mappe q54

 

 

 

q54_m01

 

di Fiorenza Gamba

 

“Perfetto”. Sembra essere una delle espressioni che meglio rappresentano la contemporaneità. Il termine fa parte di quell’ampio glossario in cui sono comprese parole come benessere, felicità, longevità, piacere, perfezione appunto. Parole che sottintendono, in maniera nemmeno troppo implicita, il proprio campo di applicazione: il corpo, quale centro di affermazione dell’identità, di libertà, di realizzazione della propria biografia personale (cfr. Giddens, 1999; Bauman, 1995) e luogo di realizzazione di quegli imperativi diffusi e largamente interiorizzati che possono essere sintetizzati nello slogan “avere di più, essere meglio”. 
Si tratta di un progetto che ha origini lontane, complesse, talvolta anche poco riconoscibili, ma del quale tuttavia si possono trovare le tracce. Seguendo Michel Foucault infatti, il corpo è il campo di scontro tra l’esercizio di un potere, di un controllo e la resistenza che a esso si oppone, come ha analizzato attraverso il concetto di biopolitica. Possiamo infatti scorgerne le tracce nel progetto positivista della modernità che si prefiggeva una manutenzione efficiente del corpo impostata sui termini salute e igiene (opposti ovviamente a malattia, degenerazione). Un corpo tenuto al buon funzionamento per poter svolgere idoneamente il lavoro fisico e le necessarie funzioni riproduttive, finalità perseguite con ogni mezzo. Tuttavia, questo imponente progetto moderno, risultato di una particolare composizione di fattori economici, sociali e politici di un preciso periodo storico, ne incrocia un altro, ben più antico ed essenzialmente antropologico, senza poterlo assimilare completamente a sé. A ben vedere però, più che di un progetto in senso proprio, si tratta di un desiderio, di un sogno, complementare di una paura comune ad ogni uomo: la paura della morte, la quale è inaccettabile proprio perché cancella l’individualità umana in quanto ha più di concreto e specifico, il corpo. Un trauma causato dalla coscienza della morte come fatto bruto, che produce come reazione opposta la speranza della possibilità in un al di là rispetto alla morte, un desiderio di immortalità, di sopravvivenza (cfr. Morin, 2002). Nel corso del tempo questo desiderio si è manifestato in forme diverse, così l’escatologia religiosa fino a tempi recenti ne ha rappresentato la parte prevalente, ma al tempo stesso esso è stato alimentato da miti profani come La fontana della giovinezza, Il giardino delle Esperidi o L’Elisir di lunga vita. Tutte però, in maniera più o meno esplicita, hanno sempre insistito sulla sopravvivenza del corpo, indipendentemente dalla sfera della trascendenza o dell’immanenza a cui facevano riferimento. Ma è soltanto a partire dall’incontro con il progetto della modernità che nel desiderio di sopravvivenza l’immanenza prende il sopravvento e il corpo diventa l’unico destinatario di quello che Edgar Morin ha definito il mito dell’amortalità, vale a dire la formulazione razionale del tentativo di prolungare la vita all’infinito grazie alla scienza che affronta la morte come un semplice incidente in un percorso idealmente ininterrotto. Indubbiamente il progetto appartiene alla sfera del mito, poiché al momento l’amortalità rimane una figura dell’immaginario collettivo e individuale. Ciononostante essa dà l’impressione che la sua realizzazione sia imminente in ragione della frammentazione della morte in una serie di cause e sintomi minori sconfitti di volta in volta dalla medicina e dalla ricerca scientifica (cfr. Bauman, ibidem). 
La società contemporanea, che si caratterizza sempre di più come società post mortale (Lafontaine), presenta una versione estremizzata, ma anche ottimizzata dell’amortalità che si è impossessata della tecnologia più avanzata, a partire dalle nanotecnologie, per sconfiggere definitivamente la morte e la malattia ad essa legata, in quanto considerata un evento non naturale (cfr. Yonnet, 2012) e raggiungere l’immortalità (cfr. Balandier 2004; Le Breton, 2004) che non sarà altro che una forma perfetta di amortalità.
L’impegno di sconfiggere la morte si estende anche a tutti i processi che ad essa sono annessi, aggredendo in primo luogo la malattia e la sofferenza e, di conseguenza, l’invecchiamento. Ciò è tanto più necessario perché un corpo amortale, o post mortale che dir si voglia, può essere tale solo se la malattia, la sofferenza, la vecchiaia lo lasciano intatto o almeno non mostrano i loro segni. In questa tensione verso la perfezione, la rimozione di ogni elemento che possa ostacolarla non è mai totale. Infatti, in maniera del tutto contraddittoria, alla negazione della morte corrisponde una pornografia della morte (cfr. Gorer, 1986), vale a dire la sua esibizione in alcuni particolari contesti, tra cui i media, senza ritegno alcuno. Come lo ha definito Luc Boltanski: un vero e proprio spettacolo del dolore (cfr. Boltanski, 2000).  Ma non solo, il progetto di trasformazione del corpo mortale in corpo amortale malgrado tutti gli sforzi e gli importanti risultati ottenuti, mostra ripetutamente anche i propri insuccessi che sfuggono a qualsiasi controllo e a qualsiasi rimozione: le epidemie, le guerre, le torture, le malattie, ancorché celate, ci ricordano che la morte e il dolore esistono in maniera contraddittoria, paradossale e tuttavia evidente e certa.  
Nella società post mortale allora, la sofferenza non è ancora un semplice residuo, destinato inevitabilmente a scomparire. Non è nemmeno un dato stabile, quantificabile, oggettivo e, in questo senso,  facilmente amministrabile, controllabile, prevedibile. 

