LETTURE / SILICON VALLEY. I SIGNORI DEL SILICIO
di Evgeny Morozov / Codice Edizioni, Torino, 2016 / pp. 151, € 13,00
Una certa applicazione del futuro
di Roberto Paura
“Qui nella Silicon Valley le persone avvertono che
lo Stato è fuori dalla realtà”: sono le
parole con cui, un paio d’anni fa, il miliardario Tim Draper,
erede di una delle più importanti società di venture
capitalism della California, lanciò una bizzarra
raccolta firme per ottenere l’indipendenza della Silicon
Valley dagli Stati Uniti. Non se ne fece niente, perché le
800mila firme necessarie per indire il referendum non furono raccolte
(anche se comunque l’ultima parola sarebbe spettata al
Congresso), ma il progetto è sintomatico di una certa idea
del futuro che condividono i grandi ceo californiani, quelli di Google,
Facebook, Apple, SpaceX e molti, molti altri. I numeri, del resto, sono
tutti dalla loro parte. Al culmine della crisi del debito greco, nella
calda estate 2015, un editorialista di Bloomberg View
fece due calcoli: considerando che le cinque corporation americane
più ricche e potenti del mondo, ossia Apple, Microsoft,
Cisco, Pfizer e Google (solo la quarta non attiva nel mercato del
digitale), possiedono complessivamente oltre 400 miliardi di dollari di
utili non spesi per evitare la tassazione Usa, sarebbe bastata la
metà di quel denaro per “acquistare” la
Grecia, o meglio – più tecnicamente –
ridurre il debito del paese dal 175% del PIL a un gestibilissimo 70%,
evitando così le misure di austerity, in cambio di un regime
fiscale ultra-agevolato per delocalizzare lì i loro quartier
generali. Alla Apple comunque risposero di non essere interessati.
Ce ne sarebbe da raccontare, andando a scavare nei sogni più
folli dei “signori del silicio”, per usare il
titolo di quest’ultimo libro di Evgeny Morozov, enfant
terrible degli utopisti digitali per le sue posizioni
estremamente critiche esposte nei precedenti volumi L’ingenuità
della rete (2011), Contro Steve Jobs (2013)
e Internet non salverà il mondo (2014).
In quest’ultimo saggio, che per dimensioni e toni riprende
più l’impostazione da pamphlet
del testo dedicato a Jobs che ai due tomi più sistematici
relativi al lato oscuro di Internet, ritornano alcuni concetti centrali
nella critica di Morozov, letti però all’interno
di una cornice molto più ampia che di fatto propone una
totale decostruzione della vulgata della Silicon
Valley, mostrando il cuore di tenebra del futuro che i signori del
silicio stanno costruendo per noi. Morozov parte da una premessa: la
sua critica non ha nulla a che vedere con il luddismo,
“perché il vero nemico non è la
tecnologia, ma l’attuale regime politico ed economico
– una diabolica commistione tra il complesso
militare-industriale e la totale mancanza di controllo su annunci
pubblicitari e mondo bancario – che sfrutta le più
recenti tecnologie per raggiungere i suoi scopi malvagi (anche se
redditizi e talvolta piacevoli)”. Premessa importante per
capire che i suoi testi non hanno l’obiettivo di demonizzare
il digitale, la tecnologia o i modelli comportamentali che essi
producono. Un esempio di neo-luddismo in questo senso è
rappresentato dall’ultimo libro di Mario Tozzi Tecnobarocco
(2015), ma il modello socio-economico che tecnologia e digitale stanno
sviluppando: l’obiettivo è “affrontare
non solo l’economia politica della Silicon Valley, ma anche
il ruolo sempre più importante che i «signori del
silicio» rivestono nell’architettura fluida e
sempre cangiante del capitalismo globale
contemporaneo”.
Al netto della ripetizione di questioni già affrontate nei
suoi precedenti testi, qui Morozov compie un passo importante,
estendendo il suo concetto di “soluzionismo”
– ossia l’idea tipica della Silicon Valley che ogni
problema possa essere risolto con una app, o in generale attraverso
l’innovazione digitale, al campo politico. Quando Eric
Schmidt di Google promette che saranno le start-up a risolvere il
problema della disuguaglianza economica, vediamo il soluzionismo agire
non più solo sul microlivello (un’app
risolverà i miei problemi di linea, per esempio,
sollecitandomi a mangiare di meno o a fare più moto,
cfr.
"Quaderni d'Altri Tempi" n. 49),
ma a livello mondiale, risolvendo i grandi problemi del nostro tempo.
