MAPPE | QDAT 64 | 2016
di Lucienne Peiry
“Come / una / Farfalla / Libera
/ son / Io / Tutto / il / Mondo
/ è mio e / Tutti / fo / Sognare”
*
Nell’Ospedale psichiatrico e giudiziario di
Volterra, in Toscana, il cortile è l’unico spazio
in cui i pazienti-reclusi sono a contatto col cielo e l’aria
aperta durante l’ora della passeggiata. Un centinaio di
uomini si raduna in questo cortile di duecento metri quadrati. Alcuni
giocano a bocce o a carte, dormono o chiacchierano, altri fumano
mozziconi di sigarette raccattati o sottratti di nascosto, altri ancora
litigano e si azzuffano. Tra tutti, un giovane di trentadue anni si
tiene sempre in disparte e non rivolge la parola a nessuno: Fernando
Oreste Nannetti scrive ogni giorno sulle facciate
dell’edificio servendosi della punta metallica
(l’ardiglione) della fibbia del suo gilet. Nel corso di nove
anni (dal 1959 al 1961 e dal 1968 al 1973) incide un libro di pietra a
cielo aperto, un’opera scritturale colossale che si sviluppa
su un muro lungo settanta metri.
Il
“Ferri” è uno dei padiglioni che formano
il grande complesso ospedaliero psichiatrico della città
toscana1. Costruito in cima a una collina – segno di
isolamento totale – l’edificio è
circondato da un muro di cinta sormontato da inferriate e filo spinato,
e sorvegliato da guardiani, come in un carcere di massima sicurezza in
cui i reclusi sono esiliati, messi al bando dalla
collettività. Dopo aver provato la morte sociale e
familiare, sono sottoposti a condizioni di vita da campo di
concentramento.
Al primo piano dell’ospedale i
pazienti-reclusi sono distribuiti in dormitori di una trentina di
posti. Durante il giorno, dopo i pasti, sono ammassati mattina e
pomeriggio al piano terra, in uno stanzone in cui lo spazio medio per
ogni individuo si riduce a un metro quadrato2. Lì, sono
costretti a camminare in cerchio attorno a un tavolo, senza mai
fermarsi – come una massa umana nelle sabbie mobili
– per limitare il rischio di dispute e risse.
L’esistenza si riduce a questo caos spaventoso, a questo
clima opprimente di liti, frastuono, deliri e grida, tranne che durante
l’ora di uscita in cortile,
“all’aria3”. In questo tumulto che
abbrutisce per lo squallore, la miseria, la promiscuità
permanente, che si beffa dell’intimità, Nannetti
sceglie l’introspezione e il monologo interiore, il
ripiegamento e il silenzio. Il soliloquio lapidario.
Il
giovane dà corpo a un’opera immaginaria servendosi
dei poveri mezzi di cui dispone: la facciata dell’ospedale
come supporto espressivo e la punta metallica della fibbia del gilet
come strumento di lavoro. Mezzi che grazie a un’ingegnosa
metamorfosi assumono un significato simbolico. Il muro
dell’asilo-prigione, eretto in origine per separare ed
escludere, diventa lo schermo sensibile dei deliri poetici
dell’autore; l’ardiglione, elemento della divisa
regolamentare, obbligatoria, uguale per tutti, che annulla
identità e personalità, si trasforma in uno
strumento di libertà, il grimaldello per la sua fuga4.
L’opera scritturale di Nannetti non è retta da intenzioni artistiche o culturali, e non ha destinatari. Con ardore, egli tenta di sublimare la disperazione e di trovare nella scrittura poetica l’unico senso possibile alla sua vita; così facendo, ricostruisce l’identità che gli è stata saccheggiata. Il suo comportamento è quindi costruttivo e pacificatore, ma anche contestatario5.
Gesto sfrontato fin dall’Antichità6,
scrivere su un muro è considerato ancora oggi un segno
d’inciviltà, d’illegalità,
prossimo al vandalismo. I graffiti costituiscono per definizione una
pratica irriverente e provocatoria. Incidendo i suoi testi sulle
facciate stesse dell’ospedale, Nannetti attacca
l’istituzione psichiatrica e giudiziaria, e metaforicamente
prende di mira l’autorità che rappresenta.
