LETTURE / COME STAR WARS HA CONQUISTATO L’UNIVERSO
di Chris Taylor / Edizioni Multiplayer, Milano, 2015 / pp. 511, € 19,00
L'Impero Disney colpisce ancora
di Roberto Paura
Pare che una delle frasi che Bob Iger, il CEO della Disney, abbia ripetuto più spesso al regista J.J. Abrams nel corso della realizzazione di Star Wars Episodio VII: Il risveglio della Forza, sia stata: “Questo è un film da quattro miliardi di dollari”. Il budget del film, per la verità, pur altissimo, non ha superato i 200 milioni di dollari. Ma la cifra si riferisce al costo totale dell’operazione di acquisizione della Lucasfilm, la storica casa di produzione detentrice di tutti i diritti relativi a Star Wars, che la Disney ha portato a termine nel 2012. Per la precisione 4,05 miliardi, metà in azioni e metà in contanti (si fa per dire) a George Lucas, l’uomo con la camicia di flanella che all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso iniziò quasi per caso a buttare giù sul suo taccuino gli appunti di quello che sarebbe diventato il film di fantascienza – ma sulla categoria i fan e i critici si accapigliano da anni – più lucroso della storia del cinema, capace di generare, in trentacinque anni, circa trenta miliardi di dollari di entrate. È a queste cifre che bisogna guardare per accostarsi in prima battuta al fenomeno Star Wars, come fa giustamente osservare Chris Taylor nel suo Come Star Wars ha conquistato l’universo (traduzione di Elisabetta Colombo, Gian Paolo Gasperi), libro definitivo sulla nascita, il successo e l’evoluzione di un fenomeno di massa in grado di creare persino una religione (lo “Jedismo”, la seconda religione dichiarata in Nuova Zelanda, la quarta nel Regno Unito, stando ai risultati dei censimenti). Perché se è vero che non era per fare una montagna di soldi che George Lucas iniziò a scrivere il primo trattamento per il film che esordì nel 1977, il ritorno del franchise sul grande schermo nel 2015 è una delle più imponenti, e sicuramente riuscite, operazioni di marketing della storia. I film in sé sono infatti solo la punta dell’iceberg. Pur avendo incassato moltissimo – il primo Guerre stellari divenne nel 1977 il film con il maggior incasso nella storia del cinema, e l’Episodio I nel 1999 racimolò quasi un miliardo di dollari – i film fungono solo da apripista a tutta una serie di spin-off commerciali, dalle action figure ai fumetti, dai libri ai videogames. È questa straordinaria miniera d’oro che la Disney ha voluto fare propria, completando nel 2012 la terza grande acquisizione dopo quella della Pixar e della Marvel, con l’intenzione di estendere ulteriormente i confini del più grande impero dell’immaginario collettivo.
La storia raccontata da Taylor, giornalista di business, cultura e tecnologia, in Come Star Wars ha conquistato l’universo, spiega proprio questo: il modo in cui un film che Lucas chiamava familiarmente, nella metà degli anni Settanta, “la mia cosuccia spaziale”, si è trasformato in un fenomeno di culto e in una gigantesca industria dell’intrattenimento.