L’uscita dei paesi dell’Africa sub-sahariana dalla
loro condizione di “sottosviluppo” sarà
resa possibile, secondo i piani di Facebook, dalla diffusione endemica
e gratuita di Internet attraverso satelliti, palloni sonda e altre
soluzioni altamente tecnologiche che facciano a meno di cavi e fibre
ottiche. Il consorzio Internet.org, creato da Facebook insieme ai
principali colossi delle telecomunicazioni (Nokia, Ericsson, Samsung e
così via), è al lavoro su questo obiettivo da
circa tre anni, in competizione con un analogo progetto di Google.
Dietro tutto questo c’è naturalmente una
finalità molto meno filantropica, ossia allargare
significativamente il mercato degli utenti digitali. Facebook oggi
vanta più di un miliardo di utenti attivi; raddoppiare
questo numero connettendo i cittadini dei paesi in via di sviluppo
significa raddoppiare il proprio fatturato, che deriva dalla
pubblicità e dalla possibilità di vendere i dati
degli utenti agli inserzionisti.
Se la questione della compravendita dei dati personali è da
sempre al centro delle critiche di Morozov alla società
digitale, qui si aggiunge un altro elemento: consentendo ai giganti
della Silicon Valley di “risolvere” i problemi
mondiali a modo loro, gli Stati-nazione abdicano ancora una volta alle
loro funzioni. Morozov cita lo scrittore di fantascienza Stanislaw Lem
che, in tempi non sospetti, intuì il rischio della
cibernetica: “La società non può
rinunciare al peso di dover decidere del proprio destino sacrificando
questa libertà a beneficio del regolatore
cibernetico” (Lem, 2013). Ma d’altro canto non deve
stupire: la fantascienza convive con questi scenari da ben prima di
Morozov e degli altri critici del cyber-utopismo.
Basti pensare a grandi classici come Neuromante di
William Gibson (1984) e soprattutto Snow Crash di
Neal Stephenson (1992), ambientato in un’America dove lo
Stato ha “esternalizzato” buona parte delle sue
funzioni alle grandi corporation, per rendersi conto come, ancora una
volta, la fantascienza abbia saputo mettere in guardia dalle possibili
derive sociali dello sviluppo tecnologico. Non si tratta solo di
questo. Per Morozov il soluzionismo applicato alla politica comporta un
problema già evidenziato nei suoi precedenti testi
limitatamente alla sfera personale. Se uso un’app per essere
sollecitato a mantenermi in forma, una di quelle per esempio che
calcola quanti passi faccio al giorno e mi redarguisce severamente se
sono stato troppo pigro, fissando l’obiettivo del giorno
dopo, do per scontato di non possedere la forza di volontà
necessaria per raggiungere da solo quell’obiettivo: ho
bisogno di qualcuno (o meglio qualcosa) che mi solleciti. Se
l’unico modo per convincermi a differenziare le bottiglie di
vetro è un meccanismo che mi riconosce dei crediti per ogni
bottiglia che riciclo, il cittadino rinuncia al suo senso civico, alla
volontarietà che dovrebbe dirigere le sue azioni. Non si
ricicla più perché ce lo impone il nostro senso
civico, per avere una città più pulita e un
ambiente più sano; si ricicla perché in cambio si
ricevono crediti. “È così che la
nozione stessa di politica come impegno comune muta in uno spettacolo
individualista, consumista, in cui le soluzioni – si chiamano
app, di questi tempi – vengono cercate nel mercato piuttosto
che nella pubblica piazza”, scrive Morozov.
Già una persona insospettabile di luddismo come Peter Thiel,
co-fondatore di PayPal e probabilmente il più celebre dei venture
capitalist della Silicon Valley, ricordava nel suo libro Da
zero a uno (2015) come l’utopismo tecnologico di
molti dei giganti del digitale sia in realtà vuota retorica:
Google, per esempio, che a oggi è sicuramente la compagnia
più attiva nell’impresa di cambiare radicalmente
il mondo attraverso una serie di progetti su robotica, intelligenza
artificiale, estensione della speranza di vita, genetica, auto senza
conducente e molto, molto altro, in realtà deve il 95% dei
suoi guadagni alla pubblicità veicolata dal proprio motore
di ricerca. Eppure Larry Page di Google offre una visione ben diversa
degli obiettivi della sua azienda. Nel settembre 2008, intervenendo
alla cerimonia d’inaugurazione della Singularity University,
l’alma mater di tutti i tecno-utopisti,
che cerca di applicare la logica della Silicon Valley ai problemi
mondiali, Page dichiarò: “Io oggi uso un parametro
di valutazione molto semplice: stai lavorando a qualcosa che
può cambiare il mondo? Sì o no? Per il 99,99999
per cento delle persone la risposta è
«no». Credo occorra insegnare alle persone come
cambiare il mondo. Ovviamente, per fare ciò dobbiamo
servirci delle tecnologie. Ne abbiamo già avuto prova in
passato: sono le tecnologie a guidare ogni cambiamento” (cit.
in Diamandis e Kotler, 2014).
