LETTURE / ROBERT OPPENHEIMER. L’UOMO CHE INVENTÒ LA BOMBA ATOMICA
di Ray Monk / Bompiani, Milano, 2014 / pp. 1.212
Quando la scienza conobbe il peccato
di Roberto Paura
Nel novembre del 1947 al MIT di Boston, in una delle sue tante conferenze pubbliche che tenne dopo essere diventato lo scienziato più famoso del mondo – con la dovuta eccezione per Albert Einstein – J. Robert Oppenheimer pronunciò una frase divenuta famosa: “In un senso crudo che non potrebbe essere cancellato da nessuna accezione volgare o umoristica, i fisici hanno conosciuto il peccato”. Per un pubblico attento a cogliere qualsiasi potenziale riferimento a un pentimento che Oppenheimer volesse esprimere per i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, perpetrati con le bombe sviluppate a Los Alamos sotto la sua direzione, quelle parole dicevano tutto.
Ma Oppenheimer non le pronunciò con grande attenzione, essendo quello solo un piccolo accenno al progetto Manhattan in una ben più ampia prolusione dedicata a riepilogare le grandi conquiste della fisica delle particelle – o fisica atomica – negli ultimi decenni. La frase divenne famosa, ma poco prima di morire lo scienziato volle precisarne il contenuto: il peccato non era stato quello dell’omicidio di massa, ma dell’orgoglio provato dai fisici nella costruzione della bomba. È solo uno dei passaggi su cui getta luce nuova Ray Monk nella sua monumentale biografia Inside the Centre, pubblicata ora in Italia da Bompiani con il ben più prosaico titolo Robert Oppenheimer. L’uomo che inventò la bomba atomica; ma dimostra l’importanza di quest’opera nel riconsegnare il personaggio di Oppenheimer alla verità storica. Nella prefazione alla sua opera, Monk spiega il perché del suo bisogno di dedicare una nuova biografia a Oppenheimer, dopo le tantissime già pubblicate, alcune delle quali anche in Italia: tra tutte, quella del famoso fisico e biografo dei fisici Abraham Pais, pubblicata postuma dopo essere stata completata da R.P. Crease, Oppenheimer. Dalla bomba atomica alla guerra fredda: la tragedia di uno scienziato (2007) e quella di Kai Bird e Martin Sherwin, Robert Oppenheimer, Il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato (2007), insignita del Pulitzer. Quest’ultima biografia si concentra infatti, ben più delle altre, sull’Oppenheimer scienziato. Chi cercherà tra queste pagine aspetti più privati sulla vita personale del padre della bomba atomica, resterà probabilmente deluso. L’obiettivo di Monk è quello di rimettere Oppenheimer al centro di un più ampio contesto al quale egli appartenne: quello dell’alta borghesia ebraica americana negli anni della sua giovinezza; quello della fisica europea di frontiera negli anni della sua formazione; quello degli scienziati atomici di Los Alamos negli anni della bomba; quello ovattato dell’Institute for Advanced Study di Princeton, di cui Oppenheimer fu il più duraturo dei direttori, dal 1947 al 1966. Un uomo, insomma, che nella sua complessa personalità, ricca di mille brillanti sfaccettature, come la definì il collega Isidor Rabi, fu sempre il risultato, il prodotto di un contesto più ampio del quale fece parte.
Tuttavia, proprio perché indulge meno nel dettaglio psicologico e dedica assai meno spazio delle altre biografie al famoso “processo” disciplinare che portò al ritiro del nullaosta sulla sicurezza a Oppenheimer per i suoi sospetti di complicità con l’Unione sovietica, l’opera di Ray Monk permette di gettare uno sguardo più obiettivo a una figura estremamente complessa, quasi mitologica. In quanto “padre” della bomba atomica, J. Robert Oppenheimer ha da sempre goduto di una fama particolare: non limpida e autorevole come quella di personaggi del calibro di Einstein, fisici teorici tout court, ma inevitabilmente incrinata dal ruolo avuto nel far conoscere ai fisici il “peccato”, macchiata dal sangue delle centinaia di migliaia di persone uccise dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki e oscurata dalle sue tante manchevolezze. Il suo ex amico e poi nemico Haakon Chevalier, la cui reputazione fu rovinata dalle mezze verità che Oppenheimer fece trapelare sul suo conto all’FBI riguardo il ruolo avuto nello spionaggio sovietico del programma atomico, pubblicò un libro che Monk ritiene aver avuto assai poco successo, ma che è ancora ristampato (anche in Italia) e che attribuisce a Oppenheimer un titolo eloquente: L’uomo che volle essere Dio (2013). In qualche misura, l’accusa coglie nel segno. Oppenheimer ebbe sempre di sé una grandissima, enorme considerazione. Non volle giocare a essere Dio – accusa che spesso gli scienziati si sentono rimproverare da coloro che ne temono le incursioni nei “segreti del Creato” – ma senza dubbio qualche brivido lo provò assistendo all’esplosione della prima bomba atomica durante il Trinity Test, momento in cui pronunciò quella famosissima frase “ora sono diventato Morte, distruttore di mondi”, tratta (alquanto liberamente, nota Monk) dal poema Bhagavadgita. Il fascino di Oppenheimer per il grande pubblico e per i suoi biografi consiste non tanto nel suo voler essere Dio, quanto nel suo essere stato tragicamente umano nei suoi difetti. Se fu anche a causa sua che i fisici “hanno conosciuto il peccato”, Oppenheimer sembra più simile ad Adamo che coglie la mela dal giardino dell’Eden e condanna l’umanità al dolore e alla sofferenza.
