VISIONI / HUMANDROID
di Neill Blomkamp / Sony Pictures Entertainment, 2015
Presente post-coloniale, futuri post-umani
di Roberto Paura
Lo sguardo obliquo sul nostro futuro che Neill Blomkamp – regista sudafricano ormai promessa mantenuta del cinema di fantascienza – getta attraverso il “pianeta degli slum” si arricchisce di una nuova sfaccettatura: quella di Humandroid, titolo italiano (!) di Chappie, film che non ha entusiasmato la critica generalista e non ha fatto il botto al botteghino secondo gli standard hollywoodiani (“solo” 100 milioni di dollari d’incassi, comunque il doppio dei costi), ma che rappresenta un’altra, personalissima ma densissima analisi di Blomkamp del futuro-presente che ci aspetta.
Se lo confrontiamo con un tipico prodotto del cinema di Hollywood, A.I. – Intelligenza artificiale di Steven Spielberg del 2001, la distanza rispetto a Humandroid appare siderale. Eppure entrambi i film ragionano sullo stesso tema: un’intelligenza artificiale di livello pari (e in alcuni aspetti superiore) a quella di un bambino umano, e che si comporta più o come tale. Solo che Spielberg lo fa attraverso i filtri del mondo WASP americano – David è “adottato” da una coppia della borghesia bianca medio-alta – e Blomkamp attraverso quello dei diseredati che riempiono le crepe del mondo, e in particolare le tante crepe di quel sogno andato in frantumi chiamato “nazione arcobaleno” (rainbow nation), il Sudafrica. Anche se quindi entrambi gli approcci al tema dell’intelligenza artificiale sono molto ingenui, il loro valore come rappresentazione della realtà è ben diverso, e il film di Blomkamp è decisamente superiore. L’ossessione del regista sudafricano per quel futuro che è in realtà già il nostro presente, un mondo dove la maggioranza è rappresentata e si auto-rappresenta come reietta, mentre una piccola minoranza si affida a tutto pur di conservare il proprio status, percorre tutta la sua produzione cinematografica. Il celebre film d’esordio, District 9 (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 25), ha moltissimi punti in comune con Humandroid, non solo la stessa location, il Sudafrica. Ma entrambi hanno anche tanti elementi di contatto con il più hollywoodiano Elysium. Tutte queste storie condividono un uguale punto di partenza e di vista, che è quello dei dannati della Terra: che sia Soweto, la township di Johannesburg, o gli slum di Città del Messico, non notiamo la differenza. La differenza la notiamo quando confrontiamo questo ambiente con quello dell’élite, dotata di potentissimi strumenti di controllo territoriale. In District 9 la classe dirigente sudafricana ha segregato l’altro, l’alieno – nel vero senso della parola, l’extraterrestre – in un distretto analogo a quello dove i neri erano segregati durante l’apartheid, e dimostra di poter controllare le vite di questi diseredati attraverso deportazioni forzate da un distretto all’altro (sull’apartheid cfr. anche "Quaderni d'altri tempi" n. 37). Nel successivo Elysium (2013) la divisione degli spazi ha compiuto un salto di qualità, con l’élite ora trasferitasi fuori dalla Terra, in una gigantesca stazione spaziale orbitante che riproduce un habitat naturale e perfetto, mentre il 99% dell’umanità è confinata su un pianeta devastato dalla sovrappopolazione e dal cambiamento climatico. In Humandroid, film che si ambienta praticamente ai giorni nostri, i problemi della convivenza forzata tra classe dirigente e paria che si vive quotidianamente in Sudafrica sono risolti attraverso l’impiego di potenti androidi-poliziotto, che pattugliano le strade, garantiscono la sicurezza dell’élite (che può tornare a muoversi con costosissime automobili) e hanno relegato la malvivenza in strutture abbandonate, vecchie fabbriche e ciminiere, come i topi che popolano le fogne e le altre infrastrutture nascoste o dimenticate della civiltà umana. Il ruolo dominante delle multinazionali e in generale delle potentissime compagnie private è un altro elemento distintivo dei film di Blomkamp. Mutuato da una tradizione della fantascienza che da tempo si scaglia contro l’acquisizione di potere da parte del privato – di cui la corrente cyberpunk inaugurata da William Gibson costituisce solo un reboot, se è vero che sul potere politico delle aziende s’interrogavano anche Federick Pohl o Philip K. Dick negli anni Cinquanta, e a livello cinematografico film come Soylent Green negli anni Settanta e Blade Runner negli Ottanta – il tema si collega naturalmente al precedente. La fusione tra potere politico ed economico diventa totale quando s’incarna in multinazionali come la Multi-National United di District 9, la Armadyne Corp di Elysium o la Tetravaal di Humandroid. In comune a queste compagnie c’è il fatto che si occupano di ordine pubblico, perché tutte hanno vinto appalti per controllare la sicurezza nelle città attraverso “contractor” umani o robotici.
