MAPPE | QDAT 64 | 2016

di Lucienne Peiry

 

“Come / una / Farfalla / Libera 

/ son / Io / Tutto / il / Mondo 

/ è mio e / Tutti / fo / Sognare”

*
Nell’Ospedale psichiatrico e giudiziario di Volterra, in Toscana, il cortile è l’unico spazio in cui i pazienti-reclusi sono a contatto col cielo e l’aria aperta durante l’ora della passeggiata. Un centinaio di uomini si raduna in questo cortile di duecento metri quadrati. Alcuni giocano a bocce o a carte, dormono o chiacchierano, altri fumano mozziconi di sigarette raccattati o sottratti di nascosto, altri ancora litigano e si azzuffano. Tra tutti, un giovane di trentadue anni si tiene sempre in disparte e non rivolge la parola a nessuno: Fernando Oreste Nannetti scrive ogni giorno sulle facciate dell’edificio servendosi della punta metallica (l’ardiglione) della fibbia del suo gilet. Nel corso di nove anni (dal 1959 al 1961 e dal 1968 al 1973) incide un libro di pietra a cielo aperto, un’opera scritturale colossale che si sviluppa su un muro lungo settanta metri.
Il “Ferri” è uno dei padiglioni che formano il grande complesso ospedaliero psichiatrico della città toscana1. Costruito in cima a una collina – segno di isolamento totale – l’edificio è circondato da un muro di cinta sormontato da inferriate e filo spinato, e sorvegliato da guardiani, come in un carcere di massima sicurezza in cui i reclusi sono esiliati, messi al bando dalla collettività. Dopo aver provato la morte sociale e familiare, sono sottoposti a condizioni di vita da campo di concentramento.
Al primo piano dell’ospedale i pazienti-reclusi sono distribuiti in dormitori di una trentina di posti. Durante il giorno, dopo i pasti, sono ammassati mattina e pomeriggio al piano terra, in uno stanzone in cui lo spazio medio per ogni individuo si riduce a un metro quadrato2. Lì, sono costretti a camminare in cerchio attorno a un tavolo, senza mai fermarsi – come una massa umana nelle sabbie mobili – per limitare il rischio di dispute e risse. L’esistenza si riduce a questo caos spaventoso, a questo clima opprimente di liti, frastuono, deliri e grida, tranne che durante l’ora di uscita in cortile, “all’aria3”. In questo tumulto che abbrutisce per lo squallore, la miseria, la promiscuità permanente, che si beffa dell’intimità, Nannetti sceglie l’introspezione e il monologo interiore, il ripiegamento e il silenzio. Il soliloquio lapidario.
Il giovane dà corpo a un’opera immaginaria servendosi dei poveri mezzi di cui dispone: la facciata dell’ospedale come supporto espressivo e la punta metallica della fibbia del gilet come strumento di lavoro. Mezzi che grazie a un’ingegnosa metamorfosi assumono un significato simbolico. Il muro dell’asilo-prigione, eretto in origine per separare ed escludere, diventa lo schermo sensibile dei deliri poetici dell’autore; l’ardiglione, elemento della divisa regolamentare, obbligatoria, uguale per tutti, che annulla identità e personalità, si trasforma in uno strumento di libertà, il grimaldello per la sua fuga4.

 

Il panciotto indossato da Nannetti, la divisa dell’Opsdale psichiatrico di Volterra e l’ardiglione della fibbia con il quale incideva il graffito sui muri esterni del padiglione Ferri. Foto: Pier Nello Manoni.

 

L’opera scritturale di Nannetti non è retta da intenzioni artistiche o culturali, e non ha destinatari. Con ardore, egli tenta di sublimare la disperazione e di trovare nella scrittura poetica l’unico senso possibile alla sua vita; così facendo, ricostruisce l’identità che gli è stata saccheggiata. Il suo comportamento è quindi costruttivo e pacificatore, ma anche contestatario5.

