“Perfetto”. Sembra essere una delle
espressioni che meglio rappresentano la contemporaneità. Il
termine fa parte di quell’ampio glossario in cui sono
comprese parole come benessere, felicità,
longevità, piacere, perfezione appunto. Parole che
sottintendono, in maniera nemmeno troppo implicita, il proprio campo di
applicazione: il corpo, quale centro di affermazione
dell’identità, di libertà, di
realizzazione della propria biografia personale (cfr. Giddens, 1999;
Bauman, 1995) e luogo di realizzazione di quegli imperativi diffusi e
largamente interiorizzati che possono essere sintetizzati nello slogan
“avere di più, essere meglio”.
Si
tratta di un progetto che ha origini lontane, complesse, talvolta anche
poco riconoscibili, ma del quale tuttavia si possono trovare le tracce.
Seguendo Michel Foucault infatti, il corpo è il campo di
scontro tra l’esercizio di un potere, di un controllo e la
resistenza che a esso si oppone, come ha analizzato attraverso il concetto di biopolitica. Possiamo infatti scorgerne le
tracce nel progetto positivista della modernità che si
prefiggeva una manutenzione efficiente del corpo impostata sui termini
salute e igiene (opposti ovviamente a malattia, degenerazione). Un corpo
tenuto al buon funzionamento per poter svolgere idoneamente il lavoro
fisico e le necessarie funzioni riproduttive, finalità
perseguite con ogni mezzo. Tuttavia, questo imponente progetto moderno,
risultato di una particolare composizione di fattori economici, sociali
e politici di un preciso periodo storico, ne incrocia un altro, ben
più antico ed essenzialmente antropologico, senza poterlo
assimilare completamente a sé. A ben vedere però,
più che di un progetto in senso proprio, si tratta di un
desiderio, di un sogno, complementare di una paura comune ad ogni uomo:
la paura della morte, la quale è inaccettabile proprio
perché cancella l’individualità umana
in quanto ha più di concreto e specifico, il corpo. Un
trauma causato dalla coscienza della morte come fatto bruto, che
produce come reazione opposta la speranza della possibilità
in un al di là rispetto alla morte, un desiderio di
immortalità, di sopravvivenza (cfr. Morin, 2002). Nel corso
del tempo questo desiderio si è manifestato in forme
diverse, così l’escatologia religiosa fino a tempi
recenti ne ha rappresentato la parte prevalente, ma al tempo stesso
esso è stato alimentato da miti profani come La fontana
della giovinezza, Il giardino delle Esperidi o L’Elisir di
lunga vita. Tutte però, in maniera più o meno
esplicita, hanno sempre insistito sulla sopravvivenza del corpo,
indipendentemente dalla sfera della trascendenza o
dell’immanenza a cui facevano riferimento. Ma è
soltanto a partire dall’incontro con il progetto della
modernità che nel desiderio di sopravvivenza
l’immanenza prende il sopravvento e il corpo diventa
l’unico destinatario di quello che Edgar Morin ha definito il
mito dell’amortalità, vale a dire la formulazione
razionale del tentativo di prolungare la vita all’infinito
grazie alla scienza che affronta la morte come un semplice incidente in
un percorso idealmente ininterrotto. Indubbiamente il progetto
appartiene alla sfera del mito, poiché al momento
l’amortalità rimane una figura
dell’immaginario collettivo e individuale. Ciononostante essa
dà l’impressione che la sua realizzazione sia
imminente in ragione della frammentazione della morte in una serie di
cause e sintomi minori sconfitti di volta in volta dalla medicina e
dalla ricerca scientifica (cfr. Bauman, ibidem).
La
società contemporanea, che si caratterizza sempre di
più come società post mortale (Lafontaine),
presenta una versione estremizzata, ma anche ottimizzata
dell’amortalità che si è impossessata
della tecnologia più avanzata, a partire dalle
nanotecnologie, per sconfiggere definitivamente la morte e la malattia
ad essa legata, in quanto considerata un evento non naturale (cfr.
Yonnet, 2012) e raggiungere l’immortalità (cfr.
Balandier 2004; Le Breton, 2004) che non sarà altro che una
forma perfetta di amortalità.
L’impegno
di sconfiggere la morte si estende anche a tutti i processi che ad essa
sono annessi, aggredendo in primo luogo la malattia e la sofferenza e,
di conseguenza, l’invecchiamento. Ciò è
tanto più necessario perché un corpo amortale, o
post mortale che dir si voglia, può essere tale solo se la
malattia, la sofferenza, la vecchiaia lo lasciano intatto o almeno non
mostrano i loro segni. In questa tensione verso la perfezione, la
rimozione di ogni elemento che possa ostacolarla non è mai
totale. Infatti, in maniera del tutto contraddittoria, alla negazione
della morte corrisponde una pornografia della morte (cfr. Gorer, 1986),
vale a dire la sua esibizione in alcuni particolari contesti, tra cui i
media, senza ritegno alcuno. Come lo ha definito Luc Boltanski: un vero
e proprio spettacolo del dolore (cfr. Boltanski, 2000). Ma
non solo, il progetto di trasformazione del corpo mortale in corpo
amortale malgrado tutti gli sforzi e gli importanti risultati ottenuti,
mostra ripetutamente anche i propri insuccessi che sfuggono a qualsiasi
controllo e a qualsiasi rimozione: le epidemie, le guerre, le torture,
le malattie, ancorché celate, ci ricordano che la morte e il
dolore esistono in maniera contraddittoria, paradossale e tuttavia
evidente e certa.