Che questo fosse fin dall’inizio il progetto di Lucas, Taylor lo esclude. Il vero vate del fenomeno Star Wars, l’uomo che credette in questa scommessa più dello stesso Lucas, fu piuttosto Charles Lippincott, l’advertising publicity supervisor (il direttore marketing) del film. “Ora si comporta come sapesse che sarebbe stato un grande successo”, dice a un certo punto Lippincott parlando con Taylor di Lucas. “Non lo sapeva. Stava solo cazzeggiando”. Lippincott invece non “cazzeggiava”. Ebbe un gran da fare, tra il 1975 e il ’77, a convincere il consiglio d’amministrazione della Fox delle potenzialità del film, e a far approvare non solo il primo budget, ma anche gli sforamenti successivi. Non si fermò un attimo nell’impegno di promozione del film oltre la mera esperienza cinematografica, perché aveva intuito per primo che, se anche lì, nelle sale, Star Wars fosse andato male, c’era pur sempre il modo di recuperare da altre parti. Fu Lippincott, come rivela Taylor, a stabilire che il film dovesse avere una sua novelization, affidando allo scrittore di fantascienza Alan Dean Foster il compito di scrivere il romanzo. Fu lui a capire che si poteva puntare sui fumetti. Quando andò alla Marvel per convincerne i dirigenti a far uscire cinque albi tratti dal film, accettando la clausola di non prendere un centesimo di royalty sotto le 100.000 copie vendute (quando all’epoca il prodotto di punta, Spider-Man, ne vendeva appena un po’ più del doppio), ammise: “Alla Fox pensavano che fossi il più grande idiota del mondo”. Ma Lippincott aveva una strategia. Appassionato di fantascienza, avido lettore di quegli stessi fumetti di Flash Gordon che avevano tanto ispirato Lucas, andò al Comic-Con di San Diego del 1976 e lì, per la prima volta nella storia della manifestazione, presentò la pellicola in uscita per l’anno successivo. Se quest’anno l’evento di presentazione dell’Episodio VII al Comic-Con è stato seguito da circa 6.500 persone, molte delle quali accampate già dalla notte prima davanti ai cancelli d’ingresso, nel 1976 le cose andarono molto diversamente: “Mostrò diapositive e parlò della storia e dei personaggi. Non esistevano clip promozionali o trailer. Gli attori non si fecero vedere. Il pubblico era composto da poche centinaia di persone. Vendette poster a 1,75 dollari l’uno, e non è che proprio si volatilizzassero dalla bancarella”. Non finì qui. Lippincott batté tutte le convention principali di fantascienza negli States, dialogò con il pubblico delle fanzine e riuscì a inserire la notizia del film nella fanzine più importante dedicata a Star Trek. Il suo obiettivo era chiaro: puntare sul pubblico degli appassionati e trasformare Star Wars in un fenomeno di culto tra i nerd, che potesse trainare non solo le vendite al botteghino, ma un intero universo espanso di prodotti correlati. Fu nella testa di Lippincott, ben prima di quella di Lucas, che nacque il concetto di expanded universe, che avrebbe fatto la fortuna del brand Star Wars.
La capitale di questo impero è stata per decenni lo Skywalker Ranch, la grande tenuta acquistata da George Lucas in California, nella Lucas Valley (nessun collegamento con il cognome del regista). Lì si trovava il quartier generale della Lucasfilm e delle molte società collegate, tra cui la Lucas Computer Division, ceduta nel 1986 a Steve Jobs e ribattezzata Pixar, colosso antagonista della Disney finché quest’ultima non l’ha acquistata nel 2006; lì nel 1994 il regista iniziò a scrivere i trattamenti della trilogia prequel, il cui primo capitolo, La minaccia fantasma, sbarcò sul grande schermo nel 1999; lì ancora Lucas ha supervisionato, negli anni successivi alla fine – temporanea – della saga, i progetti di spin-off: le serie animate The Clone Wars e Rebels e una serie di progetti, poi abbandonati, per una serie televisiva con attori in carne e ossa, nonché e un ambizioso videogame correlato. Oggi tutto è cambiato: il centro dell’impero è a San Francisco, nel nuovo Letterman Digital Arts Center, già sede dell’Industrial Light & Magic, la storica casa di produzione di effetti speciali fondata all’indomani del successo del primo film della saga. Ma le acquisizioni societarie, i cambi di vertice – dal 2012 Lucas ha ceduto il comando alla sua numero due, Kathleen Kennedy – e di nome non cambiano la sostanza del franchise. E se davvero esiste una capitale dell’impero Star Wars, allora secondo Chris Taylor non si deve guardare allo Skywalker Ranch, ma a una tenuta non molto lontana da lì, riconosciuta nel 2013 come sede della più grande collezione al mondo di oggettistica targata Star Wars. Si chiama Rancho Obi-Wan e il suo proprietario, Steve Sansweet, è stato per diversi anni responsabile delle relazioni con i fan della Lucasfilm. Una carica ottenuta per meriti sul campo: giornalista cinematografico per una testata di Los Angeles, era stato invitato alla prima per i media di Star Wars nel 1977 e da allora aveva iniziato a collezionare tutto il collezionabile legato al brand. La visita a questo incredibile museo a tema, aperto al pubblico per la prima volta nel 2012, è tra le pagine più interessanti del libro di Taylor. Il visitatore è accolto da una statua parlante di Obi-Wan Kenobi, nelle fattezze dell’attore Alec Guiness. Il tour prosegue con una visita alla biblioteca (“che contiene libri da trentasette Paesi in trentaquattro lingue”), alla sala dedicata ai poster e alle opere d’arte ispirate alla saga. Dopo un lungo corridoio zeppo di altri memorabilia, si supera una porta e, accolti dalla fanfara di John Williams che apre tutti i film della saga, si entra nel sancta sanctorum. Statue a grandezza naturale di Darth Vader o di Han Solo congelato nella carbonite sono solo la punta dell’iceberg: “Qualche secondo più tardi, quando gli occhi si adattano, ti accorgi delle file e file di roba. Gli oggetti sono ammassati sugli scaffali, come in un grande magazzino in cui lo spazio è merce rara, se non fosse che lo spazio sembra proseguire all’infinito, con almeno due file di scaffali su ogni muro, e spariscono in lontananza, dove si nota un Boba Fett della Lego a grandezza naturale e una pensilina del 1977 con l’insegna di Star Wars. Ci sono altre stanze oltre a quella, solo che non si vedono: un corridoio costruito per sembrare uno di quelli della Tantive IV porta al materiale illustrativo, ai videogiochi arcade e ai flipper”.
