di Chiara Ribaldo
Se Dio non esiste, non troviamo davanti a noi dei valori o degli ordini in grado di legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo… delle giustificazioni o delle scuse. Siamo soli, senza scuse.
(Sartre,1990).
L’Umanismo Ateo di Jean Paul Sartre pone
l’uomo al centro dell’esistenza, nulla esiste fuori
di esso, nessun Dio, nessuna legge morale stabilita aprioristicamente,
nessun principio deterministico a giustificarne le azioni e i
comportamenti. Il destino dell’uomo è, infatti,
nell’uomo stesso. Soggetto e oggetto di una creazione
casuale, di un moto inspiegabile dell’universo,
un’esistenza come un’altra, priva di ragione.
L’uomo
che Sartre descrive nelle sue prime opere porta con sé il
fardello ineliminabile delle continue scelte poste lì a
tracciare un inconsistente futuro, il suo e quello di tutti gli altri
uomini, come lui, “gettati nel mondo”. La condanna
terribile, che cancella ogni possibilità di un radioso
avvenire, di un fine verso il quale lanciarsi con ottimismo, definisce
una nuova consapevolezza, una verità che solo i
“vigliacchi” e i “mascalzoni”
ignorano o nascondono: tutto è assurdo e gratuito, privo di
senso. La vita. La morte. Nessuno scopo le orienta, come tutte le altre
cose che esistono e basta.
Libertà e
disperazione. Volontà e incompiutezza. Aspirazione e
fallimento. Intorpidimento e nausea. Si può vivere mentendo
a se stessi, in “malafede”, appiccicando un senso,
naturalmente il più alto e nobile possibile, sul mappamondo
sgangherato nel quale siamo, oppure si può abbracciare
l’orrore, l’angoscia dell’insensatezza e
vomitare la propria solitudine, come Antoine Roquentin, lo storico
trentenne cui Sartre affida nel suo diario-romanzo, La Nausea,
il compito di pesare la verità, di riconoscere, a differenza
di tutti gli altri, l’esistenza per quello che è:
vana e contingente. La sua sinestesia lo fa collassare
d’improvviso, lo trascina in un pomeriggio e per sempre,
mentre il resto della città attorno a lui danza, si sposa,
figlia e si scambia grandi scappellate compiaciute. Gli altri non si
accorgono di nulla, neanche sanno di esistere.
“La gente là fuori … non sembra neanche sapere che il resto del mondo esiste. Potrebbero anche vivere sulla fottuta Luna” (True Detective, 1x1).
Il personaggio di Rust Cohle in True Detective
ha molto di Roquentin, così come molto di ciò che
la serie ontologica di Nic Pizzolatto racconta può essere
inquadrata all’interno di una visione esistenzialista e
tragica della vita. Non solo Sartre, ma anche Friedrich Nietzsche
sembra aggirarsi per Baton Rouge tra le paludi infestate di coccodrilli
e le chiese di campagna abbandonate a Satana.
Trascina se
stesso, Rust, cammina lento, in silenzio, gli occhi si soffermano su
tutto, dentro e fuori la superficie degli oggetti, dei corpi decomposti
e violati, del male stesso, così disperatamente umano, ed
è attraverso quello sguardo totale sul mondo, proprio come
Antoine, che pare sentire ogni cosa due volte. Un testimone di un
cerchio piatto, la vita, in cui passato, presente e futuro non esistono
se non come dimensioni sovrapposte che finiscono per intrappolarci
“… in un incubo nel quale continuiamo a
svegliarci” (True Detective, 1X5).
Questa
lucidità rende Rust un “eroe assurdo”
alla stregua di Sisifo condannato dagli dei a spingere un macigno fino
in cima a una montagna e a vederlo cadere giù, ancora e
ancora, in eterno. Sisifo sa che la sua impresa è destinata
a non compiersi mai, nonostante gli sforzi, ma a ripetersi nella sua
infecondità. Entrambi, attraverso l’applicazione
di una logica esasperata, giungono all’unica
verità possibile, seppure nel suo aspetto più
negativo e spaventoso. Sanno. Sopportano entrambi il peso del macigno
che rotola, la coscienza che si dischiude lacerando la carne, i sensi,
ecco la loro condanna a morte e, insieme, l’atto ultimo di
ribellione contro l’assurdità da cui essi stessi
emergono.
