Nella narrativa gotica, come osservato dalla psicanalista Julia Kristeva, il mostruoso serve a mettere in discussione i fondamenti culturali che sorreggono la società (cfr. Kristeva, 2006). Vecchie dimore, castelli decadenti e abbazie simboleggiano il potere del passato, che incombe minaccioso sui protagonisti. In opere come Frankenstein di Mary Shelley (1818) o Dracula di Bram Stoker (1897), la materialità del corpo diventa simbolo di abiezione: i vampiri incarnano l’orrore del sangue e minano la nostra pretesa superiorità nella catena alimentare, mentre il cadavere animato – dal mostro di Frankenstein allo zombie– ci costringe a confrontarci con gli aspetti più orripilanti della nostra mortalità. Di fronte al mostruoso, i protagonisti gotici vivono drammi morali o psicologici, ripudiando la natura abietta dei loro doppi, dai quali inizialmente sono affascinati. La narrativa super-eroistica si pone invece dall’altro lato di questo continuum. Il superuomo concretizza la fantasia di andare oltre i limiti del possibile, ma a fin di bene. Da un lato, infatti, le prime storie supereroistiche incarnano i valori della scienza darwiniana e della sicurezza interna, con uomini che diventano super grazie ai fallimenti o successi della scienza.
Valga su tutti il caso di Capitan America (Simon & Kirby, 1941), un giovane e fragile militare che viene trasformato in un super-soldato grazie a un siero sperimentale; la sua nemesi, il Teschio Rosso, nasce invece come simbolo di un esperimento scientifico fallito. In ogni caso, allo stesso tempo l’eroe è, profondamente, un diverso. Ciò che lo distingue dagli altri non è solo la sua forza o i suoi poteri straordinari, ma il peso del suo isolamento. La sua scelta di combattere per il bene comune, nonostante la sua condizione di diverso, ci commuove proprio perché rappresenta un sacrificio. Questo tema è centrale in personaggi come Superman (cfr. Sieger & Shuster, 1933), il quale, pur essendo quasi onnipotente, vive la solitudine di sapere che non potrà mai essere davvero parte del mondo che protegge. Clark Kent si sforza di vivere una vita normale, ma la sua identità aliena e la sua responsabilità verso l’umanità lo tengono costantemente separato dalla serenità e spensieratezza della vita quotidiana.
Le creature di Robert Kirkman: Invincible e The Walking Dead (la trasposizione televisiva).
Ciò che ci affascina maggiormente di entrambe queste figure, mostri abietti ed eroi umani, è forse il dramma psicologico che inscenano quotidianamente, spingendoci a riflettere sulla moralità delle nostre azioni. Faremmo lo stesso al posto loro? Forse questi generi dialogano più di altri col contesto culturale e sociale in cui vengono prodotti, sia per criticarne le storture, sia per rafforzarne gli ideali. La fortuita saga Marvel di Civil War (Millar & McNiven, 2007), per esempio, traduceva in chiave super-eroistica l’annoso dibattito tra maggiore libertà e maggiore sicurezza, rispecchiando le discussioni sugli eventi post 11/09. Ancora, il sempre più popolare black horror contrappone temi tipicamente horror alla questione razziale americana. C’è da dire, tuttavia, che il finale delle storie horror è spesso aperto, proprio per mantenere un senso di angoscia e far sì che le questioni morali e sociali rimangano in discussione, stimolando una riflessione profonda su ciò che è rappresentato nella storia.
Figure convenzionali e nuovi paradigmi
Diverso è il caso dei supereroi, dove la necessità narrativa di far prevalere il bene sul male tende a una maggiore ineludibilità, contribuendo a una risoluzione che, pur mantenendo un dialogo con il contesto sociale, offre una visione più ottimistica. Del resto, certi eroi non possono morire (o essere lasciati appesi a un cliffhanger), per una semplice questione di profitto: le principali case produttrici di storie supereroistiche hanno bisogno di tenere in vita i loro personaggi, anche a costo di svecchiarli ogni dieci anni. Oggi, sia il genere horror, sia quello eroico, sono stati decostruiti più volte, demistificando la figura del supereroe (fin dalle opere di Frank Miller e Alan Moore, negli anni Ottanta), o specchiando la natura abietta del mostro sull’intera umanità (valgano come esempio l’intero franchise di Alien, avviatosi nel 1979, o il validissimo District 9 del 2009). In questo panorama di trasformazione narrativa, Robert Kirkman emerge come un maestro indiscusso, capace di rinnovare e ridefinire le convenzioni di entrambi i generi. Con opere come The Walking Dead e Invincible, ha catturato l’immaginazione di milioni di lettori e spettatori, dimostrando che le storie di zombie ed eroi possono ancora sorprendere e sfidare le nostre aspettative. Leggerle oggi ci invita a riflettere su ciò che significa essere eroi in un mondo dove i confini tra bene e male sono sempre più sfumati.
