Gwangju è “diventato un modo per definire tutto ciò che è isolato con la forza, oppresso e brutalizzato, tutto ciò che è stato irreparabilmente mutilato”. Nelle parole di Han Kang nel suo ultimo romanzo Atti umani (2017) Gwangju ha smesso di essere una città. Col gran parlare di ciò che accade a Nord del 38° parallelo nella penisola coreana, la pubblicazione da parte di Adelphi del nuovo romanzo dell’autrice de La vegetariana (2016) non poteva arrivare in un momento migliore per raccontare la storia a Sud del regime di Pyongyang, anch’essa macchiata da dittature e governi autoritari, da un lungo e sanguinoso processo di democratizzazione che toccò il fondo del barile col cosiddetto massacro di Gwangju.
Quel muro abbattuto in Europa nel 1989 in Asia è ancora in piedi sotto forma di una zona demilitarizzata, una parete invisibile dall’alto di cui è stato possibile osservare le tristi evoluzioni dei governanti da un lato e dall’altro. Nessuno di loro è stato però mai risparmiato dal malcontento della popolazione, in particolare degli studenti. Prima, durante e dopo la fratricida guerra di Corea (1950-1953) ci fu il filo-americano Syngnam Rhee a presiedere il primo governo coreano sino al 26 aprile 1960, giorno in cui la Rivoluzione d’aprile degli studenti in piazza non lo costrinse a lasciare la Casa Blu, l’equivalente della Bianca negli USA.
Seguì a lui l’uomo che mise in caldo ogni singolo elemento che avrebbe portato alla tragedia di Gwangju: un governo dittatoriale, spietato, barricato dietro l’ideale della sicurezza e la lotta ai comunisti del nord, lo scudo con cui i diritti umani furono scaraventati in un angolo per essere dimenticati. Il sistema Yusin imposto da Park Chung-hee concedeva al governo poteri altrimenti banditi dalle convenzioni internazionali dopo la seconda guerra mondiale. La rurale Sud Corea fu industrializzata con la forza, nessuna chance di unirsi in comitati o protestare per chiunque lavorasse nelle fabbriche a orari e in condizioni sovrumane. Proteste, gruppi religiosi e studenti astuti trovarono il modo di aggirare i divieti, contrastare il sistema Yusin, e quando Park Chung-hee fu assassinato nel 1979 i protagonisti del movimento anti-regime soffiarono via il fetore di chiuso con la prima vera finestra aperta su una Sud Corea democratica.
Durò poco. Arrivò Chun Doo-hwan, generale dell’esercito, membro della ristretta cerchia di Park Chung-hee, e con un colpo di stato terminò ogni speranza e prese per sé il potere un mese dopo la morte del suo predecessore. In quel dicembre del 1979 iniziò la triste storia di Gwangju, ancora non del tutto metabolizzata nei media sud coreani, purtroppo ancora ignorato al di fuori dei confini del continente asiatico.
Il 18 maggio va a fuoco
Nonostante gli anni di addestramento siano serviti in caso di un attacco al nord o una difesa da una loro possibile invasione, da Seul i soldati volarono verso sud. Con questa immagine comincia May 18 (2007) di Kim Ji-hoon, un preludio alla tragedia che verrà, rappresentata interamente nelle due ore seguenti. Gwangju fu chiusa dall’esterno: non v’era modo né di entrare né di uscire, l’esercito creò una bolla e dopo diverse proteste in piazza seguì pedissequamente gli ordini arrivati dall’alto e sparò sulla folla. Han Kang inizia così il suo secondo capitolo di Atti umani, L’amico del ragazzo. 1980: “I nostri corpi furono accatastati uno sopra l’altro a forma di croce”, i cadaveri di uomini, donne e bambini non identificati erano trasportati all’interno di grandi edifici con la speranza di trovare un nome e una famiglia prima di essere spostati. Come da titolo del film, fu il 18 maggio quando le truppe di Chun Doo-hwan iniziarono l’operazione di pulizia, le piazze dove se ne chiedeva la destituzione furono lavate col sangue della sua popolazione, senza alcuna via di scampo, eccetto una, secondo l’opinione di alcuni cittadini, una controffensiva armata.