È vero che, non disponendo di altri supporti, egli deve fare
di necessità virtù. Ma il carattere ribelle del
gesto non impedisce all’autore di voler mantenere segreta una
parte del suo diario7. Benché si dedichi alle sue iscrizioni
tra l’indifferenza generale, con la sola eccezione
dell’infermiere Aldo Trafeli, il diarista è
costretto a scrivere “in pubblico”, sotto gli occhi
della comunità, davanti a tutti8. Per salvaguardare la sua
sfera privata, e soprattutto per conferire una qualche
clandestinità alla sua produzione, Nannetti elabora una
strategia; ma prima di attuarla, l’incisore deve risolvere
dei problemi concreti e superare difficoltà di carattere
tecnico.
I materiali di cui sono costituite le facciate,
intonaco e cemento, sono resistenti e si prestano con
difficoltà all’intervento. Generalmente, Nannetti
rinuncia alla scrittura corsiva, per evitare le curve, e preferisce le
lettere maiuscole, spigolose e quindi più facili da
incidere. Sulle parti di muro ricoperte di cemento è
costretto spesso a ripassare quattro volte sull’intaglio per
far apparire con nitidezza le parole e ottenere il rilievo voluto.
L’attrezzo di cui si serve è mediocre: la punta
metallica è corta e difficile da tenere tra le dita, e
oltretutto si smussa rapidamente sulla superficie abrasiva.
L’incisore è costretto continuamente a procurarsi
– scovare, sottrarre – un nuovo ardiglione.
Tuttavia
le scelte di Nannetti non sono fortuite, e la grafia angolosa
è effettivamente dettata da motivi di
praticità. Come nel caso di Jeannot, altro autore di Art
Brut che incide il suo testo-pamphlet a caratteri maiuscoli ortogonali
sul pavimento di quercia di camera sua servendosi di un coltello e di
una sgorbia9. Ma al contrario della scrittura di
Jeannot, quella di Nannetti è molto difficile da decifrare.
Le lettere sembrano spuntare in modo quasi aleatorio e, di primo
acchito, appaiono come un miscuglio ermetico di segni che è
possibile decriptare solo gradualmente e dopo un lungo e attento esame.
Evidentemente, Nannetti vuole rendere oscuro il senso delle sue parole.
Molti
dei procedimenti cui ricorre rendono difficile la
leggibilità e rallentano considerevolmente la comprensione
degli scritti: gli angoli delle lettere, principalmente acuti (e non
retti come nella scrittura lapidaria dell’epoca romana) e la
giustapposizione delle parole senza punteggiatura, formano una scriptio
continua, un flusso ininterrotto di parole10. A complicare
ulteriormente la comprensione del testo contribuisce l’uso
della scrittura bustrofedica, che consiste nel cambiare direzione a
ogni riga, invertendo anche il senso delle singole lettere.
Peraltro, fin dal primo sguardo, queste specificità scritturali rendono i testi di Nannetti singolarmente affini agli scritti etruschi. Nato a Roma, dove ha trascorso infanzia e giovinezza, dal 1927 fino all’arresto nel 1956, egli ha forse avuto modo di vedere questo tipo di iscrizioni nella capitale o in località vicine. È probabile che la forma delle lettere etrusche si sia impressa nella mente del giovane che se ne è appropriato e le ha incluse nella sua strategia di distanziamento per restituirle in una calligrafia personale e misteriosa11.
Questa
“clandestinizzazione” del testo è comune
a molti scritti brut. La poetessa Constance Schwartzlin-Berberat, per
esempio, ha inventato una calligrafia le cui lettere si sono allungate
sempre più fino a diventare filiformi e a rendere difficile
la lettura del suo diario12. Come lei, Nannetti opera una sorta di
codificazione, il cui fine è dissuadere o almeno differire
l’accesso a queste pagine intime, in altre parole confondere
le tracce.
Altri aspetti grafici contribuiscono a rendere
oscuri gli scritti. La successione delle parole sulle facciate
dell’ospedale non procede in modo rettilineo, ma ondeggia
seguendo a volte il riquadro o le modanature delle finestre
dell’edificio, come i personaggi dei timpani medievali che
piegano il corpo adattandosi all’architettura. Da notare che
Nannetti abbandona la linearità della scrittura in modo
ancora più spettacolare quando segue con precisione il
contorno delle teste dei pazienti in stato catatonico, seduti immobili
sulle panchine del cortile. Questa pratica la dice lunga sulle
condizioni in cui l’incisore crea e sul suo bisogno
irreprimibile di dare forma a un’opera poetica, nella fretta
e nell’urgenza, durante l’unica ora di
libertà quotidiana che gli è concessa.
