Quand’è che il futuro è sparito? Che cosa c’è dietro l’ossessione contemporanea per le forme e gli stili del passato? Ce lo racconta Mark Fisher nelle pagine che seguono, in cui vi presentiamo, in una nostra traduzione inedita, un lungo estratto dal primo capitolo di Ghosts of My Life. Partendo dalla serie tv Sapphire and Steel (vedi Mappe 01 in questo numero), passando per Bifo, Jameson e Derrida, in volata su The Caretaker e Sly Stone, giù in picchiata su Amy Winehouse e gli Arctic Monkeys, e ancora oltre, in questa prima sezione l’autore presenta temi e motivi che attraversano per intero il volume, in una spettrografia della società contemporanea inglese – molto inglese – ma inevitabilmente globale. Accompagna questa traduzione una nostra selezione di immagini dal lavoro di Laura Oldfield Ford, l’artista britannica le cui illustrazioni dedicate alle rovine e ai fantasmi dei centri urbani contemporanei aprono ognuna delle macro-sezioni di cui si compone Ghosts of My Life, ovvero Lost Futures, The Return of the 70s, Hauntology e The Stain of Place.
LA LENTA CANCELLAZIONE DEL FUTURO
(traduzione
di Beatrice Ferrara)
La tesi di questo libro è che la cultura del XXI
secolo sia caratterizzata dallo stesso anacronismo e dalla stessa
inerzia esperiti da Sapphire e Steel nella loro avventura finale.
Questa stasi è stata però seppellita, interrata,
sotto la frenesia superficiale del ‘nuovo’, del
movimento perpetuo. Il ‘rimescolamento del tempo’,
cioè il montaggio di ere precedenti, non è
più degno di nota: è diventato così
comune da passare inosservato.
Nel suo libro Dopo il
futuro (2013, ndr), Franco Berardi
(Bifo) riflette su quella che egli chiama “la lenta
cancellazione del futuro”. Come lui stesso spiega,
Quando dico ‘futuro’ non mi riferisco ad una delle direzioni possibili del tempo, ma ad una modalità psicologica, emersa dall’alveo culturale della modernità – la lunga epoca che credeva nella proiezione progressiva del futuro e le cui aspettative culturali raggiunsero il proprio picco massimo durante il secondo dopoguerra. Queste aspettative si erano formate all’interno di una cornice concettuale in cui il futuro faceva tutt’uno con lo sviluppo progressivo – una cornice concettuale che poteva però assumere aspetti diversi a seconda delle differenti metodologie: la mitologia Hegelo-Marxiana dell’Aufhebung e della rifondazione della storia con l’avvento della nuova totalità portata dal Comunismo; la mitologia borghese dello sviluppo lineare del welfare e della democrazia; la mitologia tecnocratica del potere onnipotente della conoscenza scientifica; e così via. La mia generazione è cresciuta proprio durante la fase clou di questa concezione mitologica del tempo ed è molto difficile ora (se non proprio impossibile) per quelli della mia generazione sbarazzarsene e guardare alla realtà senza il filtro di una simile nozione della temporalità. Non sarò mai in grado di vivere in conformità alla nuova realtà – per quanto evidente questa possa essere nelle sue accecanti manifestazioni planetarie.
(La traduzione di questo passaggio, assente dall’edizione italiana, è nostra – ndr).
Bifo
è più grande di me di una generazione e nondimeno
la percezione di questa spaccatura temporale ci accomuna. Nemmeno io,
infatti, potrò mai adattarmi ai paradossi di questa nuova
situazione. Di primo acchito si potrebbe essere tentati di riportare
ciò che sto dicendo alla vecchia storia, ormai trita e
ritrita, dei vecchi che non riescono a scendere a patti con il nuovo,
convinti come sono che si stava meglio ai loro tempi. Eppure
è esattamente questo quadretto – in cui ai giovani
è automaticamente assegnato il ruolo di avanguardia del
cambiamento culturale – ad essere diventato fuori
moda.
Infatti, piuttosto che immaginarci dei vecchi
che indietreggiano di fronte al ‘nuovo’ per paura e
perché incapaci di afferrarne il significato, dobbiamo
immaginarci persone le cui aspettative si siano formate in
un’epoca precedente e che si trovino oggi spiazzate dalla
ostinata persistenza di forme ormai ben riconoscibili. Questo
è particolarmente evidente nell’ambito della
musica pop e della cultura più generale ad essa collegata.