Una scena dal film 26 years di Cho Geun-hyun.
Una missione senza speranza di successo, rappresentata con ammirazione da Kim Ji-hoon nei suoi ultimi minuti, in cui il romanzo dei suoi protagonisti incontra la fine. Sopra quelle stesse strade interdette a chiunque arrivasse da fuori la città, corse il giornalista tedesco Jürgen Hinzpeter, la cui storia è stata protagonista in A Taxi Driver (2017) di Jang Hoon. Attratto da quanto accadeva in Sud Corea, Hinzpeter grazie all’aiuto di un tassista mai identificato, interpretato dalla celebrità Song Kang-ho, il reporter riuscì a entrare a Gwangju e a strappargli con la videocamera le immagini del massacro. Fu l’unico strumento attraverso cui l’esterno poté vedere quanto accadeva in Sud Corea, eventi sino a quel momento mascherati dal governo come una piccola ribellione filo-comunista in cui i morti erano più i soldati che i cittadini. Quei giorni di maggio sono stati interpretati e raccontati numerose altre volte, la soppressione è stata vissuta sugli schermi del Nuovo Cinema Coreano di fine anni Novanta, A Petal (1996) di Jang Sun-woo e Peppermint Candy (1999) di Lee Chang-dong, nel celebrato k-drama Sandglass andato in onda sulla SBS nel 1995, e in 26 Years (2012) di Cho Geun-hyun. Ognuno unito al prossimo forma un mosaico perfetto non tanto degli eventi del 1980, rappresentati quasi per intero solo in May 18 e A Taxi Driver, ma degli effetti che le sofferenze degli studenti hanno avuto sulla popolazione della Sud Corea.
L’identità attraverso il dolore
Negli anni seguenti il massacro, il cordoglio e il ricordo furono vietati. A lungo si sono protratte le torture nelle carceri per dissidenti e innocenti, come Han Kang ricorda bene nel quarto capitolo, Il prigioniero. 1990, persino la sepoltura divenne un caso, le politiche della memoria furono contrastate. Ai cittadini di Gwangju e alla nazione non si consentì alcuna commemorazione, un percorso destinato a ostacolare la crescita della Sud Corea, trovare una sua identità nella metabolizzazione del dolore condiviso tra quelle strade. In quest’ottica Peppermint Candy di Lee Chang-dong arriva in soccorso, girando sottosopra la clessidra di Sandglass dove il tempo scorreva in modo convenzionale, dagli anni Settanta in poi fino a raccontare prima del finale il dolore di una nazione in cui si manifestò una nuova lotta fratricida su una penisola dalle ferite ancora aperte. Peppermint Candy inizia dal suicidio del suo protagonista, braccia alzate a mo’ di croce e un urlo lanciato contro il treno pronto a schiacciarlo sui binari di una sopraelevata.
La scena iniziale del film Peppermint Candy di Lee Chang-don.
La morte è l’inizio della storia, percorsa a ritroso per trovare le ragioni della cattiveria del suo protagonista, le stesse di una Sud Corea ancora incapace di definirsi senza una comprensione e un’indagine accurata del proprio passato. Yong-Ho, il suicida, desidera tornare indietro, compiere nuove scelte, ma la sua identità coincide con l’identità nazionale, il cui germe risiede nella Gwangju infusa in un blu profondo, dove si rivela il momento in cui iniziò ad andare storta la sua vita, in un omicidio indesiderato quando servì nell’esercito nel 1980, anno del massacro. È una storia di violenze domestiche, abusi di potere e dolore estremo causato da una forza con cui la Sud Corea non aveva ancora voluto confrontarsi, fin quando Sandglass non la portò sul piccolo schermo spettacolarizzando il dolore tra finzione e immagini di repertorio, sottolineando la realtà del background del protagonista deciso a calpestare la via della corruzione e della criminalità.
