In francese dire fantascienza equivale tuttora a pronunciare il nome di Jules Verne. Quantomeno in letteratura, è inutile nasconderselo. Invadente la sua figura, ingombrante l’opera che ha consegnato ai posteri, incalcolabile l’influenza che ha avuto e che tuttora esercita, al di là delle apparenze e delle mode, sull’evoluzione complessiva del genere. Difatti, per almeno un secolo la fantascienza francese dopo Verne non è stata memorabile. Tra frotte di onesti artigiani, il meglio si scorge nelle pagine di Jacques Spitz, René Barjavel e Pierre Boulle (che ottenne relativa fama quando Hollywood portò sul grande schermo il suo romanzo Il pianeta delle scimmie). Spostandosi assai più indietro fino ai tempi dello stesso Verne, si annovera tra i migliori Albert Robida con la sua trilogia fantastica imperniata sul personaggio di Saturnino Farandola, mentre a latere si erge la figura di Camille Flammarion, astronomo, divulgatore scientifico e scrittore. Infine ma non certo in ultima posizione c’è Joseph-Henri Honoré Boëx, che firmò dapprima J.H. Rosny insieme al fratello minore Séraphine-Justine-François e successivamente, sciolto il sodalizio letterario, adottò lo pseudonimo definitivo di J. H. Rosny aîné, sottolineando con “aîné” (anziano) la maggiore età.
J. H. Rosny aîné è assente da lungo tempo in Italia, dove non è mai stato molto tradotto. Giunge dunque benvenuto il volume dedicato al suo dittico marziano, composto dai romanzi I navigatori dell’infinito e Gli astronauti, proposti per la prima volta al pubblico italiano nella collana I tre sedili deserti dell’editore Il Palindromo. L’anziano Rosny è un autore ingiustamente trascurato, essendo da considerarsi secondo solo a Verne. Lo scrisse a chiare lettere Jacques Sadoul nella Histoire de la science fiction moderne, scritta nel 1973, in quella decade che vide una sorta di Rinascimento della fantascienza francese. Rosny, afferma Sadoul, “può essere considerato a mio parere il più grande scrittore di fantascienza francese dopo Jules Verne” (Sadoul, 1975). Molto è successo ed è cambiato da allora, ma il medesimo giudizio lo ribadisce oggi Sandro Pergameno, che gli assegna “il secondo posto (o comunque una posizione di assoluto rilievo)” nell’introduzione al volume. Giudizi conquistati da J. H. Rosny aîné in virtù della sua idea di letteratura assai distante da quella di Verne e dei suoi “roman de la science” dove predomina la Macchina.
Al di là di Verne e della pagina scritta
Un Padre dalla cui figura non è mai stato facile liberarsi in patria, un Ombra di cui non ci si è mai del tutto liberati, e forse per questo la fantascienza francese ha goduto di una nuova fioritura, assai più avanti nel tempo, fuori dalla pagina scritta: nella musica, nel fumetto e nel cinema. È qui che si assisté a un rinascimento del genere. I Rockets, per esempio, che qualcuno ricorderà soprattutto per il colorito argenteo di cui facevano mostra grazie alle tute di lamé indossate in scena. Cantavano brani come Future Woman, Space Rock, Cosmic Race, Venus Rapsody, Astrolights, Legion of Aliens e via dicendo. Si affermarono sul finire degli anni Settanta, la loro era musica deboluccia, ma capace di riassumere perfettamente il mix di musica e sci-fi che toccò vertici inusitati nel corso di quella decade proprio nella patria di Verne e dunque di un pezzo di codice genetico della fantascienza. Furono anni d’oro più che d’argento i Settanta per il matrimonio tra musica e fantascienza. La fioritura regalò anche un peso massimo come Jean Michel Jarre, pioniere dei laser show, campione del synth pop e delle vendite grazie a un album milionario come Oxygene e su altre coordinate i Magma con la saga del pianeta Kobaïa e i Gong con le strambe storie di Zero the Hero dal Planete Gong. Tra loro e Rockets, si diedero da fare un bel po’ di fabbricanti di suoni elettronici, meno noti, ma tutti ispirati dalle abissali vastità dello spazio. Ecco dunque gli Space Art, gli Space, gli Universal Energy e i Quartz, per far qualche nome.