Gesto sfrontato fin dall’Antichità6, scrivere su un muro è considerato ancora oggi un segno d’inciviltà, d’illegalità, prossimo al vandalismo. I graffiti costituiscono per definizione una pratica irriverente e provocatoria. Incidendo i suoi testi sulle facciate stesse dell’ospedale, Nannetti attacca l’istituzione psichiatrica e giudiziaria, e metaforicamente prende di mira l’autorità che rappresenta. È vero che, non disponendo di altri supporti, egli deve fare di necessità virtù. Ma il carattere ribelle del gesto non impedisce all’autore di voler mantenere segreta una parte del suo diario7. Benché si dedichi alle sue iscrizioni tra l’indifferenza generale, con la sola eccezione dell’infermiere Aldo Trafeli, il diarista è costretto a scrivere “in pubblico”, sotto gli occhi della comunità, davanti a tutti8. Per salvaguardare la sua sfera privata, e soprattutto per conferire una qualche clandestinità alla sua produzione, Nannetti elabora una strategia; ma prima di attuarla, l’incisore deve risolvere dei problemi concreti e superare difficoltà di carattere tecnico.
I materiali di cui sono costituite le facciate, intonaco e cemento, sono resistenti e si prestano con difficoltà all’intervento. Generalmente, Nannetti rinuncia alla scrittura corsiva, per evitare le curve, e preferisce le lettere maiuscole, spigolose e quindi più facili da incidere. Sulle parti di muro ricoperte di cemento è costretto spesso a ripassare quattro volte sull’intaglio per far apparire con nitidezza le parole e ottenere il rilievo voluto. L’attrezzo di cui si serve è mediocre: la punta metallica è corta e difficile da tenere tra le dita, e oltretutto si smussa rapidamente sulla superficie abrasiva. L’incisore è costretto continuamente a procurarsi – scovare, sottrarre – un nuovo ardiglione.
Tuttavia le scelte di Nannetti non sono fortuite, e la grafia angolosa è effettivamente dettata da  motivi di praticità. Come nel caso di Jeannot, altro autore di Art Brut che incide il suo testo-pamphlet a caratteri maiuscoli ortogonali sul pavimento di quercia di camera sua servendosi di un coltello e di una sgorbia9. Ma al contrario della scrittura di Jeannot, quella di Nannetti è molto difficile da decifrare. Le lettere sembrano spuntare in modo quasi aleatorio e, di primo acchito, appaiono come un miscuglio ermetico di segni che è possibile decriptare solo gradualmente e dopo un lungo e attento esame. Evidentemente, Nannetti vuole rendere oscuro il senso delle sue parole.
Molti dei procedimenti cui ricorre rendono difficile la leggibilità e rallentano considerevolmente la comprensione degli scritti: gli angoli delle lettere, principalmente acuti (e non retti come nella scrittura lapidaria dell’epoca romana) e la giustapposizione delle parole senza punteggiatura, formano una scriptio continua, un flusso ininterrotto di parole10. A complicare ulteriormente la comprensione del testo contribuisce l’uso della scrittura bustrofedica, che consiste nel cambiare direzione a ogni riga, invertendo anche il senso delle singole lettere.

Peraltro, fin dal primo sguardo, queste specificità scritturali rendono i testi di Nannetti singolarmente affini agli scritti etruschi. Nato a Roma, dove ha trascorso infanzia e giovinezza, dal 1927 fino all’arresto nel 1956, egli ha forse avuto modo di vedere questo tipo di iscrizioni nella capitale o in località vicine. È probabile che la forma delle lettere etrusche si sia impressa nella mente del giovane che se ne è appropriato e le ha incluse nella sua strategia di distanziamento per restituirle in una calligrafia personale e misteriosa11.

 

Particolare del graffito. Foto: Pier Nello Manoni.