Lo squarcio tra un eroe assurdo come Rust e un uomo
come Marty Hart, il collega tutto casa – lavoro –
football domenicale – scappatelle extraconiugali, sta in quel
frammento di lucida attenzione, in quel cono di luce che divide chi
semplicemente vive da chi intensamente sa.
“Rust ha sempre saputo chi era, Marty no. Questo era il suo più grande problema” confessa impassibile l’ex moglie di Hart ai poliziotti che la interrogano sul passato dei due detective (True Detective, 1x6).
La tensione tra queste distinte dimensioni
dell’esistenza, messa in risalto da Pizzolatto fin dal primo
episodio della serie, si trasforma in una dilacerazione drammatica (che
diventa vero e proprio scontro fisico) nel sesto capitolo, Case
infestate, punto nodale dell’intera vicenda
narrativa – si ricongiungono, infatti, in un’unica
dimensione i tre periodi temporali del racconto – e, insieme,
sintesi brillante di quell’universo senza padrone o
guinzaglio, in cui la maggior parte degli uomini e delle donne si
muovono come fantasmi, larve dentro un bozzolo di quotidiana e
rassicurante noia, fino all’istante in cui sormonta la
nausea, d’improvviso e senza alcuna avvisaglia.
Così
Pizzolatto ci mostra lo sgretolamento dell’essere, che, come
intonaco ammuffito, cade a pezzi, dapprima piccoli e poi sempre
più grandi. La spavalderia di Marty sedotto ancora
dall’avventura di due gambe lunghissime, la fede del pastore
Theriot annegata in tazze stracolme di bourbon: “Per tutta la
vita ho cercato di avvicinarmi a Dio e l’unica cosa che ho
ottenuto è stato il silenzio”, il perdono di
Maggie, stritolato in un sms, finito in lavatrice insieme ai panni
sporchi di menzogne e di rossetto da discount e poi, tutto il bene,
tutto il male, ogni insensato aut aut etico si
svelano, e come è patetico il quadro che alla fine ci viene
mostrato.
Di questa messa in scena rivelata
l’autore coglie l’aspetto forse più
dolente, ovvero la necessità dell’uomo di
aggrapparsi ad un appiglio per giustificare le proprie azioni e, di
conseguenza, anche quelle altrui, il bisogno di catarsi per lavare il
peccato e addormentare il tormento. Sceglie così di renderci
testimoni di una confessione tra le più drammatiche da
proferire e da ascoltare, l’ammissione di una colpa odiosa
come l’infanticidio.
La Medea della
Louisiana si chiama Charmaine Boudreaux, sul viso i segni di una vita
randagia ad inseguire l’amore, forse il denaro o una flebile
promessa di felicità. Se ne sta ferma, intontita, mentre di
fronte a lei Rust attende la sua confessione. Agli occhi di Marty e
degli altri poliziotti al di là del vetro
dell’interrogatorio quella donna non è che un lusus
naturae, come avrebbe detto Lombroso, uno scherzo della
natura, un corpo estraneo al mondo degli uomini, il male alieno,
inumano. Ma non esiste altro male se non quello compiuto dagli uomini
su altri uomini, lo scriveva Sartre, è questo
l’elemento perturbante che non possiamo accettare, che sia in
noi e da noi generato.