Andò anche meglio nel mondo del fumetto. C’era stata per prima Barbarella a dare una scossa, in Francia e in generale nel bigotto mondo della fantascienza, quando era apparsa sulle pagine di V-Magazine nel 1962. La disegnò Jean-Claude Forest e la portò al cinema Roger Vadim nel 1967. Il botto però fu nel 1975, quando un giovane critico e sceneggiatore appassionato di fantascienza, Jean-Pierre Dionnet, coronò il suo sogno: creare una rivista di fantascienza. Per farlo si avvalse del genio di Philippe Druillet e Mœbius (al secolo Jean Giraud). Nacquero così la casa editrice Les Humanoides Associés e la rivista Métal Hurlant, sulle cui pagine videro la luce saghe di fantascienza visionaria come i viaggi fantastici di Lone Sloane (Druillet) e le avventure di Arzach e l’Incal (Mœbius), per citare qualche pietra miliare. Il cinema non fu da meno, e qui basti segnalare La planète sauvage, film d’animazione presentato al Festival di Cannes nel 1973, disegnato dall’illustratore parigino Roland Topor e diretto da René Laloux.
Un autore trascurato in Italia
Prima, come si è detto, poco di significativo, tra cui di sicuro J. H. Rosny aîné le cui cronache marziane sono ora anche in edizione italiana. Il volume è il quinto della preziosa collana I tre sedili deserti curata da Giuseppe Aguanno, il primo squisitamente di letteratura di fantascienza dopo i romanzi fantastici già pubblicati: La collina dei sogni di Arthur Machen, Il vascello di Ishtar di Abraham Merritt e Il sogno di X di William Hope Hodgson ai quali va aggiunta la miscellanea di saggi di Jacques Bergier intitolata Elogio del fantastico. Fu proprio l’infaticabile Bergier a inserire I navigatori dell’infinito nella collana Les Chefs-d’oœvre de la science fiction delle edizioni Rencontre nel 1970 e la prefazione che congegnò per l’occasione viene ora riproposta in appendice all’edizione italiana, nella quale si può leggere la profonda ammirazione che anche Bergier, al pari di Sadoul e di Pergameno, nutriva per il maggiore dei fratelli Rosny. Ma chi era J. H. Rosny aîné e soprattutto quanto sono attuali le sue storie? Come è consuetudine della collana, l’apparato critico predisposto per l’occasione rende edotti quanto basta, motivo per cui saranno sufficienti brevi cenni biografici: nacque a Bruxelles il 17 febbraio del 1856 e morì a Parigi il 15 febbraio del 1940.
Il suo maggior successo in vita fu il romanzo La guerra del fuoco, che J. H. Rosny aîné scrisse nel 1909, conferendogli nel 1981 nuova fama (e internazionale), seppur postuma, quando il regista Jean-Jacques Annaud lo adattò per il grande schermo. Il romanzo era parte del ciclo dei cosiddetti “romans des àges farouches” (ma scrisse anche un grappolo di racconti collegati), che diede modo all’autore di coltivare la sua vena più squisitamente fantastica.
Il romanzo di genere preistorico fu solo uno dei filoni che J. H. Rosny aîné coltivò. In vecchiaia suggerì una divisione della propria opera letteraria in romans réalistes, romans sociaux, romans préhistoriques e romans du merveilleux scientifique, come ricordato nel saggio posto in appendice di Massimo Del Pizzo, lo studioso a cui, oltre a numerosi saggi, si deve l’unica edizione italiana delle storie brevi di fantascienza di J. H. Rosny aîné: la raccolta Altri Mondi. Anche i due romanzi marziani appartengono al genere del merveilleux scientifique e sono ben distanti dal roman de la science formalizzato da Verne.