Chi è Robert Kirkman
È il 1991, in Kentucky, quando un tredicenne stringe in mano il suo primo fumetto: il numero #344 di Amazing Spider-Man, con Erik Larsen alle matite. Quel ragazzino si chiama Robert Kirkman, e in quel momento non può immaginare che quel semplice gesto cambierà la sua vita per sempre. Il mondo dei fumetti sta attraversando una trasformazione epocale. Gli scaffali delle fumetterie esplodono di personaggi che sembrano saltare fuori dalle pagine: Deadpool (Nicieza & Liefeld, 1990), Venom (Michelinie & McFarlane, 1988), Gambit (Claremont & Lee, 1990), ognuno più straordinario del precedente. Sono gli anni d’oro della Marvel, con artisti come Todd McFarlane e Rob Liefeld che ne stanno ridefinendo il genere, facendo la fortuna della Casa delle Idee.
Kirkman legge Spider-Man con un entusiasmo febbrile, ignaro che proprio quegli artisti, che lo stanno conquistando, sono sull’orlo di una rivoluzione. Non vogliono più essere solo i disegnatori dietro le quinte. Del resto, ormai sono così popolari da venire invitati ovunque, non solo alle tipiche Convention da nerd. Vogliono essere riconosciuti, avere un controllo creativo sulle storie e i personaggi che inventano. Il redattore capo della Marvel, però, è di un’altra opinione: a vendere sono i supereroi, non chi disegna le tavole. Per Liefeld, Lee, McFarlane e Larsen è la goccia che fa traboccare il vaso. Abbandonano la Marvel e fondano una loro casa editrice: la Image Comics. Sono decisi a ribaltare le regole del gioco editoriale, a creare fumetti dove la creatività non abbia limiti, e a rendere una nuova generazione di artisti padroni delle proprie opere. E così, proprio l’uomo che ha disegnato la storia che Robert stava leggendo diventa uno dei protagonisti di una nuova era del fumetto.
Ritratto dell’artista da giovane
Kirkman si butterà nel mondo dei fumetti con la stessa audacia dei suoi disegnatori preferiti. A differenza loro, non è tanto tagliato per matita e china, ma adora inventare storie e personaggi assurdi. Nel 2000 investe tutto ciò che ha (e oltre, considerando le storture del sistema bancario americano) per pubblicare Battle Pope, disegnato dall’amico e compagno di scuola Tony Moore. Il titolo dice tutto ciò che c’è da sapere: Battle Pope è un fumetto irriverente, dissacrante. È tutto quello che Kirkman ha sempre sognato di fare… ma è anche un fallimento commerciale. I rapporti con Moore si incrinano, finché non si allontana definitivamente dal progetto. Kirkman si trova sull’orlo del baratro. Telefona e incontra chiunque gli possa dare una dritta su come evitare la bancarotta. Fino a quando un nome familiare riappare nella sua vita: Erik Larsen. A una convention, ha la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con lui, e non se la lascia scappare. Lo stesso disegnatore che lo aveva ispirato da ragazzo gli offre una chance di lavorare alla Image Comics su uno dei suoi personaggi, SuperPatriot. Potremmo fermarci qui, con Robert Kirkman che trova finalmente la sua dimensione nell’industria dei fumetti, nella stessa casa editrice creata dai suoi idoli. Ma come nelle migliori storie di Kirkman, c’è ancora spazio per un paio di colpi di scena. Presto lavorare a SuperPatriot non lo soddisfa più. L’Image Comics non era stata forse fondata per restituire ai creatori quella libertà creativa che colossi come Marvel e DC avevano sacrificato in nome di profitti sicuri? Così, quando la casa editrice annuncia di voler lanciare una nuova linea di supereroi, Kirkman non può perdere l’occasione.
Cory Walker rende con eleganza la maestosità del primo viaggio di Invincible nello spazio.
