ASCOLTI / ANTOLOGIA (Intervista a Franco D’Andrea)
di Perigeo / Sony / Bmg Italia, 2014
Gli italieni che suonavano jazz rock
di Claudio Bonomi
“Sogno di trovarmi in un posto non so dove – No, non vedo nel passato ma io credo nel futuro”. Sono i versi di Posto di non so dove, brano di Giovanni Tommaso che appare su Azimut, album di debutto dei Perigeo, uscito nel 1972. L’intro rumorista, il canto “effettato" di Tommaso che sembra provenire dalle viscere della Terra, il piano impressionista di Franco D’Andrea, il sax soprano di Claudio Fasoli che ricama una nenia ancestrale: sono questi i primi suoni magici, e allora decisamente avant, di un collettivo, un quintetto per la precisione che comprendeva anche Bruno Biriaco alla batteria e Tony Sidney alla chitarra, che ha fatto la storia del jazz in Italia. Diciamo jazz, perché quattro quinti del gruppo fondato a Roma da Tommaso nel 1971 era formato da jazzisti e, piaccia o no, perché la loro musica pur con una forte vocazione melodica assorbita dal rock e dalla musica popolare non prescindeva mai da frasi o stili mutuati dal jazz. Un’avventura durata solo sei anni, l’epilogo avviene a Pescara, nell’estate 1976, con un concerto davanti allo stesso pubblico che pochi anni prima li aveva tenuti a battesimo. Un periodo però vissuto alla grande, dove si concentrano non solo le gesta eroiche del collettivo romano che sarà anche protagonista di un'intensa attività live in Italia e all’estero, ma anche di quelle, forse un po' meno eroiche, della miglior generazione della fusion italiana con Agorà, Dedalus, Esagono, Capricorno, Napoli Centrale e molti altri. In quegli anni si consumano storie ed esperienze irripetibili che riusciranno a dare dignità e agibilità musicale a un genere inedito, il jazz rock tricolore. Un genere che calamitò musicisti e compositori che contribuirono a dare una bella sveglia all’allora incolore scena jazzistica italiana che, tranne qualche luminosa eccezione, viaggiava completamente a rimorchio di esperienze americane.
Ora la bella storia del Perigeo è raccontata tutta, o quasi, in un cofanetto, battezzato giustamente Antologia, che raccoglie i cinque album ufficiali del gruppo romano (Azimut, Abbiamo tutti un blues da piangere, Genealogia, La valle dei templi, Non è poi così lontano), il Live at Montreaux, il Live in Italy 1976 (doppio cd da tempo introvabile) e un dvd con contributi video inediti da reunion post anni Settanta. Non mancano delle vere e proprie chicche come la bonus track contenuta in Genealogia, una registrazione live di Via Beato Angelico risalente al 1975 e mai pubblicata su cd, o l’ottimo libretto scritto da Marco Giorgi che contiene, oltre a foto suggestive, una bella intervista a Tommaso, fondatore, portavoce e “non leader” del gruppo. Abbiamo raccolto la testimonianza di un altro “non leader” del Perigeo, il pianista e compositore Franco D’Andrea.
Quale era l’atmosfera che si respirava all’inizio della vostra avventura nel 1971?
C’era un clima dove veramente poteva succedere di tutto. Anche a Roma, dove è nato il Perigeo, si respirava un senso di libertà e di energia fuori dal comune. Capitava di andare a sentire del jazz in un club della capitale e vedere sul palco un gruppo di Dixieland e subito dopo una band che suonava del free. Degli anni favolosi, dove non c’erano barriere, ma una continua mescolanza di generi e di esperienze.
Sì però, allora, la critica ufficiale non sembrò gradire molto questi incroci e anche il Perigeo fu quasi messo all’indice per aver osato battere una strada poco ortodossa.
Era un periodo in cui venivano affondati tutti. Mi ricordo le polemiche sull’utilizzo dell’elettronica. Ma come tutte le cose ci possono essere esperienze in cui l’elettronica dona freschezza a una composizione, altre in cui non ha senso. A dir la verità non badavamo molto a tali critiche, a noi interessava soprattutto sperimentare. Devo aggiungere che le contese tra tradizionalisti e modernisti ci sono sempre state. Negli anni Sessanta, a Merano, dove ho cominciato la mia carriera professionale mi ricordo di infinite discussioni sull’argomento. Per poi magari scoprire incroci o mescolanze davvero curiosi. Steve Lacy, ad esempio, ha mosso i suoi primi passi come clarinettista in una band di jazz tradizionale. Lo stesso Roswell Rudd, trombonista americano dichiaratamente d’avanguardia, che ho invitato recentemente a Merano per un workshop si è quasi commosso ascoltando una band amatoriale di Dixieland.