Così, nel tempo, è andato accumulandosi il vero tesoro del franchise Star Wars, nato ancor prima dell’uscita del primo film nelle sale, quando Lucas, racconta Taylor, pensava di far produrre delle tazze con l’effige di Chewbacca. La cosa è poi proseguita ben oltre le sue aspettative. Fu ancora Lippincott ad avere l’intuito di siglare un accordo con la Kenner per la produzione delle action figure dei personaggi del film. Fu la prima linea della Kenner nel formato tre pollici (sette centimetri), mentre fino ad allora le action figure erano grandi quanto bambolotti, con un’altezza minima di venti centimetri. La fretta di metterli in commercio li rendeva assai scadenti: Chewbacca aveva il pelo tutto attaccato al corpo, con la tracolla scolpita invece di essere rimovibile; la spada laser di Obi-Wan usciva dal braccio spingendo una brutta levetta; la tunica di Luke Skywalker finiva con una specie di gonnellino, a causa dello snodo delle gambe, e il personaggio portava un’inedita spada laser gialla; la pistola laser della principessa Leia era troppo grande per entrare nella mano del pupazzetto. Si salvavano solo i due droidi, riprodotti molto fedelmente. D’altro canto erano loro i beniamini degli spettatori più piccoli, e le loro action figure andarono a ruba. Ma il vero salto di qualità avvenne nel dicembre 1979, quando in tutti i negozi di giocattoli sbarcò finalmente “la punta di diamante per i regali di quell’anno” (Corbò e Aghemo, 1999), il Millennium Falcon della Kenner. I giocattoli legati all’universo di Star Wars vivono una vita propria rispetto alla stessa saga cinematografica, grazie al mercato del collezionismo, dove si possono spendere cifre folli per un pezzo raro (per esempio una bambola di porcellana con le fattezze della Regina Amidala, apparsa nell’Episodio I, prodotta in soli 200 esemplari). Una mostra organizzata a Treviso dal gennaio all’aprile 2016, intitolata “Guerre Stellari. Play!”, espone al pubblico per la prima volta ben 6000 prodotti giocabili targati Star Wars accumulati negli anni da un collezionista privato italiano.
Star Wars, essenzialmente, è questo: un gigantesco universo giocabile. La sua fortuna, il suo successo, sta nel fatto di offrire continuamente allo spettatore – all’utente – nuove situazioni e nuovi scenari per dare sfogo alla sua fantasia ludica. La nascita della Lucasfilm Games, che poi diventerà LucasArts, sviluppatrice di tutti i videogames targati Star Wars, si spiega con il bisogno di “rendere interattiva l’avventura del canalone della Morte Nera, per annullare la distanza tra spettatore e vicenda narrata” (Consoli, 1999). Cos’altro è, infatti, la sequenza più famosa del film, quella dell’attacco degli X-Wing alla stazione spaziale imperiale, se non il set di un arcade, che infatti sbarcherà da lì a poco nei bar e nelle ludoteche di tutto il mondo? L’accusa rivolta a George Lucas da parte dei fan, di aver introdotto ne Il ritorno dello Jedi i personaggi degli Ewoks – una specie di orsetti di peluche che chiunque vorrebbe coccolare – al solo scopo di guadagnare milioni vendendo i relativi pupazzi nei negozi, non è affatto campata per aria. Con l’evolversi della saga, l’aspetto ludico e commerciale entra prepotentemente all’interno delle sceneggiature, stravolgendole. I giganteschi AT-AT (i “quadropodi imperiali” nell’adattamento italiano) che fanno la loro comparsa ne L’Impero colpisce ancora sono, innanzitutto, futuri giocattoli che ogni ragazzino vorrà tenere nella sua stanza. E ogni pianeta in più introdotto nelle saga diventerà il set di battaglie vorticose combattute su ogni tipo di consolle: non a caso, in coincidenza con l’uscita de Il risveglio della Forza, Electronic Arts ha messo in vendita anche l’attesissimo Star Wars Battlefronts, ambizioso sparatutto ambientato nei mondi della saga, dal nevoso Hoth al boscoso Endor fino a Jakku, il nuovo pianeta introdotto nel settimo capitolo (in realtà una copia fotostatica di Tatooine, il desertico mondo d’origine degli Skywalker). La forza del videogioco sta soprattutto nell’esasperato realismo delle ambientazioni, nella capacità di offrire al giocatore un’immersione completa nell’universo di Star Wars.