 

Questa “clandestinizzazione” del testo è comune a molti scritti brut. La poetessa Constance Schwartzlin-Berberat, per esempio, ha inventato una calligrafia le cui lettere si sono allungate sempre più fino a diventare filiformi e a rendere difficile la lettura del suo diario12. Come lei, Nannetti opera una sorta di codificazione, il cui fine è dissuadere o almeno differire l’accesso a queste pagine intime, in altre parole confondere le tracce.
Altri aspetti grafici contribuiscono a rendere oscuri gli scritti. La successione delle parole sulle facciate dell’ospedale non procede in modo rettilineo, ma ondeggia seguendo a volte il riquadro o le modanature delle finestre dell’edificio, come i personaggi dei timpani medievali che piegano il corpo adattandosi all’architettura. Da notare che Nannetti abbandona la linearità della scrittura in modo ancora più spettacolare quando segue con precisione il contorno delle teste dei pazienti in stato catatonico, seduti immobili sulle panchine del cortile. Questa pratica la dice lunga sulle condizioni in cui l’incisore crea e sul suo bisogno irreprimibile di dare forma a un’opera poetica, nella fretta e nell’urgenza, durante l’unica ora di libertà quotidiana che gli è concessa.
Questi stratagemmi, che servono a dissimulare gli scritti e mantenerli segreti, rientrano al tempo stesso nelle scelte estetiche dell’incisore.
Nannetti orchestra il suo muro di pietra, se ne appropria, deve fare letteralmente corpo unico con esso, tanto più che le condizioni tecniche di lavoro sono difficili e richiedono all’autore uno sforzo fisico e una destrezza costanti. Tenendosi rasente alla facciata, deve sentirne intensamente la presenza e il supporto deve sembrargli immenso dato che l’edificio misura circa quattro metri di altezza; da qui la necessità di circoscrivere lo spazio di iscrizione. L’incisore comincia invariabilmente con l’«impaginare» la superficie tracciando dei rettangoli – le pagine – trasformando il muro in un libro di pietra13. Dopo aver dato all’opera una struttura ortogonale – una cornice, in senso proprio e figurato – Nannetti si sente libero di riempirla con le sue invenzioni linguistiche. Invenzioni che si sviluppano sull’intera superficie destinata all’espressione, senza vuoti, limitazioni o ripensamenti, in un amor impleti14 gioioso che illustra in modo eloquente il suo irresistibile bisogno di creare.

Le lettere, legate tra loro secondo una logica voluta, si susseguono in un movimento talvolta danzante che anima le pagine. Nannetti si diletta a utilizzare certe tecniche scritturali riprodotte o inventate. La scrittura bustrofedica, per esempio, pur rispondendo a delle esigenze pratiche, lo affascina. Lo divertono gli effetti speculari, scrivere le lettere nei due sensi, tracciarle a diritto e a rovescio, farle andare e venire, e giocare con la scrittura come se suonasse una fisarmonica diatonica, aprendo e chiudendo il mantice dello strumento senza mai fermarsi. Le lettere spigolose e appuntite, dall’aspetto etrusco, infondono al muro una vibrazione che lo assimila a un spazio stellare – cui del resto egli allude spesso nei suoi scritti. Nannetti inventa una costellazione alfabetica, restituisce valore grafico e virtù estetiche alle lettere e alle parole, arricchisce le sue pagine con disegni schematici e sintetici: una caravella, un’aquila, un elicottero, una chiesa in un paesaggio di montagna15. Disegni e lettere appaiono sulla stessa superficie incrociandosi di frequente. L’incisore manda in frantumi la dicotomia occidentale che abitualmente separa la scrittura dalla forma, celebrando nella sua opera la sintesi di parola e immagine.
Quest’avventura poetica finirà per liberare Nannetti dal linguaggio verbale. Durante i primi mesi di internamento nell’ospedale psichiatrico di Roma, il giovane è “loquace”, “chiassoso” e “parla sempre ad alta voce”, anche di notte. Nelle sue “logorree”, per riprendere il termine usato nella sua cartella clinica, crea dei neologismi. Fino ad allora la parola è sonora, intonativa. Ma a partire dalla reclusione a Volterra, lontano dalla città natale, la loquacità scompare lasciando il posto al mutismo16. Nannetti cambia registro, passa a un altro modo espressivo: non parla più, scrive; non canta più le parole, le “monumenta”. La parola non è più aerea, volatile, effimera; è iscritta, fissata nella pietra, incarnata.
Questo singolare “mutismo creativo” è un fenomeno ricorrente nella vita di parecchi autori di Art Brut, come Anghus McPhee, Constance Schwatzlin-Berberat o Sylvain Fusco, per i quali “entrare nel silenzio” coincide con l’irrompere di pulsioni creatrici che generano un’espressione artistica inedita. Come se il silenzio fosse indispensabile per la concezione e la produzione di lavori di tale ricchezza. Non solo, ma la rinuncia volontaria alla parola intesa come mezzo sociale di scambio, sembra aver liberato in ciascuno di loro capacità inventive straordinarie che si sono intensificate nel corso degli anni. Nannetti, come McPhee, Schwartzlin-Berberat o Fusco, traspone forza e potenza immaginative in un unico registro, quello della creazione simbolica.