La tradizione ci ha sempre riportato una dicotomia molto marcata tra Robert Oppenheimer e Edward Teller, quest’ultimo padre della “bomba H”, la bomba a idrogeno, più nota all’epoca come “Super” perché enormemente più potente della bomba atomica. Secondo questa tradizione, Oppenheimer rappresenta lo scienziato che, dopo Hiroshima, prende le distanze dal programma atomico, mentre Teller orgogliosamente insiste nel proseguire le ricerche sulla bomba H, finendo per considerare il collega Oppenheimer come un nemico nella sua corsa alla bomba più grossa. Senza dubbio, all’indomani del successo del progetto della “Super”, testimoniato dal test Mike e poi da quello, assai più distruttivo, di Bikini, i giornali trionfalisticamente descrissero Teller come un eroe e coloro che si erano opposti al programma, come Oppenheimer, caddero in disgrazia. Da quel braccio di ferro che Oppenheimer perse si sviluppò poi la decisione di avviare un procedimento per ritirare al padre della bomba atomica il nullaosta per la sicurezza, dal momento che molti, tra cui soprattutto il politico e magnate Lewis Strauss, membro della Commissione per l’Energia Atomica, si erano convinti che Oppenheimer fosse una spia al soldo dell’Urss e che il suo impegno per bloccare il programma sulla bomba H dipendesse da ordini impartiti da Mosca. Quando poi l’amministrazione Kennedy riabilitò Oppenheimer attraverso il conferimento del prestigioso Premio Fermi (la Casa Bianca annunciò la notizia il 22 novembre 1963, il giorno prima dell’omicidio di Kennedy), il gioco delle parti s’invertì: Strauss cadde in disgrazia – la sua nomina a ministro del commercio fu bocciata dal Congresso – e Teller divenne il “cattivo” della storia, laddove Oppenheimer, ingiustamente perseguitato dal maccartismo, era in realtà il “buono” (una recente e molto dettagliata biografia di Teller, pubblicata anche in Italia, s’intitola non a caso Il vero dottor Stranamore).
Ma che le cose non stiano proprio così lo rivela tra le righe la biografia di Monk. Se nel 1946 Oppenheimer appariva tormentato dai rimorsi, al punto da riferire, in un drammatico colloquio con il presidente Truman, di sentirsi le mani macchiate di sangue, l’Oppenheimer degli ultimi anni appare un uomo privo di sensi di colpa, convinto del buon lavoro fatto a Los Alamos e dell’inevitabilità delle bombe su Hiroshima e Nagasaki. Lo testimonia, più di ogni altra cosa, una lettera inviata nel 1964 da Oppenheimer a Heinar Kipphardt, commediografo tedesco autore di un testo teatrale molto fortunato, Sul caso J. Robert Oppenheimer (1964), che ricostruiva le audizioni dell’indagine che portò lo scienziato a essere escluso dai segreti atomici americani. Alla fine di quel testo Kipphardt faceva recitare a Oppenheimer un soliloquio drammatico nel quale egli esprime il suo pentimento per il lavoro di Los Alamos, che si concludeva con una famosa frase: “Non lavorerò mai più per progetti di guerra. Abbiamo fatto il lavoro del Demonio”. Frase che Oppenheimer ovviamente non disse mai, sebbene qualcuno l’abbia presa per vera, al punto da essere stata citata da Enzo Biagi nel suo libro Testimone del tempo (1980) e riportata sulla pagina italiana di Wikipedia come citazione attribuita proprio a Oppenheimer.