Nella società post
mortale allora, la sofferenza non è ancora un semplice
residuo, destinato inevitabilmente a scomparire. Non è
nemmeno un dato stabile, quantificabile, oggettivo e, in questo
senso, facilmente amministrabile, controllabile,
prevedibile.
Il dolore e la sofferenza sono una chiave di accesso del mondo
e una forma di accesso a sé, talvolta subiti talvolta scelti.
Come
David Le Breton spiega nel suo lavoro più recente, Esperienze
del dolore, pubblicato da Raffaello Cortina (2014), a partire
dal titolo, del dolore ci sono esperienze diverse che assumono
significati diversi perché il dolore e la sofferenza che ne
consegue sono in prima istanza un fatto individuale, perché
“il dolore non è la traduzione automatica di una
lesione, esso è significato ossia sofferenza, ed
è percepito secondo una griglia interpretativa propria di
ciascun individuo [...] Il dolore non è più
solamente sensazione, è anche emozione, ed è
quanto mette in evidenza la questione del senso; esso è
altresì percezione, ossia attività di
decifrazione compiuta su di sé e non ricalco di
un’alterazione somatica”.
Affermare
l’individualità del dolore, e quindi della
sofferenza, non significa negarlo come condizione che appartiene
all’uomo nella sua totalità e non toglie nulla
alla sua dimensione sociale, al contrario apre alcune problematiche che
sono fondamentali per la sua comprensione come condizione collettiva:
la sua grande variabilità, il suo senso, la sua presenza
ineliminabile nell’esperienza umana. È a partire
da queste constatazioni che Le Breton esamina l’esperienza
del dolore e della sofferenza senza nessun compiacimento decadente, ma
attraverso un’osservazione lucida e tuttavia mai distaccata
che mette in rilievo tutta l’inadeguatezza e
l’insufficienza di una prospettiva semplicistica e
unidimensionale della sofferenza, tale quella incorporata nel progetto
della modernità e sviluppata nella ricerca della perfezione
post mortale della contemporaneità.
Considerare
la sofferenza come una condizione negativa da sopprimere e da
controllare non è un progetto scorretto o non
condivisibile, ma limitato, che non considera le molteplici
declinazioni del dolore e il senso che esse acquistano
nell’esperienza umana. Ignora, questa prospettiva, che ad una
determinata esperienza corrispondono dolore e sofferenza di diversa
intensità e di molteplici significati, che sono il risultato
dell’intreccio di trame biografiche diverse, ma anche della
costruzione sociale e culturale del dolore. Paradossalmente,
l’ignoranza della molteplicità della sofferenza
rende meno efficaci, talvolta inutili, i programmi che si prefiggono di
alleviarla o di sconfiggerla, come ha ben compreso da tempo
l’antropologia medica: omologare la sofferenza è
la via più breve per arrendersi ad essa.
Le
Breton nel suo libro ci mostra la molteplicità e
l’ambiguità della sofferenza. Il dolore
può essere un’esperienza quotidiana, transitoria,
le cui tracce per chi lo prova scompaiono velocemente, oppure
un’esperienza artistica attraverso la quale
l’artista – vivendola con il suo corpo e sul suo
corpo – lascia una traccia destinata ad
acquistare un senso anche per la comunità degli spettatori.
Ancora, il dolore può essere una strategia di vita, scelta
più o meno inconsciamente per ottenere
l’attenzione degli altri, o un modo per sentirsi vivi e in
questo senso non estraneo ma scisso dalla sofferenza, come
testimoniano, in particolare tra i giovani e gli adolescenti, le
pratiche di scarificazione, le ferite autoinferte, le condotte a
rischio o i piercing e i tatuaggi (cfr. Le Breton, 2002a; 2002b;
2007c). Oppure, un identico tipo di dolore, ad esempio quello del
parto, può essere vissuto in modi contrastanti dalle donne
che vivono quest’esperienza.
L’intento di
Le Breton però non è quello di compilare una
tassonomia del dolore, redigendo un censimento delle sue ricorrenze e
delle sue variazioni, ma piuttosto il tentativo di comporne i diversi
significati nell’esperienza umana. Il dolore e il suo
correlato di sofferenza sfidano i limiti dell’uomo e mettono
alla prova la sua resistenza, ma sono anche misure simboliche di
identità e di appartenenza; esprimono attraverso il medium
dei medium – il corpo – la condizione
dell’uomo, in quanto forme della sua sensibilità e
della sua ricettività. Ed è proprio questo il
tema generale dell’opera di Le Breton: riconoscere tutti i
sintomi e i segnali che l’uomo con il proprio corpo
dà della propria esistenza, al di là di qualsiasi
proposta di asettica perfezione cerchino di instaurare le varie culture
contemporanee, dominanti o periferiche. Un tema al quale
l’autore ha dedicato i suoi lavori e ai quali il lettore
italiano può in parte accedere in traduzione italiana, tutti
analizzano la potenza esistenziale del corpo; un tema che ritroviamo
intatto in Esperienze del dolore, indagato in tutta
la sua profondità e complessità. Un
libro inesauribile per la ricchezza degli spunti offerti e per la
molteplicità di nuances in cui dolore e
sofferenza sono presentati.
LETTURE