oscura che viene evocata, dagli angoli angusti dei vicoli, sino alla costruzione di un Vesuvio incombente sull’intera città, come una maledizione perenne.
© Flavia Tartaglia.
Tra le scene più suggestive abbiamo un Borrelli che, in cima a questa scenografia costituente il famoso vulcano, si agita come in una funzione quasi demoniaca illuminato solamente da una progressiva luce rossa fissa. Da fioca a intensissima, il fascio sanguigno connota la figura in maniera violenta, assumendola irreversibilmente a un’entità sovrannaturale. Dove la narrazione non proviene solo dalla recitazione o da fronzoli scenografici, è dunque un’abilissima regia illuministica di Salvatore Palladino a compartecipare alla creazione drammaturgica. Per la durata di tutto lo spettacolo, è come se le stesse luci parlassero: fasci bianchi, che da caldi mutano in freddi, flebili e poi taglienti, descrivono la scena come cruda e drammatica; rimarcando la precarietà della città partenopea come sospesa tra speranza e dannazione.
A curare ancor di più la suggestione della scena vi è la musica, curata ed eseguita da Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione, che dialogano generando un crogiuolo di suoni soffusi. La piacevole coniugazione tra sonorità elettroniche e ritmi tradizionali napoletani allestisce un paesaggio musicale anche qui essenziale e soft. Un’originale scelta controcorrente, acuta e brillante, in netta contrapposizione all’immagine stereotipata di una Napoli melodicamente chiassosa. L’intervento musicale permette dunque di scandire le fasi di narrazione come i passi di un ballo onirico, fatto di atti di sangue, dal martirio di San Gennaro, attraverso la Rivoluzione Partenopea del 1799, le eruzioni del Vesuvio e la diaspora di milioni di italiani emigrati e morti verso le Americhe. Una storia di martirio per l’aspirazione della libertà, che nei secoli si è succeduto nei meandri napoletani, il cui sanghe scorre ancora oggi. Tradizioni, miti, processioni, santità e paganesimo arcaico si avvicendano sulla scena, sgomitandosi, come alla spasmodica ricerca di aria, o per meglio dire di un loro posto di pace, almeno su di un palco. È la messinscena di una storia viscerale di anni di sofferenza sino al presente, descritto come ancora in balia del fato e dei misteri che avvolgono il mondo. Per cui il popolo napoletano è in attesa da sempre della rivelazione che il Santo compie ogni anno in occasione dell’anniversario della propria morte: facendo sciogliere o meno il suo sangue conservato nell’ampolla. Che siano coincidenze o iettature, i napoletani contano le secolari sventure come preannunciate dal sangue che non si è sciolto: terremoti, eruzioni, pestilenze e morti di Papi.
I musicisti in scena, da sinistra: Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione (© Flavia Tartaglia).
Il viaggio mistico in cui Saviano e Borrelli ci hanno accompagnato si rivela quasi come un miracolo incontestabile: la possibilità di concordia e collaborazione tra due personaggi totalmente differenti, ma ugualmente accumunati dal sangue penitente della loro Napoli. Da un lato un colto giornalista e scrittore adiacente a una Napoli bene e radical-chic, che si afferma come un moderno vate storico ed enciclopedico. Dall’altro un artista sanguigno e virulento, verace e profetico, dalla lunga barba e l’occhio allucinato: un nuovo Tiresia che generato dal Vesuvio si aggira tra i fumi della terra dei fuochi. La forza ancestrale della loro unione è il centro indiscutibile di uno spettacolo che lascia col fiato sospeso: tra l’amara riflessione e la speranza sicuramente non lascia indifferenti. Deduciamo difatti, che la storia di Napoli che ci viene illustrata, altro non è che la storia di un’Italia intera, la quale ci appartiene irrimediabilmente. In maniera non stucchevole, lo spettacolo affronta i dolori di Napoli con un’onestà disarmante davanti alla quale ci sentiamo impotenti, ma è lì che ci viene insinuato il germe del dubbio: la possibilità di speranza. Seppur si prefigga come un teatro di narrazione ma anche velata denuncia, la possibilità di rinascita ci viene sottesa come un’opzione. La consapevolezza è un flusso di sangue buono che Saviano e Borrelli ci invitano a lasciar fluire.
© Flavia Tartaglia.
Il vero senso dello spettacolo è generare una redenzione collettiva proprio attraverso la coscienza e solidarietà sociale. Il pubblico, dati gli applausi e il successo della critica, non solo ha ammirato piacevolmente la sofisticata messinscena, ma pare aver colto e condiviso ardentemente il significato dello spettacolo. Ed è per questo che Sanghenapule è uno dei rari e preziosi esempi moderni del valore e importanza sociale del teatro nella sua arcaica intenzione comunicativa, e ci deve far riflettere di quanto ancora sia importante curarlo e proteggerlo, affinché si continui a uscire dalle sale con una coscienza in più. Napoli, nella sua storia di tormento, è come se ogni anno rinnovasse un patto oscuro al rintocco del sangue di San Gennaro; una città sacrificata affinchè noi potessimo avere nella nostra povertà d’animo, almeno la consapevolezza di essere umani.