Lo scienziato, invece, “rimase inorridito” dalla lettura del testo, come rivela Monk, e tra le altre cose nella lettera a Kipphardt scrisse: “Ancora questo settembre, a Ginevra, durante una conferenza dei Rencontres de Genève, mi è stato chiesto dal canonico Van Kamp se ora, sapendo i risultati, avrei di nuovo fatto ciò che ho fatto durante la guerra: partecipare in modo responsabile alla creazione delle armi nucleari. A ciò io ho risposto sì. Quando una voce tra il pubblico mi ha chiesto con rabbia: «Anche dopo Hiroshima?», io ho ripetuto sì” (Monk, 2014). Ancora, in un’intervista alla Cbs nell’estate 1965, poco prima di morire, Oppenheimer ritornò sulla famosa frase sul “peccato” degli scienziati atomici e ne precisò il significato: “… [N]on intendevo che le morti che avevamo causato fossero il risultato del nostro lavoro. Intendevo dire che avevamo conosciuto il peccato d’orgoglio. Ci eravamo messi in condizione di influenzare, in un modo che si dimostrò straordinario, il corso della storia dell’uomo. Avevamo la presunzione di sapere che cosa andasse bene per l’uomo, e credo davvero che ciò abbia lasciato un segno su molti di coloro che vi furono impegnati responsabilmente” (ibidem).
È anche sbagliato sostenere, come è stato spesso fatto, che da parte di Oppenheimer ci fosse stata una costante opposizione al progetto della bomba H, portato avanti da Teller dopo il 1945, e che quest’opposizione derivasse da uno scrupolo di coscienza da parte di Oppenheimer. Nel suo classico Gli apprendisti stregoni (1958), Robert Jungk ricostruisce un incontro a Princeton nel 1951, nel quale Edward Teller, Hans Bethe, Enrico Fermi e Robert Oppenheimer discussero delle problematiche tecniche legate alla superbomba. In quell’occasione emerse un’importante soluzione che avrebbe accelerato il programma: “Erano finite le frecciate, per la prima volta c’era un vero entusiasmo per il programma”, racconta nel libro Jungk attraverso la testimonianza di Gordon Dean, presidente della Commissione per l’Energia Atomica, presente all’incontro. “Le discussioni si conclusero soddisfacentemente, e potevamo approntare il gadget [l’ordigno] in appena un anno… [Oppenheimer] presiedette l’incontro, intervenendo attivamente, e andò via entusiasta. Ricordo che dopo parlai con lui e che era – potrei dire – quasi allegro perché avevamo qualcosa che, a quanto pareva, avrebbe funzionato…” (Jungk, 1958).
Lo stesso senso di soddisfazione, se non addirittura di trionfo, Oppenheimer lo aveva dimostrato in due occasioni: la prima, ritornando a Los Alamos dopo il Trinity Test: “Quando, tornato al campo base, Rabi scorse Oppenheimer che tornava dalla trincea su una jeep insieme a Farrell, non aveva l’aspetto di uno con la mente volta alle scritture indù, ma di un uomo in preda a uno sconcertante trionfalismo: «Non dimenticherò mai la sua camminata; non dimenticherò mai il modo in cui scese dalla macchina… il passo era da Mezzogiorno di fuoco… e quel suo incedere. Ce l’aveva fatta»” (Monk, 2014). La seconda volta fu la sera del bombardamento di Hiroshima, il 6 agosto 1945. Lungi dall’essere schiantato dalla notizia, Oppenheimer festeggiò con i suoi colleghi facendo “un ingresso trionfale, venne avanti dal fondo della sala fino al palcoscenico e, una volta arrivato, allacciò le mani sopra la testa come un pugile che aveva vinto l’incontro” (ibidem).
Il perché della soddisfazione che, nonostante tutti i drammatici aspetti morali, la maggior parte degli scienziati atomici provò in quegli anni, ha sicuramente a che fare con il peccato d’orgoglio di cui parlava Oppenheimer, includendo anche lui nel novero dei peccatori. Alla luce della biografia di Monk, lo scontro Teller-Oppenheimer sulla bomba H appare molto meno un conflitto tra diverse opinioni sul ruolo degli scienziati nella politica e nella guerra, e assai più una contesa personale tra chi dei due doveva primeggiare.