Da questo punto di vista, il Sudafrica contemporaneo rappresenta un perfetto monito per l’Occidente. Il mito della pacifica convivenza tra etnie dopo la fine dell’apartheid, avvenuta senza spargimenti di sangue, e della crescita economica tumultuosa della rainbow nation, negli ultimi anni si è scontrato frontalmente con gli effetti collaterali della “modernizzazione”: polarizzazione estrema della ricchezza, ondate migratorie che scatenano la xenofobia anche tra i neri sudafricani fino a vent’anni fa vittime del razzismo di Stato, disoccupazione dilagante e una criminalità che ha raggiunto livelli pari a quelli del Messico, le due nazioni più pericolose del mondo da questo punto di vista. In questa nazione che ha perso completamente la rotta, soprattutto dopo la scomparsa del suo timoniere, Nelson Mandela, e che tuttavia riesce a non sprofondare nella disintegrazione anarchica dello Stato-nazione comune a molti altri paesi africani, anche perché si affida sempre più al potere delle compagnie private che sostituiscono l’establishment politico, Blomkamp scorge il futuro-presente dell’Occidente contemporaneo, ambientandovi narrazioni che da un lato sono metafore di situazioni presenti, e dall’altra costituiscono immagini vividamente realistiche di un domani possibile.
Quello dell’intelligenza artificiale, in effetti, è un vecchio topos della fantascienza, che recentemente ha assunto un’inedita attualità. Ad alimentarla sono stati gli allarmi lanciati da eminenti personalità riguardo i rischi connessi allo sviluppo di una “superintelligenza”, cioè un’intelligenza artificiale (IA) autocosciente e superiore, nelle sua facoltà intellettive, a quella umana. Ne hanno parlato con preoccupazione icone mondiali del calibro di Stephen Hawking, Bill Gates ed Elon Musk, ed esperti meno noti ma molto conosciuti nel settore come il filosofo Nick Bostrom (autore del recente Superintelligence) e il fisico Max Tegmark. Quest’ultimo, co-fondatore e presidente del Future of Life Institute, ha promosso una lunga lettera aperta che chiede di avviare una seria ricerca a livello mondiale per massimizzare i benefici e minimizzare i rischi di IA forti (così, in gergo, vengono chiamate le IA autocoscienti), firmata da migliaia di scienziati ed esperti in tutto il mondo, e ha ottenuto una donazione di dieci milioni di dollari dall’imprenditore Elon Musk (che, detto per inciso, è sudafricano di origini come Blomkamp) per portare avanti questi sforzi. Preoccupazioni che emergono dai grandi passi in avanti che la ricerca sull’automazione e le IA sta compiendo negli ultimi anni, grazie da un lato alla spinta di giganti della Silicon Valley come Google e dall’altra alla sempre migliore comprensione dei meccanismi del cervello, il cui segreto ultimo, la coscienza, potrebbe essere svelato dai due grandi progetti internazionali da un miliardo di dollari ciascuno lanciati negli USA e in Europa, la BRAIN Initiative e lo Human Brain Project. Insomma, adesso che siamo così vicini a realizzare una IA forte – argomento prima relegato al mondo della fantascienza – è il momento di iniziare a riflettere sulle conseguenze, prima che sia troppo tardi. Lo “scenario Terminator” non fa dormire sonni tranquilli a molti esperti, che di fantascienza ne hanno letta e guardata parecchio, e Blomkamp s’ispira chiaramente a queste paure in Humandroid.
L’altra questione di stringente attualità ripresa dal regista sudafricano nel suo film riguarda le armi automatiche, meglio note come “robot militari”. Gli androidi sviluppati dalla Tetravaal del film sono robot militari usati dalla polizia locale, con autonome capacità di giudizio e di azione. Robot militari autonomi come questi, anche se molto meno intelligenti, sono già sviluppati soprattutto negli Stati Uniti e rappresentano l’evoluzione dei droni, il cui utilizzo estensivo da parte dell’esercito americano ha costituito un fattore decisivo su tutti gli ultimi teatri di guerra. Nelle scorse settimane il dibattito sui robot militari autonomi è sbarcato alle Nazioni Unite, dove si sta discutendo su una possibile convenzione internazionale che li metta al bando prima che entrino in dotazione agli eserciti di mezzo mondo, con conseguenze difficili da immaginare. Uno dei temi in merito che più interessa i giuristi riguarda le responsabilità da danni provocati da questi robot autonomi. Chi è responsabile per le vittime causate da errori dei robot? Non è una questione di dottrina. Le vittime innocenti di raid compiuti da droni in Iraq, Afghanistan e altri teatri di conflitto non sono poche. È chiaro: la responsabilità è sempre umana, ma del costruttore, del pianificatore o di chi controlla materialmente il drone? E se il drone – o in generale il robot – non ha nessun controllore diretto? C’è inoltre il problema della sicurezza, che i racconti sui robot positronici di Isaac Asimov hanno posto già molti decenni fa. Dobbiamo installare in questi robot delle “leggi” che impediscano loro di nuocere agli esseri umani? Ma in tal modo dovremmo dire addio ai robot militari. In Humandroid, il controllo è esercitato attraverso una chiavetta USB, in dotazione esclusivamente alla Tetravaal, tramite la quale si può aggiornare il firmware dei robot o metterli KO. Ma, anche così, come vediamo nel film, il rischio di robot che sfuggano al controllo umano non è pari a zero.