Insieme a Cory Walker, disegnatore che aveva succeduto Tony Moore su Battle Pope, propone ai suoi superiori di pubblicare Science Dog. Di nuovo un titolo eloquente per un fumetto che unisca azione e umorismo, incentrato su un geniale scienziato che si trasforma in un supereroe grazie alla fusione con il proprio cane. L’idea è accolta con scetticismo. Anzi, viene bocciata senza appello: troppo ridicola, troppo lontana dai gusti del pubblico. Ma Kirkman e Walker non si lasciano abbattere. Decidono di non sprecare del tutto il concept, rendendo Science Dog il fumetto preferito di un personaggio in una nuova storia che stanno sviluppando quasi per disperazione. Quel personaggio si chiama Invincible. Quella storia sarà un successo clamoroso. Per Kirkman Invincible è solo l’inizio. C’è un’altra idea che gli ronza in testa, qualcosa di completamente diverso: un fumetto horror, in bianco e nero, sugli zombie. Ma non i soliti zombie. Un racconto su cosa significhi davvero rimanere umani in una situazione estrema. Quando presenta l’idea all’Image Comics, la reazione è glaciale: “Chi potrebbe ancora essere interessato a una storia di zombie?”. Kirkman non si arrende. Sa di avere qualcosa di speciale, e per evitare il rifiuto gioca il tutto per tutto. Si inventa un colpo di scena. Convince i suoi superiori che gli zombie sono solo un preludio a qualcosa di molto più grande, un’invasione aliena. È una bugia, ma abbastanza intrigante da far approvare il progetto. Nasce così The Walking Dead. Il fumetto diventa un fenomeno culturale, un successo che supera ogni aspettativa. L’invasione aliena? Mai avvenuta. Non ce n’è bisogno. The Walking Dead conquista il pubblico e di lì a poco attira anche Hollywood. In pochi anni, grazie a Invincible e The Walking Dead, Kirkman non solo si afferma come una delle voci più influenti del fumetto moderno, ma entra di diritto nell’Olimpo della cultura pop. Perché questo successo? La risposta la possiamo trovare ricercando ciò che in comune hanno The Walking Dead e Invincible, in qualunque versione se ne voglia fruire.
Il fascino dei sopravvissuti
I mondi di Kirkman sono distanti dai nostri solo nella misura in cui vogliono parlarci, superficialmente, di zombie ed eroi. In tal senso, seguono il principio di minimal departure (cfr. Ryan, 1980), ovvero sono mondi fittizi costruiti sulla base di esperienze tipiche del mondo reale. Queste deviazioni dalla realtà creano ciò che i teorici della letteratura chiamano “mondi immaginari” o cronotopi (cfr. Steinby, 2014), dove i lettori sono esposti ad ambienti che non potrebbero mai sperimentare nella vita reale, come una Terra invasa da zombie o protetta da supereroi onnipotenti. Tuttavia, Kirkman, anche nelle tavole più verbose, non si preoccupa mai di motivare perché esistano i supereroi o gli zombie; piuttosto, il mondo dei protagonisti è rilevante per i lettori nella misura in cui fa da sfondo ai loro dilemmi morali (e anche a qualche momento felice). In questo modo, le dicotomie morali nelle opere di Kirkman incarnano la lotta eterna tra bene e male, un tema ricorrente nella fiction speculativa. Lo sceneggiatore del Kentucky applica una regola psicologica consolidata: l’impatto emotivo degli eventi “cattivi” tende a essere più intenso rispetto a quello degli eventi “buoni” (Baumeister et al., 2001). Questo principio si manifesta chiaramente in The Walking Dead, dove i momenti di speranza sono frequentemente offuscati da perdite devastanti e tradimenti. Allo stesso modo, in Invincible, il giovane Mark subisce una serie di violenze strazianti. L’enfasi viene costantemente posta su come i personaggi affrontino il male (esterno, come la minaccia zombie, o interno, come la deformità fisica o la propria natura violenta). Tuttavia, i protagonisti di queste storie non sono né eroi in senso stretto né anti-eroi; semplicemente, il loro senso del dovere muta con loro. Partendo da questo principio, Kirkman è riuscito ad appassionare stuoli di fan capovolgendo su sé stessi i generi di cui si è occupato. In altre parole, la caratteristica distintiva delle opere di Kirkman è la sua capacità di decostruire e sovvertire i tropi tradizionali delle storie che affronta. Lo fa alternando leggerezza e umorismo a momenti catastrofici e graficamente violenti, a seconda di quello che meno ci aspetteremmo da ogni tavola.
Come espiare le colpe di un padre?