Marte visto a cento anni di distanza da noi
In breve, la storia de I navigatori dell’infinito descrive la prima spedizione su Marte in cerca di vita dopo ben cinquanta missioni lunari risultate fallimentari in tal senso. A viaggiare a bordo di un’astronave chiamata Stellarium, sono in tre: Antoine Lougre, Jean Gavrial e Jacques Laverande, il narratore. Al contrario delle spedizioni sul nostro satellite, questa avrà successo ben oltre le più rosee previsioni: non solo su Marte rintracceranno forme di vita, ma addirittura la troveranno in tre razze radicalmente diverse tra di loro, occupanti sapzi diversi (chissà forse un lontano ricordo del De Bello Gallico) con il contorno di una fauna che fa capolino qui e là nell’arco della narrazione.
Una razza emergente, esseri che i tre chiamano Zoomorfi, pseudo vegetali striscianti, talora di dimensioni assai ridotte, talvolta giganteschi, i cui fini, le cui logiche, a ben vedere i codici stessi della loro esistenza rimarranno un mistero irrisolto. Sarà soltanto evidente da subito la loro inesorabile espansione sul territorio marziano a scapito dell’altra razza più antica, ormai decadente e rassegnata a estinguersi: i Tripedi, la forma vivente più simile agli umani in cui i tre si imbatteranno. Ecco come li descrive Laverande la prima volta che li incontra:
“Erette su tre zampe, il torso verticale, avevano qualcosa di umano. I loro volti, malgrado i sei occhi e l’assenza del naso… quei volti, la cui pelle era nuda, suggerivano una qualche similarità con la nostra specie…”.
Altrettanto misteriosa è la terza specie, abitanti dell’atmosfera marziana. Anche per essa gli esploratori coniano un termine per designarla: gli Eterei, entità luminose che appaiono come
“linee fosforescenti dalle sfumature meravigliose, ma abbastanza tenui da non nascondere gli astri. Le linee formavano colonne luminose orizzontali, verticali, oblique, e spesso s’incrociavano tra loro. Il colore andava dal giallo fino al viola. Erano attraversate da formazioni di luce cangianti, composte da filamenti intrecciati in modo singolare”.
Sono gli Eterei l’invenzione letteraria che rende originale la vita su Marte immaginata da J. H. Rosny aîné e non una semplice riproposizione della dialettica tra nuovi barbari e civiltà decadente, come sarebbe stata se si fosse limitato al conflitto tra Tripedi e Zoomorfi. Si noti che i Tripedi vivono in maggioranza sottoterra e alcuni “in dimore di pietra la cui architettura ricordava in modo vago quella dell’antica Roma”.
Gli Eterei divengono protagonisti ne Gli astronauti, ma sono i primi nei quali i terrestri si imbattono e resteranno a lungo incomprensibili. “vanno così oltre la nostra comprensione, che non provo nemmeno a farmi un’idea sul loro avvenire!” dice Antoine Lougre nel primo romanzo. I terrestri daranno una mano ai Tripedi contro gli Zoomorfi, prima direttamente sul piano militare e trovando il modo di trasformare in alleati i misteriosi Eterei nel successivo Gli astronauti (il termine venne coniato proprio nell’occasione da J. H. Rosny aîné).