“Corazzi / Nannetti = Fernando / nato / a / Roma il / 3 / 10 / 1927 / moro / spinaceo / castagno / alto / 1,60 / secco / bocca / stretta / naso / Y”.

Questa dichiarazione d’identità, presentata come l’estratto di una scheda segnaletica, compare fin dalle prime righe del libro lapidario di Nannetti. L’autore fa un ritratto puramente descrittivo della sua persona, composto di dati obiettivi, senza alcuna benevolenza, invenzione o forzatura, mettendo l’accento sui dati anagrafici e le caratteristiche fisiche, ben lontano da qualsiasi forma di narcisismo. Una presentazione che richiama singolarmente quella di un altro autore di Art Brut, Emile Josome Hodinos:

“Emile Hodinos Josome. È di altezza media. La dimensione della sua testa è pari alla distanza compresa sotto il mento e la parte superiore dei Pettorali, dai Pettorali all’ombelico, dall’ombelico alla linea del ventre, le spalle misurano due teste […]. I capelli, la barba, i baffi, il naso aquilino, la bocca media […]17”.

 

Particolare del graffito. Foto: Pier Nello Manoni.

 

I due uomini declinano la loro identità – la cui integrità è stata sconvolta dall’internamento psichiatrico e dall’esclusione – proprio per ridarle forza e consistenza. Ma contrariamente a Hodinos, Nannetti reitera quest’esperienza iscrivendo le sue note autobiografiche come un leitmotiv che, con qualche variazione, impregna l’insieme del viaggio introspettivo condotto dall’autore, pagina dopo pagina. Ogni volta, il ritmo scandito della frase, prodotto dalla giustapposizione dei termini e dal gioco delle sonorità, rende le parole simili a una formula magica e incantatrice. Formula che sembra propiziare l’accesso a spazi mentali vertiginosi, fino ad allora inesplorati, e porta l’autore a formulare una declamazione identitaria singolare, una sorta di stravagante autoritratto: “sono Materialista e / Spiritualista / amo / il / mio essere materiale / come stesso / perche / sono / alto / ed / amabbile / del / mio / Spirito18”. 
L’avventura di Fernando Nannetti non si limita a una ricerca individuale. Il giovane le attribuisce anche una dimensione genealogica, convocando nei suoi scritti una numerosa e nutrita schiera di parenti, alcuni dei quali sono reali, mentre altri sembrano del tutto immaginari19. Come a conferma di un legame genetico, molti di loro hanno tratti somatici identici a quelli di Fernando – moro spinaceo Bocca stretta Naso Y. L’albero genealogico comprende la madre e il padre, fratelli, sorelle, fratellastri, cugini e zii – Leo, Roberta, Giuseppe, Rita, Vittoria – o antenati (dei quali specifica date di nascita e morte), e tutta un’ascendenza che non esita a far risalire a papi o a re. L’immaginazione e i fantasmi hanno un ruolo essenziale in questa storia familiare ricostituita e ricostitutiva. “I Fantasmi sono Fulmidabbili”, ossia i Fantasmi sono Formidabili – con un gioco di parole che associa fulmine a formidabile.
Nannetti è in contatto con il soprannaturale. Come molti creatori spiritisti costantemente in relazione con l’aldilà e i morti – Augustin Lesage o Magde Gill – egli afferma “sono in Collegamento20” e dice di essere al centro di un “Sistema Telepatico”; riceve informazioni, così come Jeanne Tripier riceveva “messaggi planetari21”. Evoca spesso l’universo siderale, e in particolare gli astri (il Sole, Venere, Mercurio, Saturno, Marte), alcuni stati (l’Inghilterra, la Francia, l’Albania, il Messico), ma anche il mondo sotterraneo di cui cita numerosi minerali (il rame, l’acciaio, l’ottone, l’argento). In questo stato di esaltazione, Nannetti entra in contatto sia con lo spazio interstellare che con le viscere della terra. Le sue relazioni pluripotenti gli conferiscono una sorta di presenza cosmica ubiquitaria; egli proclama di esercitare un potere assoluto – “Tutto / il / Mondo / è mio” – e di regnare come un demiurgo: “Nannettolicus Meccanicus / santo con / cellula / Fotoelettrica”.