Per esempio, l’inizio di Invincible è dei più rassicuranti. Facciamo la conoscenza di Mark Grayson (doppiato da Steven Yeun nella serie animata), il tipico ragazzo americano alle prese con la scuola, le prime cotte, e i lavoretti per racimolare qualche soldo. Insomma, davvero niente di nuovo. Mark conduce una vita normale, ma non può rivelare a nessuno che suo padre, Nolan (doppiato da un fantastico J. Jonah Jameson), è in realtà l’eroe più potente della Terra. Tuttavia, avere “Omni-man” come papà non ha mai realmente impattato sulla vita di Mark, non fosse che per l’estenuante desiderio di manifestare poteri simili quanto prima. Fin dalle prime pagine queste dinamiche vengono affrontate da Kirkman e dal tratto leggero di Walker (quasi una versione americana dello stile franco-belga, poi sostituita dallo stile deciso di Ryan Ottley a partire dal numero 8) con curiosità e ironia. Avere un Superman come padre vuol dire non preoccuparsi troppo quando deve affrontare un Kaiju in Giappone, e anzi rallegrarsi della cena a base di ramen che potrà prendere volando a casa. Una vita un po’ meno piacevole la conduce la madre di Mark, Debbie, che a volte saluta il marito senza sapere se lo rivedrà quella sera o dopo mesi e mesi, sia mai finisca su qualche pianeta alieno dove il tempo scorre diversamente. Quando finalmente i poteri di Mark emergono, quest’atmosfera serena sembra preludere al classico percorso di formazione dell’eroe, con Nolan nel ruolo proppiano dell’Aiutante dell’eroe (cfr. Propp, 2000).
Grazie all’indipendenza dai canoni rigidi della Marvel, l’Image Comics ha sempre permesso ai suoi disegnatori di mostrare tutta la violenza che desideravano. Qui i resti dei Guardiani del Globo giacciano a terra dopo il passaggio di Omni-Man.
A conferma di ciò, la più tipica delle scene americane tra padre e figlio ci viene riproposta in salsa supereroistica, con i due Grayson che giocano a baseball in cielo, senza bisogno di mazze e facendo roteare la pallina per tutto il globo con un solo lancio. Ma Kirkman capovolge immediatamente questa aspettativa. Quel che viene mostrato ai lettori subito dopo è una scena brutale in cui Omni-Man massacra senza pietà i “Guardians of the Globe” (una parodia della Justice League della DC), annientando gli eroi più potenti del pianeta in uno scontro che non lascia loro nessuna chance di dialogo o pareggio. Tornato a casa e lavatosi via il sangue dalle mani, bacia la moglie sulla guancia e ascolta quanto Mark ha da raccontare. E tutto questo avviene già nel primo episodio della serie, e nei primissimi capitoli del fumetto. Quando Mark scoprirà cosa ha fatto suo padre, dovrà fare i conti con la sua vera natura: Nolan Grayson, aka Omni-Man, appartiene a una razza di alieni che ha fatto della regola del più forte un mantra colonialista. Omni-man vuole convincere Mark a combattere al suo fianco, assegnando il dominio della Terra alle potenze “viltrumite”, grazie alle quali la Terra potrà superare disagi sociali quali la fame nel mondo o la necessità della guerra. Kirkman si prende tutto il tempo di raccontare un percorso dell’eroe che, proprio perché realistico, è estremamente atipico. Da una parte c’è la demistificazione dell’eroe che, come in The Boys (Ennis, 2007), non si fa scrupoli a mostrarci le implicazioni sociali di un mondo popolato da superumani; dall’altro c’è la solidità e la continuità garantita da un team creativo che regge un’intera storia dall’inizio alla fine, senza reboot, retcon, o nuove versioni che capitalizzino su una IP famosa. Anzi, verso la fine della serie, Kirkman dedica un numero a illudere i suoi fan (nel bene e nel male) della possibilità di un reboot, che altro non è che una scusa per tormentare Mark Grayson con il peso delle sue scelte. C’è da dire che i lettori, ancora negli anni Duemila, erano abituati più a personaggi celebri che a trame orizzontali di una simile portata, tali da vedere un super-eroe e il suo cast di comprimari evolversi lungo gli anni. Del resto, in minima parte, il redattore della Marvel che aveva licenziato Liefeld (co-creatore di Deadpool e principale socio fondatore della Image Comics) non aveva tutti i torti a sostenere che a vendere fossero i personaggi della Marvel, e non le tavole dei disegnatori.