Lo stesso fenomeno è responsabile della graduale trasformazione del concetto della Forza nel corso della saga. Il “campo di energia mistico” descritto da Obi-Wan Kenobi nel primo film, e le cui straordinarie potenzialità vengono mostrate dal maestro Yoda ne L’Impero colpisce ancora, si riduce gradualmente a una serie di tecniche per mettere in scena spettacolari duelli a colpi di spada laser, mentre l’aspetto mistico viene liquidato dallo stesso Lucas all’inizio della trilogia prequel, e spiegato piuttosto come il prodotto di una specie di mutazione genetica. Se si mette a confronto il lentissimo e ingessato duello tra Darth Vader e Obi-Wan Kenobi del 1977 con quello che i due personaggi replicheranno ne La vendetta del Sith nel 2005, la distanza non potrebbe essere più abissale. Gli spettatori vogliono duelli spettacolari e, preferibilmente, spade laser originali, come quella a doppia lama di cui si serve Darth Maul ne La minaccia fantasma o quella con l’elsa fiammeggiante di Kylo Ren ne Il risveglio della Forza. Il perché è presto detto: c’è un enorme business legato alle spade laser, là fuori, che va alimentato. Nel suo libro, Taylor racconta dei corsi di spada laser diffusi in tutto il mondo e di come siano di moda. Quello diretto da Alain Bloch a San Francisco, che l’autore del libro ha frequentato per documentarsi sul fenomeno, vanta un migliaio di iscritti in appena un paio d’anni. Abbastanza da farne una professione, con il beneplacito della Lucasfilm (che impedisce il pagamento di quote d’iscrizione, ma permette le libere donazioni). Considerando che nel censimento 2001 nel Regno Unito ben 400.000 persone si sono dichiarate di “religione Jedi”, su sollecitazione di un tam-tam diffuso tra gli ambienti dei fan sul web, si può avere un’idea di quanto diffuso sia il fenomeno e, soprattutto, del bacino di acquirenti potenziali del gigantesco mercato delle spade laser. Si va da quelle da dieci dollari acquistabili da Toys “R” Us a quelle costosissime realizzate su commissione da gruppi sul web come il Saber Project, che usano LED fluorescenti, accelerometri e sensori d’impatto per imitare i rumori tipici delle spade laser dei film.
