ASCOLTI / BLACKSTAR


di David Bowie / Rca, 2016


 

L'eroe è sempre sul palcoscenico


di Francesco Zago

 

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Exit Bowie. Mentre The Next Day (2013) guardava al futuro (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 43), Blackstar sancisce la fine. David Bowie, caso unico nella storia del rock, ha letteralmente pianificato la propria uscita di scena. Perché di uscita di scena, e non di morte, si deve parlare. Se Bowie è l’eterna maschera di se stesso, anche la sua fine non può che seguire un copione preciso. La stella che non può fare a meno di esibirsi, ma solo celandosi e fuggendo da un personaggio all’altro: Bowie non è morto sul palcoscenico, come qualunque attore si augura di concludere la propria carriera. Se così fosse stato, la maschera sarebbe caduta, e l’illusione della sua immortalità sarebbe svanita. Bowie si sarebbe mostrato umano, fragile, vittima del destino – destino a cui Ziggy Stardust, il Duca Bianco e tutte le sue incarnazioni mai avrebbero potuto sottostare.

Lontano dalle scene da oltre dieci anni, Bowie ha scelto una vita artistica claustrale – celandosi persino nella malattia, convertendola nell’opera più potente, la sua rappresentazione. Blackstar è una consacrazione definitiva: la “stella nera” subisce un destino tragico e inesorabile, ma sublime. Scomparire senza morire, interpretare la propria uscita di scena, è il trionfo della decadenza: il divo si compiace persino della propria morte, ne sfrutta tutto il potenziale artistico e commerciale. Non solo “la vita è arte”, ma anche “la morte è arte” – per questo Bowie riesce a negarla. Neppure alla fine cede al fascino perverso del cracked actor, del fallimento, della sconfitta. Bowie non si è “consegnato alla storia”, perché questo avrebbe significato arrendersi. Bowie ha deciso di continuare a esistere – pubblicando in vita la prima opera postuma.

La copertina di The Next Day profanava simbolicamente il passato glorioso di Heroes (1977); ma quel volto e quel titolo oscurati restavano perfettamente riconoscibili. The Next Day negava una figura ingombrante, ma ne riconfermava la potenza oscura. Di nuovo, la stella non poteva morire, doveva solo trovare nuove maschere per celebrarsi. Col senno di poi, The Stars Are Out Tonight (https://www.youtube.com/watch?v=gH7dMBcg-gE), il singolo tratto da The Next Days, suona come una lugubre profezia, quando in realtà chiariva solo la natura delle stelle, feticci di cui noi, comuni mortali, non possiamo fare a meno: “Stars are never sleeping / Dead ones and the living […] They watch us from behind their shades […] We will never be rid of these stars / But I hope they live forever […] They are the stars, they’re dying for you / But I hope they live forever (“Le stelle non dormono mai / quelle vive e quelle morte […] ci spiano dietro le loro ombre […] Non ci sbarazzeremo mai delle stelle, ma spero che vivano per sempre […] loro sono le stelle / pronte a morire per te”). Il “sole nero” si presta all’estremo sacrificio creativo – esibirsi nella propria fine – ma questo richiede un vero e proprio culto, come quello a cui si assiste nel video di Blackstar (https://www.youtube.com/watch?v=kszLwBaC4Sw). La title track, primo singolo pubblicato a novembre 2015 insieme a un video denso di rimandi, è un lungo brano (oltre nove minuti) che definisce il clima rituale e ipnotico dell’intero album: “Something happened on the day he died / Spirit rose a metre and stepped aside / Somebody else took his place, and bravely cried / (I'm a backstair, I'm a backstair)" (“Accadde qualcosa nel giorno in cui morì / Lo spirito salì di un metro e si fece da parte / Qualcun altro prese il suo posto, e urlò senza paura / (Sono una stella nera, sono una stella nera)”). La morte della stella è tuttavia un’“esecuzione”, una sorte crudele e senza appello.

Mentre in Blackstar la morte è dipinta con i tratti del mistero e dell’esoterismo, Lazarus offre una visione tragicamente umana (https://www.youtube.com/watch?v=y-JqH1M4Ya8). L’artista si offre alla morte in tutta la sua vulnerabilità, ormai incapace di nascondersi: "Look up here, I'm in heaven / I've got scars that can't be seen / I've got drama, can't be stolen / Everybody knows me now" (“Guardate quassù, sono in paradiso / ho cicatrici che non potete vedere / La mia è una tragedia che nessuno può rubare / ormai tutti mi conoscono”). Per rappresentare la fine Bowie sceglie la figura di Lazzaro – un’immagine di sofferenza, ma anche di ritorno e resurrezione, che richiama il Cristo del Mantegna, di Lodger (1979) o la “pietà” della cover di Hours (1999). Ma nel video compare anche un Bowie che scrive freneticamente, forse nella consapevolezza che il tempo sta per scadere.