Questi
stratagemmi, che servono a dissimulare gli scritti e mantenerli
segreti, rientrano al tempo stesso nelle scelte estetiche
dell’incisore.
Nannetti orchestra il suo muro di
pietra, se ne appropria, deve fare letteralmente corpo unico con esso,
tanto più che le condizioni tecniche di lavoro sono
difficili e richiedono all’autore uno sforzo fisico e una
destrezza costanti. Tenendosi rasente alla facciata, deve sentirne
intensamente la presenza e il supporto deve sembrargli immenso dato che
l’edificio misura circa quattro metri di altezza; da qui la
necessità di circoscrivere lo spazio di iscrizione.
L’incisore comincia invariabilmente con
l’«impaginare» la superficie tracciando
dei rettangoli – le pagine – trasformando il muro
in un libro di pietra13. Dopo aver dato all’opera una struttura
ortogonale – una cornice, in senso proprio e figurato
– Nannetti si sente libero di riempirla con le sue invenzioni
linguistiche. Invenzioni che si sviluppano sull’intera
superficie destinata all’espressione, senza vuoti,
limitazioni o ripensamenti, in un amor impleti14
gioioso che illustra in modo eloquente il suo irresistibile bisogno di
creare.
Le lettere, legate tra loro secondo una logica voluta, si
susseguono in un movimento talvolta danzante che anima le pagine.
Nannetti si diletta a utilizzare certe tecniche scritturali riprodotte
o inventate. La scrittura bustrofedica, per esempio, pur rispondendo a
delle esigenze pratiche, lo affascina. Lo divertono gli effetti
speculari, scrivere le lettere nei due sensi, tracciarle a diritto e a
rovescio, farle andare e venire, e giocare con la scrittura come se
suonasse una fisarmonica diatonica, aprendo e chiudendo il mantice
dello strumento senza mai fermarsi. Le lettere spigolose e appuntite,
dall’aspetto etrusco, infondono al muro una vibrazione che lo
assimila a un spazio stellare – cui del resto egli allude
spesso nei suoi scritti. Nannetti inventa una costellazione alfabetica,
restituisce valore grafico e virtù estetiche alle lettere e
alle parole, arricchisce le sue pagine con disegni schematici e
sintetici: una caravella, un’aquila, un elicottero, una
chiesa in un paesaggio di montagna15. Disegni e lettere appaiono sulla
stessa superficie incrociandosi di frequente. L’incisore
manda in frantumi la dicotomia occidentale che abitualmente separa la
scrittura dalla forma, celebrando nella sua opera la sintesi di parola
e immagine.
Quest’avventura poetica
finirà per liberare Nannetti dal linguaggio verbale. Durante
i primi mesi di internamento nell’ospedale psichiatrico di
Roma, il giovane è “loquace”,
“chiassoso” e “parla sempre ad alta
voce”, anche di notte. Nelle sue
“logorree”, per riprendere il termine usato nella
sua cartella clinica, crea dei neologismi. Fino ad allora la parola
è sonora, intonativa. Ma a partire dalla reclusione a
Volterra, lontano dalla città natale, la
loquacità scompare lasciando il posto al mutismo16. Nannetti
cambia registro, passa a un altro modo espressivo: non parla
più, scrive; non canta più le parole, le
“monumenta”. La parola non è
più aerea, volatile, effimera; è iscritta,
fissata nella pietra, incarnata.
Questo singolare
“mutismo creativo” è un fenomeno
ricorrente nella vita di parecchi autori di Art Brut, come Anghus
McPhee, Constance Schwatzlin-Berberat o Sylvain Fusco, per i quali
“entrare nel silenzio” coincide con
l’irrompere di pulsioni creatrici che generano
un’espressione artistica inedita. Come se il silenzio fosse
indispensabile per la concezione e la produzione di lavori di tale
ricchezza. Non solo, ma la rinuncia volontaria alla parola intesa come
mezzo sociale di scambio, sembra aver liberato in ciascuno di loro
capacità inventive straordinarie che si sono intensificate
nel corso degli anni. Nannetti, come McPhee, Schwartzlin-Berberat o
Fusco, traspone forza e potenza immaginative in un unico registro,
quello della creazione simbolica.
