di Antonio Iannotta
Albeggia, nella luce livida di un luogo sconosciuto sulla
carta geografica degli States. Siamo a Gaffney, in South Carolina. Una
moto della polizia accosta e lascia sfilare la scorta presidenziale. La
musica, potente, di Jeff Beal, sale, e a poco a poco satura l'ambiente.
Il protagonista, che scopriremo essere appunto il Presidente degli
Stati Uniti, viene inquadrato di spalle, sulla cima di una collina, in
un piccolo cimitero, con un mazzo di fiori di mano. La scena
è solenne, elegiaca. Frank Underwood si china sulla tomba
del padre, Calvin T. Underwood, (sembra) a rendergli omaggio. Niente di
più lontano dalla realtà. "Husband, Father,
Servant of God", recita la lapide. Matrimonio, Procreazione, Religione.
Questo il trittico necessario per accedere ai massimi vertici della
politica, non solo statunitense. Quanti presidenti o primi ministri di
spessore conoscete essere single, non genitori, gay o atei? Frank parla
con il padre morto per poi rivolgersi a noi. Una delle cifre
stilistiche di House of Cards è infatti
l'interpellazione. Il presidente Underwood ci dice che è
stato per così dire "costretto" a far visita al defunto
genitore perché questa è una di quelle cose che
lo renderebbe "più umano". "And you have to be a little
human when you are the President". Bontà sua. Ad animare
Underwood è invece il risentimento, in questa prima,
drammatica scena della terza stagione di House of Cards,
l’episodio Chapter 27. Il presidente
ricorda come al funerale del padre l'unico ad essere presente fosse
proprio lui, e che a differenza di quanto avvenuto per il
genitore, ci saranno folle ad onorare la dipartita, un giorno nel
futuro, del qui e ora uomo più potente dell'Occidente. E nel
dire queste parole, irrispettose se pur vere, Underwood compie un gesto
estremo di totale disdegno. Si slaccia i pantaloni e orina compiaciuto
sulla tomba del padre. Il tutto in tre minuti scarsi di narrazione. Mai
si era visto un tale disprezzo della funzione paterna. La scena si
conclude in maniera sarcastica con l'ufficio stampa che zittisce un
fotografo che vorrebbe immortalare il Presidente che si suppone stia
rendendo omaggio al genitore con queste parole: "He wants privacy. The
man is honoring his father, for God's sakes". Sì, certo,
come no.
House of Cards è un political
drama con protagonisti il premio oscar Kevin Spacey e Robin
Wright. La serie, giunta alla terza stagione, è sviluppata e
prodotta da Beau Willimon (noto per la co-sceneggiatura
dell'interessante Le idi di marzo, di George
Clooney, 2011), e da David Fincher (che non ha certo bisogno di
presentazioni) ed è sia un adattamento dell'omonima
mini-serie britannica del 1990, sia una trasposizione di alcuni romanzi
di Michael Dobbs. Ma House of Cards
passerà alla storia innanzitutto per essere stata la prima
serie tv interamente prodotta e distribuita sulla propria piattaforma
da Netflix, il colosso di prodotti audiovisivi in streaming (e in dvd),
che sta per sbarcare anche in Italia. I tredici episodi della prima
stagione, stesso format per la seconda e terza annata, sono stati
caricati sul sito netflix.com nello stesso giorno del febbraio 2013,
così come è avvenuto per le due stagioni
seguenti. E una quarta è in fase di pre-produzione. House
of Cards interpreta dunque in modo radicalmente diverso il
concetto di post-serialità, modificando le
modalità di fruizione che non dipendono più dal
medium televisivo. Il suo protagonista, poi, il politico democratico
senza scrupoli Frank Underwood, assai lontano da un Obama e molto
più simile al pragmatismo sine limite di un Dick Cheney, ha
ripetutamente sfondato la quarta parete dello show: a più
riprese infatti Spacey ha impersonato il suo Frank fuori dalla
serie.
House of Cards
è però ben lungi dall'essere solo un'operazione
di marketing sopraffino. Resta innanzitutto un political drama
straordinario. Se si vuole, la metà oscura di un'altra serie
di grande successo, The West Wing, creata da Aaron
Sorkin, che ha segnato la scena delle serie tv drammatiche tra la fine
degli anni Novanta e l'inizio degli anni Zero. Un passaggio di
testimone fortemente marcato dall'episodio-cesura dell'immaginario
occidentale, ovvero il crollo delle Torri gemelle dell'11 settembre
2001. House of Cards è tutto quello che The
West Wing non ha mai potuto (né voluto)
essere.
Detto questo, una piccola parentesi
italiana. L'idea di Sky di trasmettere sul canale Atlantic i primi due
episodi della terza stagione in contemporanea con gli Stati Uniti
è stata vincente. Anche da noi qualcosina si muove sul
fronte produttivo-distributivo. Chapeau.
Ma che cosa c'è di interessante in questa serie, a
parte le modalità produttive di cui si è
brevemente detto?