La stessa scena, nella serie animata, sconfina a pieno titolo nel genere splatter, ribaltando con ancora maggior forza le aspettative degli spettatori.
La verità è che ben poco era stato fatto per dimostrare il contrario, poiché le più celebri incursioni sovversive nel genere supereroistico erano durate pochi numeri. Abbastanza da fare la storia (si vedano Watchmen di Alan Moore, 1987, o The Dark Knight Returns di Frank Miller, 1986), ma non abbastanza da riempire l’intero scaffale di una libreria. Invincible, al contrario, era la storia di un nuovo supereroe, e sembrava non essere mai a corto di colpi di scena. Per questo, guadagnò un seguito sempre maggiore. Ancora oggi lo si può leggere scommettendo sul risvolto di una o dell’altra trama, ma prenderci su tutte è davvero impossibile. Infatti, sebbene Mark sia il tipico eroe che metterebbe da parte qualsiasi cosa in nome della giustizia collettiva, scegliere cosa sia giusto per un’intera città, pianeta o galassia non dovrebbe spettare a nessuno, figuriamoci a un ragazzino che non ha il tempo di finire il College. Così Mark Grayson, anziché essere il tipico eroe re-azionario criticato da Umberto Eco per la ciclicità delle sue storie e per il continuo ritorno allo status quo (cfr. Eco, 1997), cambia spesso idea su quali valori dovrebbero guidarlo; e coloro che non riesce a salvare, o che uccide in un impeto di rabbia, restano definitivamente morti, senza alcuna plot armor a proteggerli. Così, i dilemmi morali si moltiplicano: se davvero una razza più potente e intelligente della nostra ci promettesse un’evoluzione senza intoppi, sarebbe giusto opporci? Se dovessimo scegliere tra sacrificare un’intera città e salvare la Terra dai futuri disastri climatici, cosa faremmo? Fino a che punto possiamo giustificare o perdonare le azioni di coloro che amiamo? Kirkman non si fa scrupoli a rispondere a queste e altre domande attraverso Mark e un vasto numero di comprimari, affidando ai propri disegnatori tavole la cui durezza va ben oltre quella di un paio di graffi su una tutina di latex. Una lotta tra super-eroi e umani vuol dire molto più di qualche labbro gonfio e un occhio tumefatto: vuol dire che un intero vagone di esseri umani esplode in un tripudio di budella al minimo contatto col corpo dell’eroe, che è così fisicamente invincibile da non poter proteggere gli altri dalla propria possenza (un’intuizione che è stata ripresa dallo sceneggiatore di The Boys, Eric Kripke, proprio nel pilot della serie TV). Così come una lotta tra super-esseri non può che finire nello spazio, dove anche i corpi celesti possono giocare la loro parte, più di quanto possano fare le montagne o i grattacieli della Terra.
Al confine tra umano e abietto
Forse la rivoluzione di The Walking Dead è ancora più sconvolgente, perché se i supereroi non hanno mai smesso di essere di moda, lo stesso non si può certo dire degli zombie. Nei primi anni Duemila, tutto quanto si potesse dire sugli zombie sembrava essere stato già detto. Tranne, comprese Kirkman, raccontare che aspetto avesse una società sopravvissuta al loro attacco. Questa è un’intuizione che venti anni più tardi avrebbe fatto la fortuna della saga videoludica The Last of Us (Druckmann & Straley, 2013), anche questa recentemente adattata come premiatissima serie tv (Mazin & Druckmann, 2023). Nessuno prima di Kirkman aveva gettato lo sguardo più in là dell’apocalisse zombie in sé. In The Walking Dead, invece, l’evento apocalittico resta sullo sfondo. Non se ne indagano mai le cause (e sì, questo vuol dire anche niente invasione aliena), perché ciò che conta per i protagonisti è sopravvivere all’orrore che li circonda. Il protagonista di The Walking Dead è Rick Grimes, un poliziotto che si risveglia improvvisamente dal coma in cui è caduto anni prima. Il suo risveglio non è dei più piacevoli, considerando che dovrà attraversare un ospedale pieno di pazienti più morti che vivi, i “walkers” che hanno preso il controllo dell’America rurale. Anche quello di Rick è un ruolo tipico di chi incarna lo status quo, poiché un poliziotto non potrebbe fare altrimenti. Ma in The Walking Dead l’apocalisse zombie ha portato al collasso qualsiasi sistema economico, politico e sociale, cosicché tocca capire quale status quo ricostruire, e come.