Forse non ha molto senso valutare Blackstar semplicemente come un album, peraltro ineccepibile. Nessun cedimento, nessuna ridondanza, musicisti eccellenti – i sette brani non sembrano affatto il triste “canto del cigno” di una carriera cinquantennale. Il problema è giudicare un’opera che è solo un aspetto fra tanti di questa uscita di scena, se non altro perché il senso che avevamo intravisto all’uscita del singolo e poi dell’intero album è stato ribaltato e pienamente illuminato dalla morte del suo autore. Nessuno immaginava che Bowie non stesse parlando della morte, come spesso aveva fatto nelle sue canzoni – ma della sua morte.

I miti dell’alieno, dell’ambiguo, del camaleonte, dell’uomo che cadde sulla Terra sono altrettanti modi per esorcizzare la fine, tramite il continuo cambiamento, l’annullamento della propria identità. Per questo il fascino di Bowie non sta tanto nei suoi travestimenti, ma in ciò che questi travestimenti nascondono, e che ormai non potremo più scoprire. L’intensa I Can’t Everything Away, che non a caso chiude Blackstar, conferma la natura profonda dell’“esibirsi”, persino nella morte, ossia “nascondere per svelarsi”: "Seein more and feeling less / Saying non but meaning yes / This is all I ever meant / That's the message that I sent / (I can't give everything / I can't give everything away)" (“Vedere di più e sentire di meno / dire di no volendo dire di sì / questo è quello che ho sempre inteso / il messaggio che ho sempre mandato / (non posso rivelare / non posso rivelare tutto)”).

Bowie ha sempre frequentato la morte (“la mia morte”) fin da quando, nei panni di Ziggy Stardust, cantava La mort di Jacques Brel: “My death waits / like a Bible truth / at the funeral of my youth […] But whatever lies behind the door / There is nothing much to do / Angel or devil, I don’t care / For in front of that door, there is you […] My death waits there among the flowers / Where the blackest shadow, / blackest shadow cowers” (“La mia morte aspetta / come una verità biblica / al funerale della mia giovinezza […] Ma qualunque cosa ci sia dietro la porta / non c’è molto da fare / angelo o diavolo, non m’importa / perché di fronte a quella porta ci sei tu […] La mia morte aspetta lì fra i fiori / dove l’ombra più nera, / l’ombra più nera si ritrae”). Per l’istrione è pur sempre meglio la morte del rimpianto, che invece segna altri episodi come le ballate pop di Hours o la nostalgica Where Are We Now, primo singolo di The Next Day, intrisa di spaesamento e disillusione, con l’ombra della fine sempre più minacciosa (“… just walking the dead…”). Questo Bowie non si concede neppure lo squallore e la commiserazione dell’attore fallito di Aladdin Sane (1973). Ma in tutti questi casi la resa è solo apparente, l’attore rifiuta l’idea stessa del declino. Non esiste un viale del tramonto, la morte diventa consacrazione attraverso il proprio trionfo.

Se Cracked Actor e Where Are We Know, con modalità opposte, segnano la fine delle maschere, Blackstar fa coincidere l’uscita di scena finale con la ricerca della maschera ultima. La morte artistica sconfigge la banalità della morte biografica. Il testamento di Bowie non è un semplice lascito – nessuno erediterà nulla. Celando la banalità della propria morte biografica dietro la spettacolarità della morte artistica, Bowie sapeva che finalmente sarebbe diventato una stella, una stella vera – proprio come quelle che percorrono l’intera grafica dell’album.

Difficilmente ricorderemo Bowie nel modo in cui ricordiamo la “fine prematura” di Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin – prendendocela col destino. Non lo rimpiangeremo per la fragilità tipica delle tante “vittime” del rock. Tantomeno arriveremo alla follia di credere che Bowie non sia morto e viva ancora da qualche parte, come Elvis. Il lutto per la morte di Bowie richiede un’elaborazione differente. David Jones ha combattuto la malattia, ma non certo per vincerla – la malattia non si può sconfiggere: “This way or no way / You know I’ll be free / Just like that bluebird / Now, ain't that just like me?” (“In un modo o nell’altro / sarò libero, lo sai / proprio come quella sialia / non è proprio come me?” Bowie ha scelto l’avversario che sapeva di poter battere. Ha raccolto la sfida. E ottenuto il successo più grande.

Exit Bowie. La scena è vuota, ma il sipario non si è ancora chiuso.