Cosa ti ha spinto, musicalmente parlando, a entrare nei Perigeo?
Giovanni Tommaso, il fondatore del gruppo, fu allora molto convincente. Lui aveva le idee molto chiare su dove andare. Allora ascoltava non solo jazz, ma anche generi diversi come il rock o il progressive. In particolare, la scuola inglese: ad esempio i gruppi di Keith Tippett e i King Crimson. Per quanto mi riguarda, la svolta fu data dall’ascolto di Live at the Fillmore East e Live Evil di Miles Davis. Capii che si poteva classificare qualsiasi ritmo, funky o rock compresi, e che l’energia che sprizzava da quelle registrazioni era degna di essere presa in considerazione molto seriamente.
I più maligni hanno sempre accusato i jazzisti impegnati ad addentrarsi nei ritmi e nelle sonorità rock come alla ricerca di una scorciatoia per fare soldi e uscire dall’anonimato.
Mi viene da ridere. Quella dei soldi è una storia incredibile. Nei cinque anni di attività del gruppo, di guadagni se ne sono visti ben pochi. E anche quando abbiamo cominciato un po’ a decollare, in particolare dopo la registrazione del nostro secondo disco Abbiamo tutti un blues da piangere, non ci fu un grande cambiamento dal punto di vista economico. Mi ricordo solo cinque anni divertenti, creativi ma anche molto impegnativi soprattutto sul fronte live.
Avevate qualche rapporto con altri gruppi italiani che avevano intrapreso più o meno la vostra strada musicale?
Come dicevo, a un certo punto della nostra evoluzione l’attività concertistica divenne così intensa che non avevamo veramente tempo di fare altro. Neanche mangiare. Mi ricordo che avevamo coniato il termine “toast Perigeo” per indicare lo snack che dovevamo frettolosamente ingurgitare prima di un concerto. Solo una volta ci fu una specie di “scambio”. E avvenne con gli Area. Eravamo diretti in Emilia per un concerto e perdemmo di vista il nostro impianto che era rimasto fermo su un furgone in panne. Non sapevano cosa fare: casualmente incontrammo in un paesino sperduto della Pianura Padana gli Area che si stavano riposando dopo alcuni concerti. Ebbene, dimostrando grande generosità, ci prestarono il loro impianto audio e così potemmo fare il nostro concerto e rispettare gli impegni. Con gli Area in particolare c’era un sentimento di reciproco rispetto e ammirazione. Che questo episodio ovviamente rafforzò.
E con i colleghi stranieri il rapporto era diverso?
Tutt’altro. Qui posso fare diversi esempi. Nel 1976 facemmo un tour come supporter con i Soft Machine e si instaurò subito un clima naturale di solidarietà e fratellanza con loro. Un rapporto senza complessi di superiorità o inferiorità da parte di nessuno. Come musicisti di matrice jazzistica eravamo particolarmente impressionati dalla bravura di artisti come il batterista John Marshall e il bassista Roy Babbington. Meno impressione ci fece invece Karl Jenkins, che suonava tastiere e oboe. Lo stesso feeling s’instaurò con Keith Tippett. Eravamo insieme e lui suonava in duo con un bassista tedesco, Peter Kowald. Facevano una musica pazzesca, improvvisavano senza respiro. Eravamo rapiti da tutta quella energia. Finito il concerto poi si condivideva quasi tutto. E Tippett era un tipo molto scherzoso che si divertiva a parlare in inglese ai casellanti dell’autostrada.
Siete stati in tour anche con i Weather Report. C’era lo stesso clima anche con loro?
Il primo approccio con i Weather Report fu questo: un giorno si presenta Joe Zawinul e ci dice in modo perentorio: “Noi siamo la miglior band del mondo”. Capimmo subito che i rapporti non sarebbero stati facili. E, difatti, durante tutto il tour che facemmo insieme nel 1975, noi ovviamente in veste di supporter, ognuno tenne le distanze. Anzi, casualmente, assistemmo in aereo a un litigio tra Zawinul e il suo manager: il tastierista gli contestava in pratica la scelta del Perigeo come gruppo supporter. Dei supporter un po’ troppo ingombranti.