Oppenheimer, che dopo Los Alamos non avrebbe più dato alcun contributo rilevante all’avanzamento della fisica, era consapevole che, nello sviluppo della “Super”, sarebbe rimasto indietro rispetto a Teller; e non poteva accettare, lui che aveva diretto il progetto Manhattan ed era diventato in poco tempo lo scienziato più acclamato d’America, di essere secondo a qualcuno. Il modo con cui reagì a questa consapevolezza fu di tentare di bloccare quel programma, non certo perché voleva favorire l’Unione sovietica, ma perché voleva favorire il suo ego e la sua carriera. Analogamente, nell’insistenza e nella maniacalità di Teller per lo sviluppo della “Super” non c’era tanto la paura del “pericolo rosso”, come lo scienziato a più riprese paventava nei suoi discorsi ai colleghi e ai politici, quanto il desiderio di vedere realizzato il suo sogno. Non si deve dimenticare infatti, e in questo il libro di Ray Monk è magistrale, che Oppenheimer e i suoi colleghi furono innanzitutto scienziati, e che per loro la realizzazione della bomba atomica altro non rappresentava che un problema da risolvere, una dimostrazione pratica delle loro teorie. Se si poteva realizzare, andava realizzata.
In questo senso, al lettore di oggi apparirà sconcertante, più di ogni altra cosa nella biografia di Monk, il racconto della scoperta della reazione a catena della fissione dell’uranio alla fine degli anni Trenta. Subito, nella mente di quegli uomini, prende corpo l’immagine di una bomba. L’idea di uno sfruttamento civile dell’energia atomica arriverà più tardi. Ma proprio perché la loro storia va letta alla luce della più grande Storia all’interno del quale essi operavano, non bisogna dimenticare che, in quegli anni di tensioni, in quei mesi che precedettero e subito seguirono l’invasione della Polonia da parte della Germania nazista, la guerra dominava la mente di chiunque, anche dei più astratti scienziati atomici. Fu allora senza alcun dubbio un miracolo se, come scrisse Leonardo Sciascia nel suo La scomparsa di Majorana (1975), una strana “cecità” non portò né gli scienziati atomici italiani – se non quelli emigrati in America, come Fermi – né quelli tedeschi rimasti in Germania, come il grande Werner Heisenberg, a rendersi conto della possibilità della fissione e delle sue conseguenze pratiche.
Sulla storia di Oppenheimer, della bomba atomica e del suo utilizzo resta impossibile esprimere quindi un giudizio definitivo. L’ambivalenza dei pareri – fu necessaria, salvò il mondo dal nazismo, dal comunismo, gettò il mondo nel terrore, fu un’inutile crudeltà, dimostrò la volontà di potenza dell’imperialismo americano – è tale che le parole migliori al riguardo, ancora una volta, le ha dette Oppenheimer. Ad accorgersene, però, non è stato Ray Monk, ma il regista britannico Peter Greenaway nella sua installazione multimediale Atomic Bombs on the Planet Earth (2011): Greenaway mette in scena il rumore e lo spettacolo spaventoso delle esplosioni atomiche (ce ne sono state ben 2201 dal 1945 a oggi, contando tutti i test nucleari realizzati da allora) montandolo insieme a un’unica frase, ripetuta come un mantra da uno ieratico J. Robert Oppenheimer ripreso durante un’intervista in cui ricorda cosa provarono i suoi colleghi davanti al successo del Trinity Test: “Some laughed, some cried, most remained silent”. Ossia: “Alcuni risero, alcuni piansero, la maggior parte rimase in silenzio”.
LETTURE
— Enzo Biagi, Testimone del tempo, Rizzoli, Milano, 1980.
— Kai Bird e Martin Sherwin, Robert Oppenheimer, Il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato, Garzanti, Milano, 2007.
— Haakon Chevalier, L’uomo che volle essere Dio. J. Robert Oppenheimer, lo scienziato della bomba atomica, Edizioni Pgreco, Milano, 2013.
— Peter Goodchild, Il vero dottor Stranamore. Edward Teller e la guerra nucleare, Raffaello Cortina, Milano, 2009.
— Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni, Einaudi, Torino, 1958.
— Heinar Kipphardt, Sul caso J. Robert Oppenheimer, Einaudi, Torino, 1964.
— Abraham Pais, Oppenheimer. Dalla bomba atomica alla guerra fredda: la tragedia di uno scienziato, Mondadori, Milano, 2007.
— Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana, Adelphi, Milano, 1975.
VISIONI
— Peter Greenaway, Atomic Bombs on the Planet Earth, Change Performing Arts, 2011.