Poster promozionale di The Walking Dead. Nella serie televisiva le armi diventano identificative dei protagonisti.
I sopravvissuti si sono radunati nelle grandi città, e Rick parte per Atlanta alla ricerca della moglie e del figlio. Questo pretesto sarebbe sufficiente a imbastire un’intera stagione televisiva È quanto, per esempio, succede in Fallout (2024), dove la protagonista è costretta ad attraversare le poco ospitali e altamente radioattive Wastelands alla ricerca di suo padre. Tuttavia, in The Walking Dead la ricerca della famiglia di Rick prende giusto una manciata di episodi (e capitoli). Riunita la famiglia le cose si complicano e Rick è costretto a fare i conti con l’attacco dei walkers e con il bisogno di un riparo sicuro. Ogni volta che il gruppo trova asilo, si raggiunge un equilibrio che viene poi spezzato da un atto efferato, come a suggerire che i mostri più temibili siano quelli capaci di assassinare, imprigionare, e stuprare i propri simili, più che i paranormali, ma quasi tristi, zombie. La vera liminalità in The Walking Dead non è dunque quella del non-morto, ma quella del sopravvissuto, che vaga fisicamente da un rifugio all’altro e metaforicamente tra la condizione di umano e subumano. Così come i personaggi vivono l’ansia dello spostamento, che potrebbe portare alla perdita di un altro compagno (o di altra parte del proprio corpo), così il lettore vive con crescente apprensione quella stasi che avrà come esito una nuova gerarchia di potere, e il taglio di un altro ponte per Rick Grimes. Rispetto a Invincible, la struttura della storia funge più da grande cornice, nella cui ciclicità Kirkman trova spazio per porre interrogativi filosofici: perché dovremmo seguire una morale? Quali i sono i confini del sacro e del profano? Perché vivere in un mondo tanto crudele?
La narrazione transmediale: dal fumetto alla serie tv e oltre
Grazie a questi interrogativi, e al modo in cui Kirkman fa rispondere i propri personaggi, entrambe le opere hanno raggiunto una popolarità tale da trasformarsi in fenomeni transmediali, transitando dal fumetto alla televisione, fino ai libri e ai videogiochi.
Invincible, per esempio, ha debuttato come serie animata su Prime Video nel 2021, ricevendo il plauso della critica grazie alla fedeltà ai temi maturi del fumetto. L’adattamento costituisce un caso particolare nel panorama televisivo, perché Kirkman ha lavorato spalla a spalla col team di sceneggiatori, mentre le animazioni sono state supervisionate dal team di disegnatori dietro i numeri cartacei di Invincible. Inoltre, nei fumetti, Kirkman aveva adottato (e “brevettato”) una regola d’oro per assicurarsi un numero crescente di lettori: i principali cliffhanger cadevano ogni sei capitoli, affinché Invincible potesse essere proposto secondo formati diversi per dimensioni (volume, albo o Omnibus), ma mantenendone serrato il ritmo.
Le opere di Kirman spaziano tra i generi e gli adattamenti, dal cartaceo all’animato, passando per le serie live-action e il videoludico.