Il dolore e la sofferenza sono una chiave di accesso del mondo e una forma di accesso a sé, talvolta subiti talvolta scelti.
Come David Le Breton spiega nel suo lavoro più recente, Esperienze del dolore, pubblicato da Raffaello Cortina (2014), a partire dal titolo, del dolore ci sono esperienze diverse che assumono significati diversi perché il dolore e la sofferenza che ne consegue sono in prima istanza un fatto individuale, perché “il dolore non è la traduzione automatica di una lesione, esso è significato ossia sofferenza, ed è percepito secondo una griglia interpretativa propria di ciascun individuo [...] Il dolore non è più solamente sensazione, è anche emozione, ed è quanto mette in evidenza la questione del senso; esso è altresì percezione, ossia attività di decifrazione compiuta su di sé e non ricalco di un’alterazione somatica”. 
Affermare l’individualità del dolore, e quindi della sofferenza, non significa negarlo come condizione che appartiene all’uomo nella sua totalità e non toglie nulla alla sua dimensione sociale, al contrario apre alcune problematiche che sono fondamentali per la sua comprensione come condizione collettiva: la sua grande variabilità, il suo senso, la sua presenza ineliminabile nell’esperienza umana. È a partire da queste constatazioni che Le Breton esamina l’esperienza del dolore e della sofferenza senza nessun compiacimento decadente, ma attraverso un’osservazione lucida e tuttavia mai distaccata che mette in rilievo tutta l’inadeguatezza e l’insufficienza di una prospettiva semplicistica e unidimensionale della sofferenza, tale quella incorporata nel progetto della modernità e sviluppata nella ricerca della perfezione post mortale della contemporaneità. 
Considerare la sofferenza come una condizione negativa da sopprimere e da controllare non è un  progetto scorretto o non condivisibile, ma limitato, che non considera le molteplici declinazioni del dolore e il senso che esse acquistano nell’esperienza umana. Ignora, questa prospettiva, che ad una determinata esperienza corrispondono dolore e sofferenza di diversa intensità e di molteplici significati, che sono il risultato dell’intreccio di trame biografiche diverse, ma anche della costruzione sociale e culturale del dolore. Paradossalmente, l’ignoranza della molteplicità della sofferenza rende meno efficaci, talvolta inutili, i programmi che si prefiggono di alleviarla o di sconfiggerla, come ha ben compreso da tempo l’antropologia medica: omologare la sofferenza è la via più breve per arrendersi ad essa.