In quest’universo irreale, erompe in assoluta libertà una miscela ibrida di conoscenze, reminiscenze e invenzioni linguistiche, come un festoso fuoco d’artificio. I temi si associano alle idee; l’opera (La Traviata, Rigoletto), la Bibbia (i Dieci comandamenti, la preghiera del Padre nostro) e la tecnologia si coniugano con sperimentazioni linguistiche e sonore producendo neologismi (“Astronnanavale”), allitterazioni (“Geri = Goete Gopta Giorgia Gasparri”) o distorsioni (“Steoposcopio”). Gli scritti di Nannetti non comportano una trama narrativa o un’organizzazione discorsiva nel senso comune dei termini, ma devono piuttosto essere considerati come un’esperienza poetica e ludica in cui la scrittura diventa avventurosa e si lascia trasportare dal movimento di incessanti fluttuazioni. L’autore stesso è affascinato dalle proprie invenzioni. Scompone e scardina il linguaggio, lo riordina giocando sulla musicalità e i ritmi, e con l’aspetto visivo e iconografico delle lettere. Significante e significato interferiscono, si scambiano, si sollecitano ininterrottamente22.
Nello stile di Nannetti riecheggia la poesia dei Futuristi italiani, il cui capofila Marinetti, circa cinquant’anni prima, scriveva: “Tintinnio zaini fucili cannoni ferraglia atmosfera = piombo + lava + 300 fetori + 50 profumi selciato – materasso detriti sterco di cavallo carogne flic-flac […]23”. Qui, come in Nannetti, le parole si susseguono e si associano in modo discontinuo, in virtù del loro valore semantico, sonoro e sensoriale, senza punteggiatura, aggettivi o avverbi, come prescrive il manifesto futurista di cui Marinetti è l’autore.
Sul suo muro Nannetti evoca anche avvenimenti clamorosi, movimentati, spesso violenti: “fusioni”, lanci di missili o lo scatenamento di onde magnetiche e le “scariche / cosmiche / Elettriche / intercontinentali astrali”. Naturalmente, si possono interpretare queste evocazioni come altrettante allusioni agli elettroshock che il paziente ha probabilmente dovuto subire in quel periodo. D’altra parte, le conoscenze del giovane in materia di elettricità hanno senza dubbio favorito questo tipo di invenzione. Ma è certo che il contesto politico ed economico nel quale è cresciuto Nannetti ha provocato in lui gravi traumi che riaffiorano sotto forma di estrapolazioni. “Il / passo / chiodato / avanzanza : su / tutta / Europa”.
Nannetti ha trascorso l’infanzia in un paese in preda a una grave crisi economica, quella degli anni Trenta che ha preceduto il conflitto mondiale e ha scosso profondamente l’Italia. Ha sedici anni appena quando Roma subisce il violento bombardamento del 1943. Dall’immediato dopoguerra e per oltre un decennio, vivrà la sua giovinezza in una penisola attanagliata dalle difficoltà economiche, segnata dalla disoccupazione, soprattutto nelle regioni meridionali, e immersa nella miseria.
Le esperienze violente della guerra e dell’indigenza hanno di certo scatenato nel giovane delle turbe psichiche, probabilmente aggravate da una fragilità dovuta all’abbandono del padre al momento della nascita. Un dolore riacceso dalla rottura con la madre, a soli sette anni, dal collocamento in un istituto caritativo e dal trasferimento in un ospedale in cui sarà ricoverato due anni per una grave malattia alla colonna vertebrale. Fernando Nannetti non è mai riuscito a riprendersi né a ritrovare un equilibrio nel suo corpo gracile, nell’identità violentata, nell’isolamento profondo, nella sua disperazione24.
La sorte si accanisce contro di lui quando viene esiliato dalla città natale, cui è molto legato, e recluso nell’Ospedale psichiatrico e giudiziario di Volterra. Figlio illegittimo, denigrato, incarcerato, Nannetti stringe un patto con l’immaginario, ricorrendo alla via simbolica come ultima risorsa. Crea un’opera della sopravvivenza. A cielo aperto, si consacra a un’intima meditazione rituale riuscendo a riattivare le energie creatrici primitive celate in lui. Fernando Oreste Nannetti sublima la sua tragedia per inebriarsi ogni giorno di deliranti effusioni lapidarie.