Inevitabilmente, il cinema di fantascienza ha colto la palla al balzo e ha prodotto recentemente molti film sull’argomento. È il caso dello spagnolo Autómata di Gabe Ibáñez (2014), dell’anglo-americano Ex Machina di Alex Garland (2015) e di Avengers: Age of Ultron (2015) della Marvel Studios (cfr. in questo numero). In tutti e tre i casi, con sfumature molto diverse, i film ragionano sull’emergere di IA forti e sulle problematiche e i rischi connessi. Blomkamp lo fa a modo suo e suggerisce dei percorsi inediti che si innestano su un ragionamento portato avanti dal regista fin da District 9. Il tema portante di Humandroid è infatti quello dell’identità. A differenza degli altri robot poliziotto prodotti dalla Tetravaal (per inciso, il nome della compagnia è quello di un video-esperimento realizzato da Blomkamp nel 2004, una finta pubblicità degli stessi robot di Humandroid, che può essere visto su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=VTnxP7e7-YA), Chappie è autocosciente. La sua crescita psicologica avviene in modo analogo a quella di un bambino, naturalmente con ritmi molto più veloci. Una IA, come qualsiasi intelligenza, deve essere formata; la formazione da parte dei “genitori” assume un ruolo fondamentale nella sua crescita. Per questo la banda di gangster che sequestra Chappie cerca di inculcargli la sua morale criminale, così da trasformarlo in un loro collega, reso pressoché invincibile dalla corazza di titanio. Il creatore di Chappie, l’ingegnere nerd Deon, riesce a convincere Chappie che non deve prendere parte ad attività criminali, ma i gangster trovano il modo di aggirare l’ostacolo, convincendo Chappie che rubare auto di lusso o ferire agenti della sicurezza non ha nulla di criminoso. L’androide ci casca in pieno e diventa complice della banda, finché non scopre la verità al termine di un personale percorso di autoconsapevolezza e comprensione della realtà che avviene intorno al problema della morte. Chappie, infatti, è un androide destinato a vita breve: la sua batteria si è fusa con la corazza in seguito a un incidente che ha coinvolto il precedente “proprietario” dell’involucro in cui ora si muove, e gli restano appena cinque giorni di vita. Che questa sia una cosa brutta, Chappie lo capisce molto presto, imbattendosi in un cane morto. Si rende conto che non vuole fare la fine di quel cane, vuole vivere, e ciò lo porta in conflitto con Deon, il creatore, reo di avergli dato la vita solo per poi vederlo morire (ma qui calzerebbe a pennello il paragone con gli esseri umani, analogamente destinati a morire dal momento in cui sono messi al mondo). È attraverso il suo confronto con la morte che Chappie acquisisce la piena umanità, come già aveva intuito Asimov nel suo celebre racconto L’uomo bicentenario del 1976 (poi trasposto con successo al cinema da Chris Columbus nel 1999). E in tal modo l’androide acquisisce anche una propria morale, una personale capacità di distinguere il bene dal male al di là dei lavaggi del cervello perpetrati dalla gang criminale o dal creatore Deon.