 

m01

 

Le Breton nel suo libro ci mostra la molteplicità e l’ambiguità della sofferenza. Il dolore può essere un’esperienza quotidiana, transitoria, le cui tracce per chi lo prova scompaiono velocemente, oppure un’esperienza artistica attraverso la quale l’artista – vivendola con il suo corpo e sul suo corpo  –  lascia una traccia destinata ad acquistare un senso anche per la comunità degli spettatori. Ancora, il dolore può essere una strategia di vita, scelta più o meno inconsciamente per ottenere l’attenzione degli altri, o un modo per sentirsi vivi e in questo senso non estraneo ma scisso dalla sofferenza, come testimoniano, in particolare tra i giovani e gli adolescenti, le pratiche di scarificazione, le ferite autoinferte, le condotte a rischio o i piercing e i tatuaggi (cfr. Le Breton, 2002a; 2002b; 2007c). Oppure, un identico tipo di dolore, ad esempio quello del parto, può essere vissuto in modi contrastanti dalle donne che vivono quest’esperienza.
L’intento di Le Breton però non è quello di compilare una tassonomia del dolore, redigendo un censimento delle sue ricorrenze e delle sue variazioni, ma piuttosto il tentativo di comporne i diversi significati nell’esperienza umana. Il dolore e il suo correlato di sofferenza sfidano i limiti dell’uomo e mettono alla prova la sua resistenza, ma sono anche misure simboliche di identità e di appartenenza; esprimono attraverso il medium dei medium – il corpo – la condizione dell’uomo, in quanto forme della sua sensibilità e della sua ricettività. Ed è proprio questo il tema generale dell’opera di Le Breton: riconoscere tutti i sintomi e i segnali che l’uomo con il proprio corpo dà della propria esistenza, al di là di qualsiasi proposta di asettica perfezione cerchino di instaurare le varie culture contemporanee, dominanti o periferiche. Un tema al quale l’autore ha dedicato i suoi lavori e ai quali il lettore italiano può in parte accedere in traduzione italiana, tutti analizzano la potenza esistenziale del corpo; un tema che ritroviamo intatto in Esperienze del dolore, indagato in tutta la sua profondità e complessità.  Un libro inesauribile per la ricchezza degli spunti offerti e per la molteplicità di nuances in cui dolore e sofferenza sono presentati.

 


 

LETTURE

 

  Georges Balandier, D’une espérance à l’autre: L’émergence de l’homme amortel,
  in Lenoir F., Tonnac J.-P., Bayard, Paris, 2004.
  Zygmunt Bauman, Il teatro dell’immortalità, Il Mulino, Bologna, 1995.
  Luc Boltanski, Lo spettacolo del dolore, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000.
  Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1978.
  Anthony Giddens, Identità e società moderna, Ipermedium, Napoli, 1999.
  Geoffrey Gorer, Pornografia della morte, in Zeta n.2, Cappelli, Bologna,1986.
  Celine Lafontaine, La société postmortelle, Éditions du Seuil, Paris, 2008
  David Le Breton, Il sapore del mondo: un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007a.
  David Le Breton, Antropologia del corpo e modernità, Giuffré, Milano, 2007b.
  David Le Breton, Conduites à risque, PUF, Paris, 2002a
  David Le Breton, En souffrance. Adolescence et entrée dans la vie, Metailié, Paris, 2007c. 
  Le Breton David, La pelle e la traccia, Meltemi, Roma, 2007d.
  David Le Breton, La quête contemporaine d’immortalité, in Lenoir F., Tonnac J.-P. (dir.),
  La Mort et l'immortalité. Encyclopédie des savoirs et des croyances, Bayard, Paris, 2004.
  David Le Breton, Passione del rischio, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1995.
  David Le Breton, Signes d'identité. Tatouages, piercings et autres marques corporelles, Éditions Métailié, Paris, 2002b.
  David Le Breton, Esperienze del dolore, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.
  Edgard Morin, L’homme et la mort, Editions du Seuil, Paris, 2002.
  Paul Yonnet, La ritirata della morte, Ipermedium, Napoli, 2012.