“I Soli / le / Lune le / Stelle si Alzano e discendono / e / possono / prendere /”.

 

Particolare del graffito. Foto: Pier Nello Manoni.
Oreste Fernando Nannetti in un autoritratto dell’artista da giovane , Collection de l’Art Brut, Losanna.

 


* Questo testo è stato pubblicato nel catalogo pubblicato in occasione della mostra organizzata da Lucienne Peiry alla Collection de l’Art Brut
a Losanna (Svizzera): Nannetti, (a cura) di Lucienne Peiry, Collection de l’Art Brut/ Infolio, Losanna/Gollion, 2011 (italiano, francese, inglese).

 

note

 

1.  Il complesso ospedaliero di Volterra, nel cuore della Toscana, comprende numerosi edifici e padiglioni e ospita migliaia di pazienti
(circa quattromila nel periodo in cui è ricoverato Nannetti). Si tratta di una vera e propria microsocietà, quasi autonoma, una città nella città che tra l’altro provvede alle proprie colture e conia la propria moneta.
2.  Molte di queste informazioni derivano dai vari incontri a Volterra (2008, 2009, 2010) con Aldo Trafeli, un ex infermiere dell’ospedale,
l’unica persona con cui Nannetti abbia avuto un rapporto di amicizia. Cfr. Mino Trafeli, Antonio Tabucchi, Teresa Maranzano, … [a al.], Neopsichiatria: esistere nella follia, no 2/95, Ed. U.S.L. 15, Volterra/Pisa Edizioni del Cerro, 1995 ed Elisabetta Pescucci, Alcuni esempi di giardini rientranti nella categoria dell’Art Brut, Università degli studi di Bologna, Facoltà di lettere e Filosofia, 1995-1996 e in L’Arte naive n. 59, Reggio Emilia, Age Grafico Editorale, 1997.
3.  L’ora di uscita è quotidiana, “se il tempo lo permette”, precisa Trafeli.
4.  Trafeli racconta che gli infermieri – essenzialmente delle guardie, due per un centinaio di uomini – il più delle volte “chiudono un occhio”
sull’attività di Nannetti, perché non dà fastidio a nessuno e non reca danno al gruppo dei detenuti.
5.  Nella cartella clinica di Nannetti è si legge che il paziente “aspirerebbe alla pacificazione universale”.
Anche la creatrice d’Art Brut, Aloïse, nutriva lo stesso desiderio.
6.  Cfr. Les Murs murmurent. Graffitis gallo-romains, Alix Barbet e Michel Fuchs (dir.), Musée romain de Vidy/Infolio, Losanna/Gollion, 2008.
7.  Se qualcuno gli chiede la ragione e il senso dei suoi scritti, Nannetti invariabilmente risponde che sono “cose private”
e cerca di allontanare l’interlocutore.
8.  Nannetti è comunque oggetto di qualche canzonatura da parte degli infermieri e degli altri detenuti.
Per sfuggire agli sfottò e sottrarsi agli sguardi altrui, durante l’atto creativo si sposta a volte da una facciata all’altra dell’edificio; i suoi scritti non si sviluppano pertanto in modo continuo e cronologico. Sembra inoltre che alcune parti di muro incise siano state ricoperte con uno strato d’intonaco e che l’autore vi sia intervenuto nuovamente in un secondo tempo.
9.  Le maiuscole figurano anche nelle iscrizioni lapidarie di epoca romana.
Riguardo a Jeannot, cfr. Guy Roux, Histoire du plancher de Jeannot, Encre et Lumière, Cannes-et-Clairan, 2005 e il catalogo della mostra Ecriture en délire, a cura di Lucienne Peiry, Michel Thévoz, John M. MacGregor, … [e al.], Milano/Losanna, Editions 5, Continents/Collection de l’Art Brut, 2008.