Chappie diventa quindi “umano”, si libera definitivamente dalle sue costrizioni “di fabbrica” e assume un’identità vera, che rende la sua vita preziosa quanto quella di un essere umano. Diventa in realtà persino “più che umano”, dal momento che il paragone con i suoi partner di carne e ossa è impietoso: i gangster con la loro morale corrotta, Deon con la sua superbia egocentrica che gli impedisce di mettersi nei panni degli altri, il folle Vincent Moore che cerca la sua vendetta mettendo fuori uso gli androidi di Deon per mostrare al mondo la potenza della sua spaventosa macchina da guerra Moose, sono tutti esempi meschini di un’umanità unanimemente disumana se confrontata con la limpida etica di Chappie. Blomkamp risolve a modo suo il dilemma sulla responsabilità delle macchine: la responsabilità, suggerisce, è sempre dell’uomo, sia che costruisca androidi del tutto autonomi, che però come Chappie sono soggetti all’imprinting umano, sia che realizzi macchine che sono semplici estensioni artificiali dell’uomo, come il Moose. Questo modello di robot da guerra, che Vincent controlla attraverso un casco “telepatico”, può sembrare più sicuro, perché non possiede un’autonoma capacità decisionale, ma è completamente teleguidato da un’intelligenza umana (come la maggior parte dei droni militari); e tuttavia, se a comandarlo è un uomo dalla visione della realtà completamente distorta come Vincent, i danni sono ben superiori a quelli prodotti dai robot autonomi. Il personaggio di Vincent Moore è un leit-motiv del cinema di Blomkamp: rappresenta l’afrikaner post-apartheid, bianco e violento, perennemente dominato da istinti di supremazia, che alla prima occasione sfoga tutta la sua violenza repressa contro i reietti che popolano il mondo in cui vive. In District 9 era rappresentato da Koobus Venter, in Elysium da C.M. Kruger: entrambi mercenari, entrambi pazzi e sadici, entrambi ovviamente afrikaner, come i rispettivi cognomi suggeriscono. Lo è anche, naturalmente, Vincent Moore, che nel confronto con i criminali del film non perde occasione di lasciarsi sfuggire frasi riguardanti la necessità di fare “pulizia”, sterminando i criminali delle township.
La soluzione proposta da Humandroid – e qui il titolo scelto per il mercato italiano assume un minimo di senso logico – sta, come in District 9, nell’ibridazione. Un’ibridazione che non è mai facile, naturalmente, come non è facile l’integrazione, in Sudafrica, tra le diverse etnie – i neri sudafricani, i neri non sudafricani (in primis gli odiati nigeriani), i bianchi anglosassoni, i bianchi afrikaner, i coloured, ossia i meticci – ma che rappresenta la possibile via di uscita dalle “uniche alternative poste”, ossia “il modello carcerario della coabitazione forzata e un orizzonte segregazionista” (cfr. Frassinelli, 2012; l’analisi di Frassinelli, pur molto penetrante, non percepisce questa soluzione innovativa ma problematica avanzata da Blomkamp, limitando quindi la portata sociale di District 9). La coabitazione tra uomini e macchine appare impossibile e l’alternativa è una fusione, che si realizza quando Chappie riesce prima a trasferire la coscienza di Deon nel corpo meccanico di un altro androide, e poi fa lo stesso con l’amata Mommie, di cui riproduce anche le fattezze. Il finale di Humandroid prelude quindi all’emergere di una nuova umanità, una post-umanità del tipo di quella teorizzata dai transumanisti, attraverso l’ibridazione completa uomo-macchina garantita dalla tecnica del mind-uploading, grazie alla quale la coscienza individuale è destinata praticamente a non morire mai. Ma, conoscendo Blomkamp, nemmeno questa “terza via” può essere completamente a-problematica, nonostante quanto rappresentato nella scena finale. I prossimi film, soprattutto se torneranno nella stessa ambientazione, come il regista sudafricano ha ipotizzato, sono probabilmente destinati a esplorare ulteriormente il presente post-coloniale e i futuri post-umani della nostra società.
LETTURE
— Isaac Asimov, L’uomo bicentenario, in Isaac Asimov, Tutti i miei robot, Mondadori, Milano, 1993.
— James Barrat, Why Stephen Hawking and Bill Gates Are Terrified of Artificial Intelligence, “The World Post”, 9 aprile 2015,
— http://www.huffingtonpost.com/james-barrat/hawking-gates-artificial-intelligence_b_7008706.html
— James Barrat, Our Final Invention: Artificial Intelligence and the End of the Human Era, Thomas Dunne Books, New York, 2013.
— Nick Bostrom, Superintelligence: Paths, Dangers, Strategies, Oxford University Press, Oxford, 2014.
— Pier Paolo Frassinelli, Il nuovo Sudafrica e gli alieni, in “Studi culturali”, n. 3/2012.
— Roberto Paura, Singolarità, transumanesimo e nuove utopie della (bio)cybercultura, in “Futuri” n. 5, 2015.
VISIONI
— Neill Blomkamp, District 9. Vietato ai non umani, Universal Pictures, 2013 (home video).
— Neill Blomkamp, Elysium, Universal Pictures, 2013 (home video).
— Chris Columbus, L’uomo bicentenario, Universal Pictures, 2013 (home video).
— Alex Garland, Ex Machina, Universal Pictures, 2015.
— Gabe Ibáñez, Autómata, Eagle Pictures, 2015.
— Joss Whedon, Avengers: Age of Ultron, Walt Disney Studios Motion Pictures, 2015.