VISIONI / MAGIC IN THE MOONLIGHT
di Woody Allen / Warner Bros., 2014
La Ragione al chiaro di luna
di Adolfo Fattori
L’età non conta, evidentemente, per i grandi artisti. E così Woody Allen, ormai alle soglie degli ottant’anni – forse avviandosi ad imitare i suoi antenati che raggiungevano età bibliche – ci regala un altro dei suoi (solo apparentemente piccoli) capolavori che, ammantati da toni di commedia, guardando apparentemente ad altro, nascondono allusioni e rimandi ai grandi interrogativi della cultura novecentesca sullo statuto della realtà, la condizione umana, il rapporto degli uomini con le cose e i fatti, la causalità e la sua stretta compagna, la casualità degli eventi.
Nel caso di Magic in the Moonlight il tessuto su cui il regista newyorkese imbastisce la sua trama è la storia di un saccente e arrogante inglese, Stanley Crawford (Colin Firth), convinto e orgoglioso razionalista, che si è dato come missione lo smascheramento dei “sensitivi”, degli spiritisti, e di tutti i ciarlatani (e le ciarlatane) che pretendono di essere in contatto con l’aldilà, gli spiriti dei defunti e tutta la sfera dell’irrazionale e del soprannaturale, ancora vivi e vitali nei primi decenni del XX secolo – e, per inciso, approfittano della speranza dei vivi di poter dialogare con gli amori ormai defunti, o di conquistare con il giusto filtro o incantesimo l’amore di un vivente.
Può farlo a ragion veduta, visto che, senza che si conosca la sua vera identità, Stanley esercita l’arte dell’illusionismo con lo pseudonimo di Wei Ling Soo ed è – nell’epoca dell’esplosione delle comunicazioni e della cultura di massa – il “mago” più famoso e acclamato del mondo, e quindi conosce tutti i trucchi, le trappole, le raffinatezze del mestiere. Un parente di John Silence, insomma, il “detective dell’occulto” creato dall’inglese Algernon Blackwood agli inizi del Novecento (cfr. Blackwood, 2010); ma Crawford è abitante di un mondo in cui il sacro e il soprannaturale cominciavano ad essere messi ormai decisamente fuori gioco per qualche decennio, in attesa dell’emergere delle fantasticherie New Age.
Stanley viene invitato da un amico e collega meno famoso di lui, Howard Burkan (Simon McBurney), in Costa azzurra – una delle passioni degli americani ricchi che avevano scoperto l’esotismo delle località esclusive dell’Europa che si era appena lasciata alle spalle la prima guerra mondiale – a smascherare la giovane sensitiva americana Sophie Baker (Emma Stone) che, accompagnata dalla madre, sta mietendo onori – e vittime, secondo Howard – fra i facoltosi nullafacenti residenti sul vecchio continente.
Howard vuole salvare in particolare una vecchia amica e suo figlio, il fatuo e ingenuo Brice (Hamish Linklater), che subito innamoratosi della ragazza, pensa già al matrimonio, e sta mettendo a rischio il patrimonio di famiglia (sostenuto in pieno dalla madre, la preda diretta della giovane medium).
Stanley accetta con entusiasmo e con l’abituale sicumera l’incarico, presentandosi sotto un falsa identità in Costa Azzurra, deciso a screditare rapidamente la “piccola imbroglioncella” proveniente da quelle che gli inglesi definiscono ancora “le colonie”, gli Stati uniti, trattando la ragazza con sufficienza, superiorità, anche disprezzo, anche quando lei cerca di mostrargli l’attrazione che comincia a provare per lui. Solo che le cose non vanno per il verso consueto: la giovane Sophie lo mette in scacco, mostrando di sapere cose che solo Crawford può conoscere e rintuzzando tutto i suoi tentativi di coglierla in fallo.
Il giovane è disorientato: le certezze su cui poggiava la sua visione del mondo si dimostrano – almeno in un caso, quello di Sophie – fallaci… Fin quando non scopre che è tutto un imbroglio nell’imbroglio: complice (anzi, ispiratore) di Sophie nell’ingannare Stanley è proprio Howard, anzi, è lui che ha architettato tutta la storia per vendicarsi di Crawford, che lui invidia da sempre.
L’americano è nel pallone: da una parte è contento, perché il suo razionalismo radicale è confermato; dall’altra è abbattuto, perché alla fine la piccola, giovane, graziosa “imbroglioncella” è riuscita – senza trucchi o imbrogli, ma con la più antica magia del mondo – a stregarlo: Stanley si è innamorato di lei. E dopo un serrato monologo con se stesso catalizzato dalla vecchia zia di cui è ospite, decide di lasciarsi andare, perdonare la ragazza per l’imbroglio, e vivere “felice e contento” con lei. E così, dalle asprezze del dibattito filosofico, si passa definitivamente alle dolcezze dell’amore.