Certo, la scalata al potere del
Democratic Majority Whip Underwood (sorta di capogruppo alla Camera, ma
il sistema politico e i meccanismi di potere interno sono assai diversi
da quelli italiani) ha il suo fascino. Con l'aiuto della spietata
moglie Claire, FU (la sigla del nome del nostro ha anche un altro
chiaro significato, o un invito rivolto se volete proprio al pubblico,
al quale Frank rivolge interessanti apocopi) che riesce a diventare,
attraverso giochi di palazzo, intrighi, omicidi e chi più ne
ha più ne metta, nientemeno che Presidente degli Stati
Uniti. Bisognerebbe dare un'occhiata e mettere in risonanza House
of Cards con serie assai diverse come Veep (in
Italia è Veep - Vicepresidente incompetente)
e Boss (non trasmessa da noi) per
rendersi conto che qualcosa sta cambiando nel modo di rappresentare la
politica americana. Inutile dire che su questo fronte, non
c'è niente di lontanamente paragonabile al modo di
rappresentare lo stesso mondo in Italia. Ma questo è davvero
un altro discorso.
Come abbiamo già avuto modo di
dire su “Quaderni d’Altri Tempi”, alcune
delle serie televisive americane più interessanti degli
ultimi anni si occupano, a loro modo, di pensare cosa sia una famiglia,
pur parlando d'altro. Si pensi, oltre a Breaking Bad
(cfr.
www.quadernidaltritempi.eu/numero48)
almeno a Mad Men (cfr.
www.quadernidaltritempi.eu/numero18).
Quello
che accade nel corso della terza stagione è il dipanarsi di
un'autentica crisi di coppia che come tutte le crisi familiari non
è nient'altro che un conflitto di desideri. House
of Cards la racconta attraverso il consueto gioco di silenzi,
traumi, segreti e divisioni. Fino all'epilogo inevitabile. La
discussione finale che i due hanno nell'ultimo episodio della stagione
è difatti agghiacciante. Il punto del contendere
è il loro futuro. Claire non vede nessuna
possibilità per loro. Frank si sforza di convincerla che
sono non solo sulla stessa barca ma come i due co-piloti di una
navicella spaziale. Sono uguali, indispensabili l'uno all'altra. Ma,
puntualizza Claire, "this is your office, not mine". I due survivors,
come si sono vicendevolmente definiti lungo le tre stagioni della
serie, stanno lì lì per azzannarsi, come due
alligatori con il sangue agli occhi. Claire non crede più al
fatto che i due si aiutino vicendevolmente, tutt'altro. Quello in cui
crede è che il lavoro di spietata coppia sia servito solo a
rafforzare una delle due parti. Quella di Frank, ovviamente. Ma a
Claire, per un motivo o per un altro, questo non va più
bene. "It's you that's not enough". È tempo di fare il tuo
lavoro, ribatte lui. Che è quello di First Lady, e niente
più. Le parole qui non bastano a sottolineare la rabbia
viscerale dell'uomo che non guarda in faccia a nessuno, capace di
pisciare sulla tomba del padre, figuriamoci se non potrebbe fare a
pezzi la qui presente moglie che invece d'essere la sua fida alleata si
sta tramutando nientemeno che in un'avversaria. Ma lei non ci sta, e il
giorno dopo lo lascia. La terza stagione di House of Cards si
chiude proprio così. Con uno stupito Frank che chiama:
"Claire?!", e una spietata signora Underwood che esce di scena.
Frank e Claire sono protagonisti di una battaglia che non
frappone il bene al male, ma, come è stato ben detto, il
male al peggio. Frank è lo specchio nero, l'emblema della
parte degenere degli Stati Uniti, che non sono semplicemente un Paese,
ma la metafora fin troppo trasparente dell'intero Occidente. E Claire,
che tutto è tranne che chiara e trasparente, non
è da meno. La politica è anche e soprattutto un
compromesso continuo con se stessi, coi propri sentimenti, i propri
valori, il proprio credo, la propria dignità.
Così com'è la vita di coppia, e quella
matrimoniale in particolare.
La campagna elettorale
di Frank diventa il veicolo narrativo per costruire il suo crollo, che
va contemporaneamente a investire la sua dimensione pubblica e quella
privata. Il discorso di House of Cards è
ancora una volta sul potere e sulla difficoltà della sua
gestione, su come essere nel punto più alto possa voler dire
divenire bersaglio di chiunque. Volendo, si può dire che si
tratta dello stesso sottofondo di un'altra straordinaria serie dei
nostri anni, Game of Thrones. Nella suddetta
campagna elettorale, la retorica del cambiamento, del progresso, di una
diversità da spacciare sempre e comunque come innovativa
emerge come strategia trasversale di tutti candidati alla Casa Bianca,
nonché come enorme specchietto per le allodole, dietro al
quale è spesso celato il vuoto politico.
In questa
stagione, durante la quale Frank visita anche il Roosevelt Memorial
perché è a quel Presidente che si vorrebbe
paragonare, anche se nelle azioni sembra più un Nixon, Frank
è andato più volte in difficoltà, ma
soprattutto ha trovato nella moglie un rivale alla sua altezza, tanto
da accompagnarci verso la quarta stagione con una certa
imprevedibilità e un nuovo slancio.
Vedremo che cosa succederà, ma quello che è certo è che la famiglia è il luogo di costruzione di ogni possibile discorso del politico. E quanto più il nucleo familiare è disfunzionale, tanto maggiore è la possibilità che questa patologia strutturale si riverberi sul piano pubblico. Questo è quanto ha da mostrarci la parabola della famiglia Underwood, con l'inevitabile fallimento cui è destinata, come inevitabile è il crollo di ogni castello di carte che si rispetti.