Una rosa per l’Ecclesiaste (A Rose for Ecclesiastes, 1963) di Roger Zelazny
In Le grandi storie della fantascienza n. 25, prima apparizione su The Magazine of Fantasy and SF novembre 1963. La dimensione dell’ultraterreno e la sua tensione con il profano è uno dei temi centrali nella produzione di Zelazny. In questo racconto l’autore lo affronta attraverso un altro incontro-scontro, quello più tradizionale tra Noi e gli Altri, tra culture opposte: quella della Terra e quella di Marte, la prima interprete di una visione mutevole del mondo in cui il processo di cambiamento è nella mani dell’uomo, la seconda – quella marziana – fossilizzata e rassegnata all’estinzione e alla volontà di una profezia escatologica. Un poeta e intellettuale schizzinoso con la passione per le lingue viene scelto per instaurare un contatto con l’antica civiltà marziana. È una civiltà gelosa dei propri segreti ma estremamente romantica, crepuscolare, attenta soprattutto a custodire il segreto più grande: quello riguardante il suo destino, ineluttabilmente tendente all’estinzione entro la prossima generazione. Gallinger, questo il nome del protagonista, riesce a conquistare la fiducia delle Matriarche marziane e penetra in profondità nella loro cultura, innamorandosi perdutamente di una (apparentemente) giovane danzatrice, “sacerdotessa” di un culto millenario. Quando però la loro storia rischia di compromettere la volontà dell’ultima profezia, quella che sancisce l’estinzione della specie marziana a causa della sopravvenuta sterilità dei maschi, le Matriarche decidono di troncare la storia e Gallinger, disperato, tenta di convincerle dell’errore: lo fa attraverso una rosa e attraverso un’opera, il Libro dell’Ecclesiaste nella Bibbia. Due elementi peculiarmente terrestri, due elementi opposti tra loro: la rosa, simbolo della fertilità, della rigenerazione; l’Ecclesiaste che invece è l’inno alla passività, alla rinuncia, all’abbandono di ogni forma di azione umana. È la rosa, infine, a prevalere. Lo stile di Zelazny è sempre anti-convenzionale, spesso poetico, mai banale, e Una rosa per l’Ecclesiaste lo conferma. Poetico è però soprattutto il tema di fondo, quello dell’amore che rappresenta la forza vitale degli esseri viventi, forza di mutamento e rigenerazione. Attraverso l’amore per la marziana Braxa, Gallinger riesce a infondere nella civiltà marziana una nuova vita consentendole di emanciparsi dal destino a cui si è condannata a causa di una classica “profezia che si autorealizza”. Zelazny attraverso questo racconto conduce un attacco a fondo contro il fatalismo e l’inno alla vita contemplativa presente nell’Ecclesiaste biblico, incentrato sulla famosa sentenza: “Vanita delle vanità, tutto è vanità” a intendere l’inutile affannarsi dell’uomo sulla terra, poiché nulla di ciò che farà può cambiare le cose visto che “una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa” (Ecclesiaste 1,4). Questa visione rinunciataria che caratterizza la civiltà marziana, e che ha caratterizzato molte correnti di pensiero della civiltà terrestre, è fortemente osteggiata da Gallinger/Zelazny alla quale contrappone lo slancio vitale dell’amore. Si scorge più di una similitudine con il pensiero di Nietzsche nel suo Così parlo Zarathustra, il suo attacco alla religione cristiana che schiavizza l’umanità soffocandone lo slancio vitale in virtù di un premio futuro, una ricompensa eterna che non sarà conseguita sulla terra ma nell’illusorio regno dei cieli. Gallinger è quindi una sorta di Oltreuomo che fonda un’intera civiltà su basi nuove, rovesciando la morale precedente e i senescenti sistemi di valore. “Non sono mai cresciuti fiori su Marte, ma impareremo a coltivarli”, afferma la Matriarca nel finale del racconto. È una chiara sfida all’immutabilità del reale, la manifestazione di un desiderio di rinascita simboleggiata da quel “grande ventre”, come dice Gallinger nel finale per descrivere Marte in lontananza nello spazio. Zelazny usa qui diversi luoghi comuni nella fantascienza: la decadenza della civiltà marziana e l’improvvisa sterilità di un’intera razza. Il primo tema è usato già da Wells nella Guerra dei mondi e diventerà un leit-motiv della produzione fantascientifica perché attraverso la decadenza di Marte si scorge il timore e la profezia di una futura decadenza della nostra civiltà. Burroughs con John Carter, Bradbury con Cronache marziane, Heinlein in Straniero in terra straniera. E poi il tema della sterilità, pure proveniente dal sostrato delle paure umane perché la sterilità generale rappresenta il ristagno e l’inevitabile estinzione. Un tema recentemente riproposto da Cuaron nel suo film I figli degli uomini trattato dal romanzo di P. D. James, ma presente in I giocatori di Titano di Dick, Gli eredi della Terra di Kate Whilelm e moltissimi altri. Roger Jopseph Zelazny (1937-1995) è stato uno degli scrittori di punta della new wave fantascientifica incentrata più su temi umanistici che scientifici. Tra i suoi capolavori: Io, l’immortale (1966), Signore della Luce (1967), la saga fantasy Le cronache di Ambra (1970-78). Ha vinto sei volte il premio Hugo.
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