Il colosso di Mountain View è convinto di poter riuscire a
risolvere problemi come l’invecchiamento o il cancro
utilizzando metodi innovativi che passano attraverso
l’approccio tecnologico. Sono i cosiddetti
“moonshot”, letteralmente “lanci verso la
Luna”, su cui Google investe milioni di dollari correndo il
rischio di fare un buco nell’acqua, ma sapendo che se uno
solo di questi lanci avrà successo, riuscirà a
cambiare le regole del mercato. Se Google può permettersi di
spendere tutti questi soldi in imprese ad altissimo rischio
è perché di soldi ne ha in abbondanza; e li ha
perché vende i nostri dati – in particolare le
nostre ricerche online – agli inserzionisti. Quando, nel film
Ex Machina di Alex Garland (cfr.
"Quaderni d'Altri Tempi" n. 57),
il guru della compagnia digitale BlueBook rivela al suo dipendente di
averlo selezionato attraverso l’analisi delle sue ricerche
online, e in particolare delle sue preferenze di consumo di filmati
porno, non siamo affatto nel campo della fantascienza, ma della cruda
realtà. “Ecco il futuro che la Silicon Valley ha
previsto per noi: data una quantità sufficiente di sensori e
connessioni Internet, le nostre intere esistenze diventano giganteschi
bancomat”, profetizza Morozov.
Come mai accettiamo tutto questo senza farci troppi problemi?
È la domanda principale che si pone Morozov, e la risposta
(che si trova soprattutto nel suo precedente Contro Steve Jobs)
è nella capacità della Silicon Valley di saper
vendere il proprio modello di futuro nascondendone gli aspetti
problematici. Nessuno è fan di ExxonMobil o di Eni. Ma ci
sono fanboy di Apple, di Microsoft (anche se di
meno), di Google, di Facebook. Gli appassionati di auto possono
discutere se i modelli della Renault siano qualitativamente migliori di
quelli della Fiat (o, meglio, di Fca), ma ora sono arrivati i fanboy
di Tesla Motors, l’innovativa compagnia automobilistica di
Elon Musk che con le sue auto elettriche ad altissime prestazioni e dal
design ricercato ha applicato all’industria delle auto la
logica disruptive tipica della Silicon Valley.
Tutto sta nel saper vedere il proprio prodotto e inserirlo
all’interno di una visione orientata a “cambiare il
mondo”, poco importa che si stia parlando solo di un
sofisticato modello di cellulare.
Secondo Morozov, inoltre, la Silicon Valley si è
“appropriata della pre-esistente retorica dei beni comuni
orientata al dono”, tale per cui progetti come Uber o Airbnb
non sono percepiti solo come redditizi, ma dotati di un valore in
sé, perché generano economia attraverso il
concetto di condivisione. Questo “futuro utopico caro ad
anarchici e libertari” piace dunque anche a chi non
è appassionato del consumismo spinto che ha fatto la fortuna
di Apple, Samsung o Microsoft. Il braccio di ferro tra aziende della
sharing economy e i governi nazionali viene percepito dai
“libertari” come uno scontro tra Davide e Golia,
tra le piccole realtà innovative che vogliono scardinare la
logica novecentesca del capitalismo di stato con quella della
condivisione. L'obiezione secondo cui i governi cercherebbero, invece,
di tutelare categorie professionali che altrimenti la sharing economy
farebbe scomparire (dai tassisti agli albergatori), aumentando la
disoccupazione e quindi i costi del welfare, non viene accettata. Si
sostiene, anzi, che i posti di lavoro creati dall’economia
digitale supereranno quelli persi, nonostante tutte le statistiche
mostrino attualmente il contrario. Non solo: diciamoci la
verità, i tassisti e gli albergatori non piacciono a nessuno
e nessuno si dispiacerebbe di vederli in mezzo a una strada. Ma dei
costi sociali di tutto ciò non ci preoccupiamo. Per Morozov
il vero obiettivo della Silicon Valley è lo smantellamento
dello Stato sociale e “la sua sostituzione con alternative
più snelle, rapide e cibernetiche”.