I vertici della Disney avevano ben chiaro tutto ciò quando si sono seduti a tavolino per progettare il ritorno in grande stile del franchise Star Wars dieci anni dopo l’uscita dell’ultimo film. Bisognava riportare il pubblico nelle sale, facendo dimenticare la trilogia prequel, che – pur convincente al botteghino – non aveva dato vita all’isteria collettiva della trilogia originaria. Ma bisognava anche introdurre elementi ludici e commerciabili, sufficienti a far rientrare quanto più rapidamente possibile l’investimento da quattro miliardi di dollari necessario per l’acquisto della Lucasfilm e del brand Star Wars. Il primo teaser trailer del film, proiettato nel novembre 2014, mostrava non a caso i due elementi su cui gli esperti di marketing della Disney avevano deciso di puntare: il nuovo droide BB-8, mix tra lo storico R2D2 della saga classica e un pallone da calcio; e la spada laser con l’elsa a croce. Il resto, gli appassionati lo avrebbero scoperto solo poco più di un anno dopo, guardando il film per intero al cinema. Ma, dal punto di vista del franchise, già quel trailer era un successo: fece schizzare alle stelle le aspettative degli appassionati e, soprattutto, li spinse a desiderare di avere una spada laser come quella di Ren e un droide come BB-8. Fin dal settembre 2015, con largo anticipo rispetto al solito, la Disney lanciò sul mercato i prodotti a tema legati al nuovo film, con un evento di risonanza mondiale chiamato “Force Friday”, inondando gli scaffali tre mesi prima dell’uscita del film al cinema, mettendo da subito in moto la macchina del franchise. Il droide BB-8, il prodotto di punta, vendette 22mila copie nelle prime dodici ore. Il movimento del robot è controllabile tramite un’apposita app scaricabile sul proprio smartphone e il tutto costa 170 euro. L’azienda che lo produce, la Sphero, fu invitata nel 2014 dalla Disney a partecipare a un acceleratore di start-up: Bob Iger, il CEO della Disney, sapeva che quelli della Sphero avevano messo in commercio una palla-robot controllabile tramite app, e aveva intuito che, affidando a loro la realizzazione dei giocattoli di BB-8, sarebbe uscito fuori un prodotto eccezionale. Fu lo stesso Iger a far vedere ai fondatori della Sphero le prime immagini di BB-8 dal set del film in Tunisia: “Vedete questo? Sarà il successore di R2-D2 e C-3PO”, gli disse facendo scorrerne le foto sul suo iPhone (Roberts, 2015). E poi c’è la spada laser di Kylo Ren, che riproduce, secondo il sito di Disney Store, “la caratteristica elsa a croce con lame luminose, luci, suoni del sensore di movimento, rumore delle spade che si scontrano ed effetti sonori del duello”. Il ritorno del Millennium Falcon, la mitica astronave di Han Solo, nel settimo film, si spiega anche con la possibilità di farla finalmente ritornare sugli scaffali in due versioni: quella che riproduce, in versione migliorata, il Millennium Falcon della Kenner del 1979, con l’aggiunta di tre nuove action figure basate sul nuovo film (tra cui l’imprescindibile BB-8); e la versione Lego, che segue la prima del 2000 e la seconda a tiratura limitata del 2007, con sei personaggi Lego tratti dal nuovo film.
Nel suo libro, Chris Taylor racconta che la prima proposta di Iger a Lucas per l’acquisto di Star Wars avvenne il 20 maggio 2011 in una location nient’affatto casuale: Disney World. Nel gigantesco parco tematico dell’Impero Disney, il CEO aveva fatto riservare un intero ristorante per pranzare da solo con Lucas e fargli la sua proposta. Entrambi, un’ora dopo, avrebbero inaugurato la nuova versione dello Star Tours, l’attrazione del parco legata all’universo di Star Wars, che avrebbe permesso ai visitatori un’immersione completa in undici luoghi tratti dai film, in grado di produrre, combinate tra loro, cinquantaquattro esperienze d’intrattenimento diverse. “Non sono ancora pronto, ma quando lo sarò mi piacerebbe parlarne”, pare abbia detto Lucas in quell’occasione. Dovette certamente aggiungere qualcosa di più promettente, visto che appena un anno e mezzo dopo sarebbe stato firmato il contratto di acquisizione. “Ma il seme era stato piantato”, assicura Taylor raccontando quella storica giornata. Iger reagì molto freddamente ai trattamenti proposti da Lucas per l’Episodio VII, e alla fine non se ne fece nulla. Al CEO della Disney non interessavano le storie che il vecchio regista aveva iniziato a tracciare sul suo taccuino tanto tempo fa, in un paese lontano lontano; gli interessava il brand, da rinnovare per offrirlo alle nuove generazioni, pronte a vivere nuove avventure in un’altra galassia. Per quella nuova generazione, Disney World non è abbastanza: ora avranno a disposizione un intero universo.
LETTURE
— Marco Consoli, Dal sogno di una galassia lontana alla premonizione di un futuro digitale. Star Wars e i videogames,
— in Massimo Benvegnù (a cura di), Guida completa a Star Wars, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 1999.
— Riccardo Corbò, Enrico Alghermo, Il merchandise di Star Wars, in Benvegnù, op. cit.
— Daniel Roberts, How Sphero brought a Star Wars droid from screen to toy, Fortune, 3 settembre 2015.