10.  Piccoli segni separano talvolta le parole, ma non si può parlare di una vera e propria punteggiatura.
11.  L’analogia con gli scritti etruschi è ancora più significativa se si pensa che Volterra è proprio uno dei luoghi più importanti
della civiltà etrusca e che numerose testimonianze scritturali sono state ritrovate nella città e nei dintorni.
12.  Cfr. Florence Choquard Ramella, Constance Schwartzlin-Berberat, in L’Art Brut 19, Losanna, Collection de l’Art Brrut,
1995 e il catalogo della mostra Ecriture en délire, cit.
13.  Di formato variabile, le pagine misurano in media 120 x 120 cm.
14.  Il neologismo amor impleti (amore del pieno) si contrappone al termine medico e psicologico codificato horror vacui (paura del vuoto).
Con questa nuova espressione si può definire la totale occupazione di un supporto dal punto di vista della creazione e del desiderio di espressione e non della patologia.
15.  I disegni rappresentano figure umane o animali, veicoli, forme architettoniche o geometriche.
16.  Tutt’al più brontolava, ricorda Aldo Trafeli.
17.  Cfr. Lise Maurer, Hemile Josome Hodinos, in L’Art Brut 18, Collection de l’Art Brut, Losanna, 1994.
18.  Nannetti dà alla formula l’accento romano, che raddoppia spesso le consonanti: Pariggi, robbusto, reggina, Norveggia, maggico.
19.  Questa particolarità ricorda “l’autobiografia fittizia” di Adolf Wölfli, in cui l’autore aggiunge ai suoi parenti reali uno stuolo di persone
appartenenti a una famiglia inventata.
Cfr. Walter Morgenthaler, Adolf Wölfli, in L’Art Brut 2, Compagnie de l’Art Brut, Parigi, 1964.
20.  Cfr. l’articolo di Teresa Maranzano in Neopsichiatria no 2/95, cit., pp. 35-40.
21.  Cfr. Lise Maurer Le «Remémoirer» de Jeanne Tripier, Éditions érès, Ramonville Saint-Agne, 1999.
22.  Alcuni anni dopo, all’inizio degli anni Sessanta, Nannetti s’impone di scrivere delle cartoline (che non saranno mai spedite
e andranno perdute). Ne stila parecchie centinaia rispettando le convenzioni della scrittura (sintassi, grammatica e ortografia) e le regole epistolari; così facendo prova che è in grado di padroneggiare gli usi codificati e che le sue elucubrazioni murali sono frutto di una scelta volontaria. Benché Nannetti persegua anche nelle cartoline la sua azione di dissenso, gli interventi sulle facciate del “Ferri” rimangono la sua opera maggiore.
23.  Filippo Tommaso Marinetti, Supplemento al manifesto tecnico della letteratura futurista [1912], in Giovanni Lista, Futurisme,
L’Age d’Homme, Losanna, 1973, p. 140. Nannetti ha confidato a Trafeli di aver collaborato con Gino Severini (artista futurista vicino a Marinetti) al Palazzo dei Congressi dell’EUR di Roma, per l’installazione dell’impianto elettrico. Non è escluso che in quest’occasione Nannetti abbia avuto modo di avvicinarsi alla poesia futurista e che forse, una volta assimilata, se ne sia servito nelle sue creazioni.
24.  Nel 1956, quando viene arrestato per oltraggio a pubblico ufficiale, Nannetti ha ventinove anni, abita in un quartiere popolare
e operaio nella periferia di Roma, vive solo in un’unica stanza, senza contatti e ignorato dai vicini che lo descrivono come una persona strana e bizzarra.