“Corazzi / Nannetti = Fernando / nato / a / Roma il / 3 / 10 / 1927 / moro / spinaceo / castagno / alto / 1,60 / secco / bocca / stretta / naso / Y”.
Questa dichiarazione d’identità, presentata come l’estratto di una scheda segnaletica, compare fin dalle prime righe del libro lapidario di Nannetti. L’autore fa un ritratto puramente descrittivo della sua persona, composto di dati obiettivi, senza alcuna benevolenza, invenzione o forzatura, mettendo l’accento sui dati anagrafici e le caratteristiche fisiche, ben lontano da qualsiasi forma di narcisismo. Una presentazione che richiama singolarmente quella di un altro autore di Art Brut, Emile Josome Hodinos:
“Emile Hodinos Josome. È di altezza media. La dimensione della sua testa è pari alla distanza compresa sotto il mento e la parte superiore dei Pettorali, dai Pettorali all’ombelico, dall’ombelico alla linea del ventre, le spalle misurano due teste […]. I capelli, la barba, i baffi, il naso aquilino, la bocca media […]17”.
I due uomini declinano la loro identità –
la cui integrità è stata sconvolta
dall’internamento psichiatrico e dall’esclusione
– proprio per ridarle forza e consistenza. Ma contrariamente
a Hodinos, Nannetti reitera quest’esperienza iscrivendo le
sue note autobiografiche come un leitmotiv che, con qualche variazione,
impregna l’insieme del viaggio introspettivo condotto
dall’autore, pagina dopo pagina. Ogni volta, il ritmo
scandito della frase, prodotto dalla giustapposizione dei termini e dal
gioco delle sonorità, rende le parole simili a una formula
magica e incantatrice. Formula che sembra propiziare
l’accesso a spazi mentali vertiginosi, fino ad allora
inesplorati, e porta l’autore a formulare una declamazione
identitaria singolare, una sorta di stravagante autoritratto:
“sono Materialista e / Spiritualista / amo / il / mio essere
materiale / come stesso / perche / sono / alto / ed / amabbile / del /
mio / Spirito18”.
L’avventura di
Fernando Nannetti non si limita a una ricerca individuale. Il giovane
le attribuisce anche una dimensione genealogica, convocando nei suoi
scritti una numerosa e nutrita schiera di parenti, alcuni dei quali
sono reali, mentre altri sembrano del tutto immaginari19. Come a conferma
di un legame genetico, molti di loro hanno tratti somatici identici a
quelli di Fernando – moro spinaceo Bocca stretta Naso Y.
L’albero genealogico comprende la madre e il padre, fratelli,
sorelle, fratellastri, cugini e zii – Leo, Roberta, Giuseppe,
Rita, Vittoria – o antenati (dei quali specifica date di
nascita e morte), e tutta un’ascendenza che non esita a far
risalire a papi o a re. L’immaginazione e i fantasmi hanno un
ruolo essenziale in questa storia familiare ricostituita e
ricostitutiva. “I Fantasmi sono Fulmidabbili”,
ossia i Fantasmi sono Formidabili – con un gioco di parole
che associa fulmine a formidabile.
Nannetti
è in contatto con il soprannaturale. Come molti creatori
spiritisti costantemente in relazione con l’aldilà
e i morti – Augustin Lesage o Magde Gill – egli
afferma “sono in Collegamento20” e dice di essere al
centro di un “Sistema Telepatico”; riceve
informazioni, così come Jeanne Tripier riceveva
“messaggi planetari21”. Evoca spesso
l’universo siderale, e in particolare gli astri (il Sole,
Venere, Mercurio, Saturno, Marte), alcuni stati
(l’Inghilterra, la Francia, l’Albania, il Messico),
ma anche il mondo sotterraneo di cui cita numerosi minerali (il rame,
l’acciaio, l’ottone, l’argento). In
questo stato di esaltazione, Nannetti entra in contatto sia con lo
spazio interstellare che con le viscere della terra. Le sue relazioni
pluripotenti gli conferiscono una sorta di presenza cosmica
ubiquitaria; egli proclama di esercitare un potere assoluto –
“Tutto / il / Mondo / è mio” –
e di regnare come un demiurgo: “Nannettolicus Meccanicus /
santo con / cellula / Fotoelettrica”.