A quale dei cinque album del Perigeo ti senti più legato?
La realizzazione del box Antologia è stata l’occasione per andarmi a risentire tutti i nostri album e devo dire che mi piacciono tutti. Ognuno ha dentro qualcosa, un’invenzione, un sound particolare. Ovviamente, oggi, io tiro dritto per la mia strada e ho, artisticamente parlando, fatto da tempo delle scelte diverse ma non rinnego nulla di quegli anni. Cinque anni che hanno influito sulla mia carriera, hanno aggiunto colori e nuovi modi di vedere. E, dunque, quando Giovanni mi ha contattato lo scorso anno per presentarmi il progetto della retrospettiva ho aderito con entusiasmo. Dovevo esserci, non potevo mancare. Un po’ come è successo, qualche anno fa, con la ristampa dell’album del Modern Art Trio con Franco Tonani e Bruno Tommaso.
Avrai però una tua personale classifica?
Il Perigeo era un gruppo che funzionava meglio dal vivo. Il sound era meno compresso e c’era maggior libertà sia di improvvisare, sia di creare veri e propri intermezzi tra i vari brani in scaletta. Mi piacciono molto il Live at Montreaux e il Live in Italy 1976, entrambi parte del cofanetto. In particolare, il brano Il Festival contenuto nel live in Italia mette bene in evidenza la capacità del collettivo di improvvisare e di sviluppare un’energia straordinaria. Oggi, sarebbe impossibile avvicinarsi anche solo lontanamente ai livelli di tensione creativa di una performance di allora.
E gli album in studio?
Genealogia è forse quello più riuscito, più compatto. Azimut, il primo, è certamente degno di essere ricordato per la sua carica rivoluzionaria. E poi rivaluterei Non è poi così lontano, ritenuto dalla critica il più debole dei cinque e quello più commerciale. Invece Giovanni lo considera giustamente l’album più completo dei Perigeo, quello con il sound più strategico e maturo per il mercato di allora.
È possibile che dopo la pubblicazione di Antologia sia rimasto ancora qualcosa nei cassetti che merita di essere pubblicato?
Non molto. Ne abbiamo parlato a lungo con Luciano Rebeggiani, direttore Classica e Jazz di Sony Italia, artefice insieme a Giovanni del box antologico. Una persona squisita che si è comportata da vero gentleman, caso più unico che raro nel mondo dell’industria discografica. Si è anche rivelato un vero e proprio fan del gruppo e ha agevolato in tutti i modi la realizzazione della retrospettiva. Detto questo, ci sarebbero le registrazioni di un concerto che facemmo nel 1976 a Uscio, nell’entroterra ligure. Fu una performance magica: tutto funzionò a meraviglia, senza nessuna sbavatura o sfumatura in più. Eseguimmo Acoustic Image, brano tratto da Non è poi così lontano, e ognuno di noi eseguì la propria parte in maniera perfetta. Quando ci ripenso mi vengono in mente le cose che Albert Ayler faceva negli anni Sessanta con il fratello Donald: marcette militari suonate impeccabilmente, frutto di un’alchimia speciale e impossibili da replicare.
Potresti tornare a suonare il Fender Rhodes?
Penso proprio di no. E poi sarebbe impossibile riprodurre quel caldo suono analogico con le tastiere che ci sono oggi in circolazione. Nel 1971, acquistai uno dei primi modelli di Fender Rhodes e da allora in un certo senso cominciarono le mie pene. Il suono naturale del Fender è dolce, troppo dolce. Io cercavo, invece, di creare un suono più “sporco” e aggressivo. Per fortuna mi aiutò un mio amico ingegnere che mi costruiva delle “scatolette” analogiche che applicavo al Fender e che servivano a creare effetti che irrobustivano il sound. Mi ricordo una trentina di operazioni di questo tipo per arrivare ai colori timbrici desiderati, agendo anche internamente sui martelletti e i cilindrati metallici. Per non parlare del problema del “soffio”, tipico di quel tipo di tastiere. L’assetto giusto lo raggiunsi solo dopo la registrazione del secondo album, Abbiamo tutti un blues da piangere. Fu, davvero, una bella impresa.