Gioca a favore di quest’obiettivo anche il grande consenso
intorno alla logica DIY, acronimo di Do It Yourself:
i “makers”, che si divertono a costruire da
sé i prodotti di cui hanno bisogno grazie alla rivoluzione
della stampa digitale, non sono però l’evoluzione
degli “hackers”, come spesso si sente dire.
L’autoproduzione, diversamente da quanto credono i suoi
sostenitori, non avrà l’effetto di
“indebolire lo strapotere delle grosse
corporation”. Un segnale in questo senso, secondo Morozov,
è stata la scelta di MakerBot, una delle aziende pioniere
della stampa 3D “open”, cioè a codice
aperto, di passare a un modello chiuso. Poco dopo la società
veniva acquisita da Stratasys, colosso del settore, mostrando come la
logica di mercato può facilmente avere la meglio anche in
questo ambito. Un altro campanello di allarme è il fatto che
la Darpa, la potente agenzia federale della ricerca nel settore della
difesa, la punta di diamante del complesso militare-industriale
statunitense, ha deciso di investire diversi milioni di dollari per
promuovere il movimento dei makers. Una scelta seguita anche dal
governo cinese. Dove va a finire allora la retorica rivoluzionaria del
movimento? Morozov evidenzia inoltre lo stretto collegamento tra
sharing economy e giganti del digitale. Il lavoratore disoccupato dopo
essere stato licenziato che lancia un progetto innovativo su una
piattaforma di crowdfunding come Kickstarter per mettersi in proprio
con un’idea creativa avrà successo solo se
possiede molti amici su Facebook, molti follower su Twitter, o spende
parecchi soldi in pubblicità su Google. Non è
solo la sua idea a garantirgli il successo, ma il modo in cui utilizza
le grandi piattaforme dell’economia digitale: “La
buona notizia è che d’ora in poi non dovrete
più preoccuparvi di essere licenziati; la cattiva
è che dovrete preoccuparvi di non essere declassati da
Google”.
In un articolo molto pregnante dal titolo Il ritorno del
futuro pubblicato sulla rivista Prismo,
Valerio Mattioli distingue tra due visioni alternative del
futuro. La prima è un’utopia libertarian
promossa da quelli che l’autore chiama
“tech-titani”, ossia le grandi corporation
tecnologiche della Silicon Valley, il cui obiettivo è
instaurare “una specie di tecnocrazia
«illuminata», genericamente progressista ma
intrinsecamente tirannica, competitiva e orgogliosamente
individualista”; mentre la seconda è tratteggiata
da un’opera come Inventing the Future:
Postcapitalism and a World Without Work (2015) di Nick
Srnicek e Alex Williams, due autori dalle chiare idee di sinistra, che
invece propugna “la sempiterna aspirazione a un mondo
più equo, non-competitivo e, bè, giusto”.
È chiaro che il libro di Morozov propende per questo secondo
tipo di futuro, ma la forza delle sue argomentazioni deve vedersela con
l’ambigua utopia della Silicon Valley, che trae forza dalla
nostra quotidiana, ineluttabile e crescente dipendenza dai social
network, dai motori di ricerca, dagli smartphone e da Internet, da quel
mondo cioè che i “signori del silicio”
stanno preparando per noi.
LETTURE
— Peter H. Diamandis e Steven Kotler, Abbondanza. Il futuro è migliore di quanto pensiate, Codice, Torino, 2014.
— William Gibson, Neuromante, Mondadori, Milano, 2003.
— Stanislaw Lem, Summa technologiae, University of Minnesota Press, Minneapolis, Usa, 2013.
— Valerio Mattioli, Il ritorno del futuro, Prismo, 5 ottobre 2015.
— Evgeny Morozov, Internet non salverà il mondo, Mondadori, Milano, 2014.
— Evegeny Morozov, L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di Internet, Codice, Torino, 2011.
— Evgeny Morozov, Contro Steve Jobs. La filosofia dell’uomo di marketing più abile del XXI secolo, Codice, Torino, 2012.
— Nick Srnicek e Alex Williams, Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work, Verso, Londra, 2015.
— Neal Stephenson, Snow Crash, Rizzoli, Milano, 2007.
— Peter Thiel e Blake Masters, Da zero a uno. I segreti delle startup, ovvero come si costruisce il futuro, Rizzoli Etas, Milano, 2015.
— Mario Tozzi, Tecnobarocco. Tecnologie inutili e altri disastri, Einaudi, Torino, 2015.
VISIONI
— Alex Garland, Ex Machina, Universal Pictures, 2016.