Sì, perché Allen fa citare esplicitamente a Stanley Crawford il filosofo Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud – mentre implicitamente sembra evocare il fisico Ernst Mach e il metereologo e fisico Dmitrij Mendeleev, il “redattore” di quella “tavola periodica degli elementi” che fa da basamento a tutta la fisica e la chimica moderne, relatore presso la Società russa della tecnica di Pietroburgo negli anni Settanta dell’Ottocento di tre conferenze sullo spiritismo (cfr. Mendeleev, 1992), liquidato definitivamente come frutto della superstizione.
Stanley, dicevamo, è un empirista razionale, che conosce e naturalmente disprezza personaggi come Aleister Crowley, Madame Blavatsky o Georges Gurdjieff, alfieri indiscussi dell’esistenza in varie forme del soprannaturale e di quella mescolanza sincretica fra “discipline” della mente e del corpo, filosofie orientali e baggianate esoteriche e teosofiche varie come la metempsicosi che stenderà le sue propaggini fino ai nostri giorni sotto l’egida delle “filosofie” new age.
Disprezza costoro perché lui stesso pratica la “magia”, facendo di mestiere l’illusionista, e sa bene quanto questa sia frutto di trucchi, artifici, tecnologie, tutti riconducibili alle scienze e alle tecniche positive – e alla capacità di distrarre e depistare gli spettatori.
D’altra parte, l’illusionista è evidentemente un uomo colto, un personaggio del suo tempo, di quell’epoca che insieme alla psicanalisi ha visto nascere la teoria della relatività di Albert Einstein, il positivismo logico del Circolo di Vienna, l’atomismo logico di Bertrand Russell, la filosofia della scienza di Ernst Mach (il maestro di Robert Musil, fra l’altro), la teoria elettromagnetica di Max Planck, teorie e ipotesi di cui Stanley sembra non essere a digiuno, finendo per incarnare, nella pellicola di Woody Allen, il luogo dove si combattono la forza emergente della scienza contemporanea – con tutti i suoi dubbi e le sue incertezze sulla possibilità di conoscere il reale – e i cascami dell’irrazionale moribondo – con, al contrario, tutte le sue certezze e “verità” sulla esistenza dell’irreale, del trascendente, del metafisico.
Battaglia che peraltro si combatte ancora – sebbene, forse, più nei salotti, ai party e nei week end fuori porta che nelle accademie e nelle istituzioni scientifiche e culturali.
Insomma, grazie a Sophie, Stanley e i loro comprimari, che ne fungono da catalizzatori, lo scenario dorato e soffice del Mediterraneo reso perfettamente nel film dalla fotografia di Darius Khondji si trasforma, attraverso il fluire dei dialoghi in cui Allen è maestro, nel terreno di scontro – una vera guerra totale – fra il moderno che avanza e la tradizione (seppur ridotta a vacua superstizione e fatua illusione) che cerca di resistere.
Una battaglia di retroguardia, quella dell’irrazionalismo, di fronte all’avanzare di una visione del mondo che investe la concezione dell’identità (grazie a Freud e Nietzsche), quella della realtà (grazie a Einstein, Planck e i loro compagni di strada), quella della conoscenza e del modo per descriverla (grazie a Russell, Mach, e non solo). E questo nonostante l’ergersi a difesa dell’irrazionalismo di giganti della cultura come l’allievo-avversario di Freud, quel Carl Gustav Jung che dopo essersi separato dal maestro fu attratto anche dal paranormale, dalle discipline orientali, dall’idea – ancora sostanzialista – di una possibile “energia psichica” e di un “inconscio collettivo” comune a tutta l’umanità, a dimostrazione di come ancora i confini fra irrazionalismo e razionalità fossero tuttavia incerti, porosi, laschi – come d’altra parte indirettamente fa capire Mendeleev che in apertura delle tre conferenze citate più sopra rilevava come la meteorologia scientifica soffrisse nel farsi strada negli anni in cui scriveva per lo stretto legame che il pensiero tradizionale istituiva fra i fenomeni naturali e la presenza del soprannaturale…
Alla fine, se proprio si vuole riconoscere alla metafisica una residua presenza nella nostra epoca – quella da cui Allen guarda nel film a un secolo fa – si può ricorrere al richiamo, in fondo metaforico, a forze come il Destino, il Caso, la Necessità, che evochiamo quando, riflettendo sulle vicende umane, cerchiamo di trovare spiegazioni agli eventi che ci coinvolgono (cfr. Giddens, 1999), non avendo a disposizione niente di meglio del senso comune, e non potendo affidarci alle teorie della causalità sviluppate dagli epistemologi, specie quando di mezzo ci si mette il più potente dei sentimenti, l’amore, come avviene a Stanley e Sophie: la ragione cede le armi, e si arrende all’irrazionale assoluto.