È stato proprio attraverso i cambiamenti nella musica pop
che molti di quelli che, come me, sono cresciuti negli anni Sessanta,
Settanta e Ottanta, hanno imparato a misurare lo scorrere del tempo
culturale. Ascoltando però la musica del XXI secolo, diventa
impossibile non percepire che è proprio il senso stesso
dello shock del futuro ad essere sparito. Lo si può
verificare con un semplice esperimento mentale. Immaginiamoci che un
disco qualunque fra quelli usciti negli ultimi due anni sia rispedito
indietro nel tempo – diciamo, per esempio, nel 1995
– e trasmesso in radio. Risulta difficile immaginare che
possa suscitare alcun sussulto di stupore negli ascoltatori. Al
contrario, quello che assai probabilmente scioccherebbe il nostro
pubblico del 1995 sarebbe proprio la riconoscibilità
immediata dei suoni: ‘è mai possibile’
– si chiederebbero questi ascoltatori del passato –
‘che in diciassette anni la musica sia cambiata
così poco?’ Ora confrontiamo questa situazione con
quella degli anni Sessanta e Novanta, in cui gli stili musicali si sono
avvicendati con grande rapidità. Immaginiamo di far
ascoltare un disco jungle del 1993 a qualcuno nel 1989: a questo
ascoltatore, il disco sembrerebbe qualcosa di talmente nuovo da
spingerlo a chiedersi cosa davvero sia la musica e cosa questa possa
ancora diventare. Mentre la cultura sperimentale del XX secolo era in
preda a un delirio ricombinante, che dava la sensazione che il bacino
del ‘nuovo’ fosse infinitamente inesauribile, il
XXI secolo è oppresso da una schiacciante impressione di
finitudine ed esaurimento delle risorse. Non dà, insomma, la
sensazione di essere ‘il futuro’ – o, per
dirla diversamente, la sensazione è che il XXI secolo non
sia mai nemmeno cominciato: restiamo intrappolati nel XX secolo,
proprio come Sapphire e Steel restavano intrappolati in quel
caffè lungo la strada.
La
lenta cancellazione del futuro è stata accompagnata da una
deflazione delle aspettative. Quasi nessuno potrebbe ritenere
probabile, ad esempio, che nel corso dell’anno prossimo possa
uscire un disco straordinario quanto lo erano – per esempio
– Funhouse degli Stooges (1970, ndr)
o There’s a Riot Goin’ On di
Sly Stone (1971, ndr). E ancor meno ci aspettiamo
che possa aver luogo di nuovo, oggi, una frattura epocale come quella
portata dai Beatles o dalla disco music. La sensazione di essere in
perenne ritardo, di vivere dopo la corsa all’oro,
è tanto onnipresente quanto disconosciuta. Provate a
confrontare la landa brulla del presente con la fecondità
dei periodi precedenti e immediatamente vi si accuserà di
‘nostalgia’. Più precisamente,
però, la fiducia che gli artisti del momento ripongono negli
stili del passato suggerisce che il presente è stretto nella
morsa di una nostalgia formale – di cui a
breve dirò di più.
Non si
può certo dire che non sia accaduto nulla da quando la lenta
cancellazione del futuro ha avuto inizio. Al contrario, questi ultimi
trent’anni sono stati anni di cambiamento profondo e
traumatico. Nel Regno Unito, l’elezione di Margaret Thatcher
metteva fine ai deboli compromessi del cosiddetto consenso sociale
post-bellico. Il programma politico neo-liberale della Thatcher veniva
consolidato da una ristrutturazione transnazionale
dell’economia capitalistica. Il passaggio al cosiddetto
post-Fordismo – cioè ad una fase segnata dalla
globalizzazione, dalla computerizzazione e dalla precarizzazione del
lavoro – portava così, in quel periodo, ad una
completa trasformazione dei rapporti fra lavoro e tempo libero. Negli
ultimi dieci, quindici anni, poi, internet e le tecnologie della
telecomunicazione hanno stravolto totalmente la struttura stessa
dell’esperienza quotidiana. Ma ciò nonostante
– anzi, forse, proprio per questo
– è sempre più forte la sensazione che
la cultura abbia perso la propria capacità di afferrare e
articolare il presente. Oppure può anche darsi che,
significativamente, non ci sia più alcun presente da
afferrare e articolare.