“Un bambino è una cosa meravigliosa e poi
il controllo delle nascite è peccato”, risponde
Charmaine a Marty (“Hai mai sentito parlare di preservativi,
stronza?”, le aveva chiesto il detective). Il dovere morale e
religioso nascondono l’atrocità che, invece,
è così chiara nella mente di Rust, avulsa da ogni
tipo di convenzione sociale. Perché se i figli non fossero
una benedizione, ma una risposta al vuoto di una vita, alla sua rotta
sconsiderata e balorda, se fossero una scommessa che perdiamo, se
scoprissimo che la maternità non è un istinto
naturale, in che modo potremmo mai sopravvivere?
Quelle
morti bianche, “parole arcaiche come una
maledizione”, sembrano avvicinare Rust
all’infanticida, legati entrambi dalla perdita di un figlio,
“ne ho perso uno anche io e ho perso anche un
matrimonio”, si tengono per mano, sono vicini come un prete e
una pecorella smarrita, fino all’ammissione dei tre omicidi.
Scrive tutto, “Marshland Medea”, e firma quaranta
pagine traboccanti di follia, mentre noi e Marty stiamo a guardare
senza poter accedere a quel disvelamento.
Charmaine
aspetta il perdono, crede di meritare una scusa che ne giustifichi le
azioni orrende, una rassicurazione divina che la sollevi dal tartaro
nel quale è precipitata, quello che ottiene, tuttavia,
è la verità violenta, tremenda, ma, per Cohle, la
sola risposta possibile: “I giornali ci andranno
giù pesante con te e la prigione è molto, molto
dura con chi fa del male ai bambini … se ti capita
l’occasione dovresti suicidarti”.
Si
sarebbe suicidato anche lui, anni prima, schiacciato da una perdita
ingiusta e incomprensibile, se solo avesse avuto una tale
predisposizione. Invece, è rimasto a testimoniarne la
follia, impegnandosi con ogni fibra del suo essere a sconfiggere un
demone che sa non può morire.
Le sue
parole, scagliate come pietra contro un vetro scheggiato, palesano,
quindi, una compassione autentica, un’umanità
profonda, un’empatia acuta, sembra, infatti, dirle:
“Ora vedi anche tu il macigno che rotola, senti anche tu la
forza che ti schiaccia a terra, l’assenza di un Dio
consolatore, solo che tu non sei Sisifo, non sei un eroe assurdo, non
potresti tollerare tutta quell’intensità, per
questo dovresti ucciderti”.
Il
cortocircuito emozionale della scena ci lascia storditi, imbarazzati,
ci sono cose che non si dicono, non si pensano nemmeno, possiamo al
massimo scegliere tra la condanna e il perdono. Non contempliamo
nemmeno una terza via, l’accettazione, ad esempio, la presa
di coscienza di un fatto così come è. Ma
è evidente, noi non assomigliamo affatto a Rustin Cohle, noi
siamo Marty Hart. Come lui ci raccontiamo un sacco di storie su di noi,
su come dovremmo essere, su quello che avremmo potuto fare se solo
fossimo stati diversi, più fortunati, più
coraggiosi, più amati, abbiamo cassetti pieni di scuse per
ogni evento, disastro e giorno sul calendario, siamo gli esseri in
malafede, gli imbecilli avrebbe detto Roquentin, che non vedono oltre,
perché affannosamente intenti a costruire momenti perfetti,
a cercare di comporre un gigantesco puzzle con tessere microscopiche.
Siamo case infestate che nascondono indicibili
segreti dentro stanze tormentate da mostri terrificanti, con specchi a
riflettere l’abisso, per questo alcune porte sono ben chiuse
a chiave. Se mai le aprissimo, se mai decidessimo di galleggiare su
quell’abisso, dovremmo imparare a guardare la nostra
coscienza e a riconoscervi l’inferno. Dolenti, malinconici,
ma liberi, come Roquentin, come Sisifo, come Rust.
LETTURE
— Cesare Lombroso, Guglielmo Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Forgotten Books, Londra 2014 (e-book).
— Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 2001.
— Jean Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1990.
— Jean Paul Sartre, Le mosche. Porta chiusa, Bompiani, Milano, 1995.
— Jean Paul Sartre, La Nausea, Einaudi, Torino 1999.