Verità cui invece prova a resistere il protagonista di Basta che funzioni (una pellicola di Woody Allen del 2009), Boris Yellnikoff (Larry David) in un acrimonioso, scostante, disilluso, misantropo e misogino fisico di mezza età un tempo candidato (ma solo candidato!) al Premio Nobel, rimasto solo dopo aver divorziato e tentato il suicidio, che cerca di gestire la sua vita da un lato cercando di insegnare a giocare a scacchi a un gruppo di ragazzini (che peraltro tratta malissimo) e dall’altro affannandosi ad applicare ossessivamente la razionalità scientifica alle vicende umane, quasi che possano essere spiegate – e governate – a partire dalla teoria dei quanti o da quelle della causalità… Poi succede che si ritrova ad ospitare una bella ragazza, Melodie St. Ann Celestine (Evan Rachel Wood), e la barriera protettiva che stava cercando di costruirsi intorno si frantuma di fronte a un evento molto semplice, che ribalta l’ordine “naturale” dell’immaginario: a differenza di quanto possa attendersi lo spettatore non è Boris a innamorarsi di Melodie, ma è la ragazza a innamorarsi di lui, dicendoglielo apertamente, prima gettandolo nel panico più totale, che si trasforma nella decisione di sposarla.
Il mondo che Yelnikoff si era creato per difendersi dalla realtà va insomma in pezzi, e va di nuovo in pezzi quando la ragazza si innamora di un suo coetaneo, glielo confessa e lo lascia, tanto che l’uomo ritenta il suicidio gettandosi dalla finestra del suo appartamento. Il caso (il destino? la necessità?, addirittura il karma?) vuole che Boris “atterri” su una donna che passa per strada, e fra loro nasce un amore fulmineo, tanto che decidono di sposarsi.
In pratica, qualunque sia la catena di cause ed effetti che si sviluppa volta per volta nelle vicende umane, se qualcosa deve accadere, si realizzerà, nonostante tutte le opposizioni e le resistenze. Ancora una volta, è destino? È necessità? È caso? Non è dato saperlo. L’importante è che si realizzi – quasi omeostaticamente, attraverso algoritmi forse calcolabili in un futuro possibile, ma per ora destinati a rimanere segreti, occulti, misteriosi – l’equilibrio fra le cose. Spiegazione che al fisico Yelnikoff può andare benissimo, per salvare la sua presunzione di scienziato: in fondo, “Basta che funzioni”!
Anche in questo film l’idea che conduce la storia è che l’amore arriva, e sfugge a tutte le regole, le previsioni, i calcoli e le opposizioni. Alla fine Stanley Crawford e Boris Yelnikoff sono simili: pretendono di farsi guidare dalle leggi della razionalità, ma la realtà non li accontenta, e gli impone le regole dei sentimenti e delle emozioni…
Ma questa, forse, è solo la cifra se si vuole “fenomenica” del discorso condotto da Allen, che al di sotto della superficie svagata e leggera, crediamo riveli dimensioni molto più articolate e profonde. Intanto, fra tutte e due le pellicole, l’emergere della potenza dirompente della grande cultura modernista del Novecento europeo, della sua filosofia, della sua scienza. E poi, la caparbia, tenace forza degli interrogativi di fondo che il XX secolo si è posto a proposito delle capacità e possibilità dell’Umano di governare gli eventi che lo investono, il proprio progetto di vita, e di quanto cause esterne, imprevedibili e ingestibili possano agevolare o frustrare le sue aspirazioni.
Un discorso, se si vuole, inaugurato da Woody Allen nel 2005 con Match Point, che ha come fulcro l’interrogativo su quanto conti la fortuna (ancora il riflesso attualizzato del trascendente, la dea Fortuna dei latini) nelle vicende umane, in una trama che appare come una fusione fra Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij e Le affinità elettive di Wolfgang Goethe a realizzare una parabola pessimista che – una volta tanto – fa pendere la bilancia della Fortuna – o gli algoritmi segreti del reale – dalla parte del male (cfr. Dostoevskij, 2005; Goethe, 2007).
Tutti luoghi, questi evocati dal regista americano, dove, nonostante tutto, la Ragione finisce per doversi arrendere, di fronte a forze ineffabili, ingovernabili. Fra tutte, la più potente rimane quella dell’innamoramento. Che non ha bisogno di trucchi da illusionista o da ciarlatano, e contro cui non possono nulla le istanze e gli strumenti della Ragione.
LETTURE
— Algernon Blackwood, John Silence e altri incubi, Utet, Torino, 2010.
— Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, Einaudi, Torino, 2005.
— Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, Einaudi, Torino, 2007.
— Dmitrij Mendeleev, Sullo spiritismo, Boringhieri, Torino, 1992.
— Anthony Giddens, Identità e società moderna, Ipermedium, Napoli, 1999.
VISIONI
— Woody Allen, Basta che funzioni, Warner Home Video, 2012 (home video).
— Woody Allen, Match Point, Warner Home Video, 2013 (home video).