Per questo, tradurre Invincible in serie animata ha permesso a Kirkman di rimaneggiare la sceneggiatura a suo piacimento. Trame orizzontali e verticali vengono ri-intessute a piacimento degli autori. Così, ciò che può funzionare meglio al di fuori della carta, viene evidenziato dalla TV: è il caso delle scene splatter, che con la fluidità dei movimenti animati aumentano di numero e soprattutto di violenza. Dall’altro lato, ciò che potrebbe essere nascosto nel passaggio tra una vignetta e l’altra, o che magari è venuto a noia a suoi creatori, viene preso come un’occasione per raccontare qualcosa di nuovo. In questo modo l’adattamento è tra i migliori degli ultimi anni, poiché non solo traduce la sceneggiatura del fumetto di modo che il medium televisivo la esalti, ma poiché permette agli spettatori di osservare piccole versioni alternative della storia che conoscono, senza che questa venga loro a noia. Vale la pena spendere qualche parola sul personaggio di Amber, la prima fidanzata di Mark. Nei fumetti Amber rappresenta un po’ il mondo che Mark si è lasciato alle spalle, ovvero quello di un’adolescenza spensierata. In quanto tale, però, è anche un personaggio piuttosto bidimensionale. Come in molte storie supereroistiche, infatti, la relazione di Mark e Amber si complica quando lui la deve trascurare sempre di più a causa dei propri super–doveri. Questo porta alla decisione di Mark di rivelarle di essere Invincible, cosa che Amber aveva iniziato a intuire durante quello stesso giorno. Le cose vanno avanti per un po’, ma alla fine, i due riconoscono che la loro relazione non funziona e si lasciano. Si trattava già di una lettura piuttosto matura per l’epoca, senza grandi tradimenti o supercattivi pronti a rapire la fidanzata dell’eroe protagonista, né morti improvvise. In vista dell’adattamento animato, però, Kirkman e il suo team estremizzano questa narrazione. Nello show, Amber non la prende tanto per il sottile quando inizia a sentirsi trascurata da Mark. Sentendo aria di rottura, Mark decide di rivelare ad Amber la sua identità secreta, ma lei gli fa notare di averlo capito ormai da settimane. Gli rinfaccia, invece, la sua incapacità di comunicare apertamente, e come un sacco di problemi tra loro due avrebbero potuto essere evitati se solo lui fosse stato più sincero. Così, nella prima stagione Amber chiude la porta in faccia (o meglio, la finestra) al suo fidanzato volante. Forse si rinuncia a un po’ di realismo per percorrere la via “più originale”, ma è certamente una bella boccata d’aria fresca nel genere supereroistico. The Walking Dead, d’altro canto, ha trasformato l’immaginario collettivo del survival horror con una serie TV durata undici stagioni, seguita da spin-off, videogiochi e fumetti paralleli. Mentre l’adattamento ha ampliato l’universo creato da Kirkman, le tensioni psicologiche e sociali che caratterizzano la trama principale hanno continuato a essere il cuore pulsante della serie.
Undici stagioni, spin-off, videogiochi e fumetti paralleli: così The Walking Dead ha stravolto l’immaginario collettivo del survival horror.
A mettere le mani sul fumetto di The Walking Dead e a fare di tutto per trasporlo è stato nientedimeno che Frank Darabont, il regista de Le ali della libertà (1994) e del Miglio verde (1999). A lui si devono una serie di intuizioni felici che hanno fatto la fortuna della prima stagione. Per esempio, i personaggi del cast primario vengono associati alle rispettive armi; se nella serie a fumetti Rick inizia il suo viaggio dotato solo di un’accetta, e si serve di qualsiasi cosa gli capiti a tiro per disfarsi degli zombie (o degli umani), è difficile trovare anche un solo poster pubblicitario della serie TV che non lo rappresenti col suo revolver. A questo si lega anche l’introduzione, meramente televisiva, del personaggio di Darryl Dixon, che combatte con arco e frecce. Darryl è il tipico personaggio dal carattere freddo e distaccato, che non a caso combatte a distanza, ma che sotto sotto cela un cuore tenero. Queste caratteristiche lo hanno reso talmente popolare da donare al personaggio una nuova vita tramite lo spinoff The Walking Dead: Darryl Dixon, gestito dalla kirkmaniana Skybound Entertainment. Purtroppo, la serie di The Walking Dead ha vissuto alti e bassi, da una parte a causa del licenziamento di Darabont, dall’altra scontando le difficoltà di una vita quasi parallela a quella della sua controparte cartacea. Come successo per Game of Thrones (cfr. de Falco, 2021), questo ha reso più difficile gestire il senso di incredulità di fronte a una plot armor altalenante, con personaggi che sembravano spacciati fin dall’inizio e altri miracolosamente illesi dagli attacchi zombie. A maggior ragione poiché Hollywood, come sempre timorosa di rappresentare ciò che nella realtà non segue alcun canone estetico, ha lesinato su cicatrici e mutilazioni, che nei fumetti rivestivano una certa importanza per il gruppo di sopravvissuti.
Nella serie TellTale, The Walking Dead, giochiamo nei panni di una bambina costretta a crescere molto in fretta per poter sopravvivere.