In quest’universo irreale, erompe in assoluta
libertà una miscela ibrida di conoscenze, reminiscenze e
invenzioni linguistiche, come un festoso fuoco d’artificio. I
temi si associano alle idee; l’opera (La Traviata,
Rigoletto), la Bibbia (i Dieci comandamenti, la
preghiera del Padre nostro) e la tecnologia si
coniugano con sperimentazioni linguistiche e sonore producendo
neologismi (“Astronnanavale”), allitterazioni
(“Geri = Goete Gopta Giorgia Gasparri”) o
distorsioni (“Steoposcopio”). Gli scritti di
Nannetti non comportano una trama narrativa o
un’organizzazione discorsiva nel senso comune dei termini, ma
devono piuttosto essere considerati come un’esperienza
poetica e ludica in cui la scrittura diventa avventurosa e si lascia
trasportare dal movimento di incessanti fluttuazioni.
L’autore stesso è affascinato dalle proprie
invenzioni. Scompone e scardina il linguaggio, lo riordina giocando
sulla musicalità e i ritmi, e con l’aspetto visivo
e iconografico delle lettere. Significante e significato
interferiscono, si scambiano, si sollecitano ininterrottamente22.
Nello
stile di Nannetti riecheggia la poesia dei Futuristi italiani, il cui
capofila Marinetti, circa cinquant’anni prima, scriveva:
“Tintinnio zaini fucili cannoni ferraglia atmosfera = piombo
+ lava + 300 fetori + 50 profumi selciato – materasso detriti
sterco di cavallo carogne flic-flac […]23”.
Qui, come in Nannetti, le parole si susseguono e si
associano in modo discontinuo, in virtù del loro valore
semantico, sonoro e sensoriale, senza punteggiatura, aggettivi o
avverbi, come prescrive il manifesto futurista di cui Marinetti
è l’autore.
Sul suo muro Nannetti evoca
anche avvenimenti clamorosi, movimentati, spesso violenti:
“fusioni”, lanci di missili o lo scatenamento di
onde magnetiche e le “scariche / cosmiche / Elettriche /
intercontinentali astrali”. Naturalmente, si possono
interpretare queste evocazioni come altrettante allusioni agli
elettroshock che il paziente ha probabilmente dovuto subire in quel
periodo. D’altra parte, le conoscenze del giovane in materia
di elettricità hanno senza dubbio favorito questo tipo di
invenzione. Ma è certo che il contesto politico ed economico
nel quale è cresciuto Nannetti ha provocato in lui gravi
traumi che riaffiorano sotto forma di estrapolazioni. “Il /
passo / chiodato / avanzanza : su / tutta / Europa”.
Nannetti
ha trascorso l’infanzia in un paese in preda a una grave
crisi economica, quella degli anni Trenta che ha preceduto il conflitto
mondiale e ha scosso profondamente l’Italia. Ha sedici anni
appena quando Roma subisce il violento bombardamento del 1943.
Dall’immediato dopoguerra e per oltre un decennio,
vivrà la sua giovinezza in una penisola attanagliata dalle
difficoltà economiche, segnata dalla disoccupazione,
soprattutto nelle regioni meridionali, e immersa nella miseria.
Le
esperienze violente della guerra e dell’indigenza hanno di
certo scatenato nel giovane delle turbe psichiche, probabilmente
aggravate da una fragilità dovuta all’abbandono
del padre al momento della nascita. Un dolore riacceso dalla rottura
con la madre, a soli sette anni, dal collocamento in un istituto
caritativo e dal trasferimento in un ospedale in cui sarà
ricoverato due anni per una grave malattia alla colonna vertebrale.
Fernando Nannetti non è mai riuscito a riprendersi
né a ritrovare un equilibrio nel suo corpo gracile,
nell’identità violentata,
nell’isolamento profondo, nella sua disperazione24.
La
sorte si accanisce contro di lui quando viene esiliato dalla
città natale, cui è molto legato, e recluso
nell’Ospedale psichiatrico e giudiziario di Volterra. Figlio
illegittimo, denigrato, incarcerato, Nannetti stringe un patto con
l’immaginario, ricorrendo alla via simbolica come ultima
risorsa. Crea un’opera della sopravvivenza. A cielo aperto,
si consacra a un’intima meditazione rituale riuscendo a
riattivare le energie creatrici primitive celate in lui. Fernando
Oreste Nannetti sublima la sua tragedia per inebriarsi ogni giorno di
deliranti effusioni lapidarie.
“I Soli / le / Lune le / Stelle si Alzano e discendono / e / possono / prendere /”.
note