Il Pianeta Rosso come la passione
Come è noto, intorno e su Marte abbiamo immaginato molto, ci siamo recati a più riprese e in numerose occasioni abbiamo ricevuto visite dal Pianeta Rosso. Un via vai che prese avvio a fine Ottocento e che aveva al suo attivo già diverse storie e anche studi sull’ipotesi della vita su Marte, in primis La Planète Mars et ses conditions d’habitabilité pubblicato nel 1892 dal citato Flammarion. A inizio Novecento le cose si iniziarono a fare in grande. Yankee e sovietici presero subito di mira il pianeta, come ci narrano le storie del ciclo di Barsoom di Edgar Rice Burroughs, che vedono protagonista John Carter, e quella di Aelita, prima romanzo (1922) di Aleksej Tolstoj e poi film girato da Jakov Protazanov (1924). Siamo stati anche invasi innumerevoli volte, e tuttora fantastichiamo su Marte su piani diversi d’immaginazione, come ci raccontano i progetti di Elon Musk e il trittico marziano (e i racconti correlati) di Kim Stanley Robinson.
Quando J. H. Rosny aîné disse la sua in materia, lo fece con uno stile assolutamente moderno, asciutto, a tratti una scrittura per il cinema, quello odierno però non del tempo in cui uscì I navigatori dell’infinito. Al tempo stesso, questo sì segno dell’epoca in cui fu scritto, la narrazione procede facendosi largo tra stupori d’altri tempi, restituendoci quel sense of wonder di fronte all’ignoto, profondo quanto e più di quello a cui davano luogo le meraviglie della scienza e della tecnica di verniana ascendenza.
È la scoperta dell’altro che sta più a cuore a J. H. Rosny aîné Rosny, che descrive un candido incontro ravvicinato del terzo tipo, accompagnato da tutte le cautele del caso, non tanto per timore dell’alieno, ma per non urtare i benpensanti di allora, come si evince soprattutto dalle ripetute avvertenze sulla natura dell’attrazione di Laverande per la tripede che egli ribattezza Grâce.
“La mia predilezione per Grâce crebbe ancora. Ogni giorno passavo molto tempo con lei, e i miei sentimenti divennero così strani che esitavo ad analizzarli. Quei piacevoli brividi, quelle onde prodigiose… come definirli? Nulla vi era stato di simile nella mia umile vita. L’idea che potesse essere amore, in senso umano, mi sembrava assurda e ripugnante. Il nostro misero senso di voluttà era del tutto sopito: il suo risveglio per Grâce mi avrebbe riempito, credo, di vergogna e disgusto. Eppure, era desiderio quello che provavo per lei […] Era forse amore? Sarebbe stato allora qualcosa di totalmente estraneo al nostro patetico amore, così come Grâce è estranea alla femminilità umana…”.
Non era ancora tempo di far sesso con un’aliena, sarebbe occorso qualche decennio per poterne leggerne le dinamiche nello scandaloso Gli amanti di Siddo (The Lovers, 1952) di Philip José Farmer e le varie relazioni aliene di cui scrisse in seguito, che daranno la stura al sotto genere. Eppure qualcosa poi accadrà anche tra Laverande e Grâce, quando nel seguito, Gli astronauti, lei darà alla luce un figlio. Non si dirà altro sulla trama, ma il ménage fa riflettere, considerato che Laverande nel frattempo intreccerà una relazione sentimentale con Violane, sorella di Jean Gavrial nonché quarto membro a bordo dello Stellarium nella seconda spedizione su Marte, quella raccontata in Gli astronauti, e che lei darà il beneplacito all’arrivo del bebè. Coppia aperta e/o famiglia allargata che dir si voglia, è certo un segno di lungimiranza da parte di J. H. Rosny aîné. Quando si dice narrativa d’anticipazione…
Il rompicapo linguistico per eccellenza: l’alieno
In effetti questa cronaca marziana scritta circa un secolo fa, di questioni attuali ne pone anche altre, una soprattutto, su cui il dibattito oggi è più vivo che mai: come si può comunicare con un alieno, posto che questi sia interessato alla conversazione e non un tipaccio come lo xenomorfo di Ridley Scott e H.R. Giger? La faccenda è stata presa in esame da non pochi autori in oltre un secolo di fantascienza e con risultati sempre frustranti. Sulle prime si puntò alla telepatia o a congegni di traduzione automatica, poi la xenolinguistica provò ad alzare il tiro. Spesso fu proprio la lingua marziana (lo si è detto, Marte è affollatissimo) a essere studiata. Accade, per esempio, in un racconto di H. Bean Piper, Omnilingue, (1957) dove si ha la fortuna di imbattersi nell’analogo marziano della stele di Rosetta. Oppure, si è fatto della decodificazione di una lingua aliena il vero oggetto della narrazione, come nel romanzo Babel 17 (1966) di Samuel Delany e c’è chi si è burlato con l’occasione della linguistica strutturale, come Robert Sheckley nel racconto Mun mun (1965) con i reiterati e vani tentativi di afferrare il senso di una lingua in istantaneo divenire come quella di un fantomatico pianeta Na (cfr. Giovannoli, 2015).