Uno degli aspetti più affascinanti dell’universo creato da Kirkman con The Walking Dead è, invece, la sua espansione nel mondo dei videogiochi. Come sembra accadere con ogni progetto in cui è coinvolto lo sceneggiatore del Kentucky, anche qui il successo è stato travolgente. In particolare, la serie di videogiochi sviluppata dalla TellTale Games, una piccola realtà specializzata in avventure grafiche, ha ottenuto un impatto straordinario sulla comunità videoludica. Prima dell’incontro con The Walking Dead, questa casa produttrice era composta principalmente da ex dipendenti della LucasArts, impegnati a creare avventure punta e clicca ispirate a fumetti come Bone (Smith, 1991) e Sam & Max (Purcell, 1987). Tutto cambiò con la serie basata su The Walking Dead. Da esperienze umoristiche e basate sulla risoluzione di enigmi, la TellTale passò a narrazioni emotivamente intense, dove le scelte rapide del giocatore determinavano il corso della storia attraverso i cosiddetti Quick Time Events. Il primo capitolo del gioco prodotto da TellTale Games e Skybound Entertainment a tema The Walking Dead vendette oltre un milione di copie in soli venti giorni, generando decine di milioni di dollari per lo studio. Un risultato straordinario per una casa di produzione così piccola, ancora più sorprendente se confrontato con il fallimento del videogioco proposto da Activision per lo stesso franchise, considerando che quest’ultima è una delle maggiori aziende del settore videoludico.
Stare al gioco del narratore
La posta in gioco nelle storie di Kirkman non è mai banale. I dilemmi morali sono acuiti da vere e proprie minacce esistenziali, cui i protagonisti rispondono – volontariamente o meno – con violenza sì grafica, ma mai gratuita. Ogni personaggio, per quanto eroico o mostruoso, finisce inevitabilmente per confrontarsi con la propria umanità e, parimenti, con gli aspetti più abietti della propria natura. Questa tensione tra scelte individuali e conseguenze globali rende le sue opere non solo delle avventure coinvolgenti, ma anche delle profonde riflessioni sulla natura della moralità umana. Leggere Kirkman, in conclusione, è un po’ come assistere a un libro-game giocato da qualcun altro. Si può star certi che qualsiasi scelta, per quanto folle, rientri all’interno di una struttura coerente. Qualche anno più tardi, si può vedere la serie live action o animata, e perfino impersonare i protagonisti all’interno di un videogioco, per controllare che Kirkman non abbia deciso di giocare diversamente la sua partita.
- Roy F. Baumeister, Ellen Bratslavsky, Catrin Finkenauer, & Kathleen D. Vohs, Bad is Stronger than Good in Review of General Psychology, 5(4), 5 dicembre 2001.
- Mirella de Falco, “Media dopo la morte”. Successo e disattesa delle aspettative in Game of Thrones, in Adolfo Fattori (a cura di), I mondi di Game of Thrones. Poteri, amori, conflitti a Westeros, Krill Books, Napoli, 2021.
- Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 1997.
- Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, Milano, 2006.
- Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino, 2000.
- Marie-Laure Ryan, Fiction, non-factuals, and the principle of minimal departure, in Poetics, 9(4), agosto 1980.
- Liisa Steinby, Bakhtin’s Concept of the Chronotope: The Viewpoint of an Acting Subject, in Liisa Steinby & Tintti Klapuri (a cura di), Bakhtin and His Others: (Inter)Subjectivity, Chronotope, Dialogism, Anthem Press, Londra, 2014.
- Neil Druckmann, Bruce Straley, The Last of Us, Sony Computer Entertainment, 2013.
- Garth Ennis, Darick Robertson, The Boys, Raccolta 1-7, Panini Comics, Modena, 2023.
- Robert Kirkman, Tony Moore, Charlie Adlard, The Walking Dead, Raccolta 1-9. Saldapress, Reggio Emilia, 2019-2021.
- Robert Kirkman et al., Invincible, Omnibus 1-9, Saldapress, Reggio Emilia, 2021-2023.
- Robert Kirkman, Jeff Allen, Invincible, Prime Video (2021-in corso).
- Robert Kirkman, Frank Darabont, The Walking Dead (stagione 1), AMC, 2010.
- Eric Kripke, The Boys, Prime Video (2019 – in corso).
- Craig Mazin, Neil Druckmann, The Last of Us, HBO, 2023.
- Mark Millar, Steve McNiven, Civil War, Panini Comics, Modena, 2020.
- Frank Miller, Lynn Varley, Il ritorno del cavaliere oscuro. Batman, Panini Comics, Modena, 2020.
- Alan Moore, Dave Gibbons, Watchmen, Panini Comics, Modena, 2024.
- TellTale Games, The Walking Dead, 2013.
- Graham Wagner, Geneva Robertson-Dworet, Fallout, Disney+ (2024 -in corso).
- David Zabel, Robert Kirkman, The Walking Dead: Daryl Dixon, AMC, 2023-in Corso.