Per A Petal di Jang Sun-woo il dolore di Gwangju senza un ricordo collettivo ancora maturo vaga per le strade della Corea nei panni di una giovane donna disturbata, con una personalità in frantumi, distrutta da quanto subì in quei giorni di maggio, ma per cui le sofferenze ancora non sono concluse: violenze sessuali, insulti e soprattutto l’indifferenza generale che lascia muta ogni speranza di poter scoprire quale sia stata la ragione del suo disturbo, destinata solo agli occhi dello spettatore. Gli anni Novanta strillarono sugli schermi televisivi e cinematografici la forza del dolore represso dalla persistente dittatura di Chun Doo-hwan, conclusa nel 1988 con le prime elezioni democratiche della Sud Corea, il secolo successivo decise invece di ricostruire i fatti, elencarli, reagire nei loro confronti e porre fine alla sofferenza protrattasi troppo a lungo senza alcun aiuto da parte della giustizia. 26 Years di Cho Geun-hyun, adattamento di un manhwa online (fumetti/cartoni animati, ndr) di Kang Full, segue cinque personaggi nel loro complotto per assassinare l’uomo responsabile del massacro, eroi vendicativi in opposizione al successo commerciale di A Taxi Driver.
Dal film A Taxi Driver di Jang Sun-woo.
Jang Hoon nel 2017 individua in quei giorni un eroe sconosciuto, quel tassista grazie a cui il giornalista Hinzpeter riuscì a catturare le immagini delle violenze perpetrate dall’esercito. Nessuno sa il suo nome, nessuno si fece mai avanti per reclamare il suo posto tra i giusti della storia sud coreana, è rimasto in silenzio a lungo, con buone probabilità per evitare contrattacchi da parte del governo. Song Kang-ho interpreta un eroe qualsiasi, fuori dagli schemi consueti, rientra nella visione del cinema coreano dell’uomo comune posto davanti a un bivio storico dove si troverà a dover scegliere tra giustizia e ingiustizia, tornaconto personale e sacrificio. È un passaggio storico in cui la Sud Corea proietta sullo schermo un tentativo di riscoprire sé stessa non più soltanto attraverso il dolore, oramai celebrato con le dovute cerimonie annuali per ricordare le vittime del massacro, ma anche rintracciando esempi dalla moralità identificabile con chiunque sieda sulle poltrone di un cinema. Un’identità da eroe di tutti i giorni affidata a uno degli interpreti principali dello star system coreano, uno strumento atto a raddoppiare l’identificazione, prima col divo e il desiderio dunque di condividere la sua vita, poi col personaggio, preso dalle stesse difficoltà sociali ed economiche del proprio vicino, collega o se stessi.
- Alberto Abruzzese, Manolo Farci, Tracce – Il dolore, Minima&Moralia.
- Hye-seung Chung, David Scott Diffrient, Forgetting to Remember, Remembering to Forget. The Politics of Memory and Modernity in the Fractured Films of Lee Chang-dong and Hong Sang-soo, in Frances Gateward (a cura di), Seoul Searching. Culture and Identity in Contemporary Korean Cinema, University of New York Press, Albany, 2007.
- Mi Park, Organizing Dissent Against Authoritarianism: The South Korean Student Movement in the 1980s in “Korea Journal”, Numero 45, 2005.
- Jang Sun-woo, A Petal, Miracin, 1996.
- Lee Chang-dong, Peppermint Candy, Third Window Films, 2010 (home video).
- Song Ji-na, Sandglass, SBS, 2015.
- Kim Ji-hoon, May 18, CJ Entertainment, 2007.
- Cho Geun-hyun, 26 years, Chungeorahm Films, 2012.