Un’altra strada può essere la musica (l’idea di Steven Spielberg nei suoi Incontri ravvicinati del terzo tipo), ma potremmo anche ritrovarci di fronte esseri non in grado di percepire suoni. La questione è complessa e tuttora approcciato in vario modo, come mostra il singolare iter della linguista Louise Banks alle prese con la lingua degli eptapodi atterrati sul nostro pianeta nel racconto Storie della tua vita (1998) di Ted Chiang (e di Arrival, il film che ne è stato tratto nel 2016 per la regia di Dennis Villeneuve).
J.H. Rosny aîné la risolse molto più semplicemente. Nella prima parte de I navigatori dell’infinito Jean Gavial sparisce, e i suoi compagni d’avventura temono per la sua sorte, salvo poi ritrovarlo in compagnia di alcuni Tripedi con i quali ha iniziato a imbastire un linguaggio dei segni il cui funzionamento non verrà mai spiegato. Et voilà, ecco risolto. Jean presto dirà: “Padroneggiamo già duecento termini; con sei o settecento termini si possono esprimere un buon numero di concetti. Persino i più raffinati autori classici non utilizzano più di dodici o quindicimila vocaboli”.
Più articolato il tentativo di comunicare con gli Eterei, dapprima con un sistema basato sull’invio di messaggi luminosi a base di semplici figure geometriche, senza ottenere però alcun successo, finendo per rifugiarsi nei segnali Morse. Scelta anch’essa fallimentare sulle prime, poi grazie a un’intuizione il sistema riesce a funzionare moltiplicando la velocità di trasmissione progressivamente fino a un miliardo e ottenendo finalmente un cenno di risposta alla semplice parolina che era stata inviata: “homo”.
L’insostenibile leggerezza del meraviglioso scientifico.
- Autori vari, Cosmic Machine – A Voyage Across French Cosmic & Electronic (1970 – 1980), Because Music, 2013.
- Ted Chiang, Storie della tua vita, Frassinelli, Milano, 2016.
- Samuel R. Delany, Babel-17, Urania Mondadori, Milano, 2007.
- Philip José Farmer, Gli amanti di Siddo, Mondadori, Mila, 2008.
- Renato Giovannoli, La scienza della fantascienza, Bompiani, Milano, 2015.
- J. H. Rosny aîné, Altri mondi, (a cura di Massimo Del Pizzo, Edizioni Nord, Milano, 1988.
- J. H. Rosny aîné, La guerra del fuoco, Edizioni Nord, Milano, 2000.
- Jacques Sadoul, La storia della fantascienza, Garzanti, Milano, 1975.
- Robert Sheckley, Mun mun, in Fantasma cinque, Urania n. 880, Mondadori, Milano, 1981.
- Philippe Druillet, Lone Sloane. L’integrale, Magic Press, Roma, 2016.
- Mœbius, Alejandro Jodorowsky, L’Incal. L’integrale, Magic Press, Roma, 2012.
- Mœbius, Arzach, Panini Comics, Modena, 2013.
- Dennis Villeneuve, Arrival, Sony Pictures Home Entertainment, 2017 (home video).