Prendiamo ad esempio il concetto di
musica ‘futuristica’.
‘Futuristico’ in musica ha smesso ormai da tempo di
rimandare ad una dimensione del futuro che ci immaginiamo essere
totalmente differente dal presente; piuttosto, quello di
‘futuristico’ è uno stile ormai
consolidato, quasi una sorta di carattere tipografico speciale. Quando
proviamo a pensare al ‘futuristico’, ci vengono
sempre in mente riferimenti come, ad esempio, la musica dei Kraftwerk
– sebbene sappiamo che sia ormai antica come lo era la musica
jazz dell’ensemble di Glenn Miller quando il gruppo tedesco
iniziava a sperimentare i sintetizzatori nei primi anni
Settanta.
Dove sono i Kraftwerk del XXI secolo?
Laddove la musica dei Kraftwerk era l’espressione di una
certa insofferenza verso il già noto, il momento attuale
è invece caratterizzato da una straordinaria
capacità di conformarsi agilmente al passato. Anzi,
più precisamente ancora, è la stessa distinzione
fra passato e presente che sta andando in frantumi. Nel 1981, il 1960
sembrava più lontano di quanto non sembri oggi. Da allora,
il tempo culturale si è ripiegato su se stesso e
l’idea dello sviluppo lineare ha ceduto il passo ad una
strana simultaneità.
Farò due esempi per illustrare meglio questa
particolare temporalità cui mi riferisco. Quando ho visto
per la prima volta il video del singolo degli Arctic Monkeys I
Bet You Look Good on the Dancefloor del 2005, ho creduto
davvero che fosse un qualche artefatto perduto risalente agli anni
Ottanta. Tutto nel video – le luci, le acconciature, i
vestiti – era stato assemblato per dare
l’impressione che si trattasse di una performance trasmessa
nel corso del programma di “rock serio” The
Old Grey Whistle Test della BBC2. Inoltre, non
c’era alcuna incongruenza tra l’aspetto visivo e il
suono, nel senso che, almeno ad un ascolto superficiale, si sarebbe
potuto credere che si trattasse di un qualche gruppo post-punk dei
primi anni Ottanta. Certamente, se si provasse a fare di nuovo
quell’esperimento mentale di cui scrivevo poco sopra, sarebbe
facile immaginarsi I Bet You Look Good on the Dancefloor
che viene trasmesso a The Old Grey Whistle Test nel
1980 e non suscita alcun senso di disorientamento nel pubblico. Proprio
come è capitato a me, anche quegli spettatori del 1980
avrebbero pensato che i riferimenti al 1984 presenti nel testo della
canzone si riferissero al futuro.
C’è
qualcosa di straordinariamente impressionante in tutto ciò.
Tornate indietro di altri venticinque anni dal 1980 e vi ritroverete
agli esordi del rock and roll. Nel 1980, un disco che suonasse in modo
simile a uno di Buddy Holly o di Elvis sarebbe sembrato fuori tempo.
Naturalmente, dischi del genere uscirono realmente nel 1980, ma
rientravano nel genere del ‘retro rock’. Se invece
gli Arctic Monkeys non sono classificati come un gruppo
‘retrò’ ciò è in
parte dovuto al fatto che, nel 2005, non c’è ormai
più alcun ‘ora’ rispetto a cui stabilire
cosa sia ‘retrò’. Nel 1990 era
ancora possibile parlare di revivalismo Britpop, confrontandolo con lo
sperimentalismo che allora caratterizzava la scena underground
dell’elettronica da ballo britannica o
l’R&B negli Stati Uniti. Nel 2005, invece, i ritmi di
innovazione in entrambe queste scene musicali risultano ormai molto
rallentati. L’elettronica da ballo britannica è
ancora assai vitale se confrontata con il rock; eppure i cambiamenti
che avvengono sono minuscoli, quasi incrementali, al punto che riescono
a captarli solo gli iniziati. Non c’è
più, cioè, quella dislocazione della sensazione
che si sentiva nel passaggio dalla musica Rave alla Jungle e dalla
Jungle allo stile Garage negli anni Novanta. Mentre scrivo queste
righe, uno dei suoni più diffusi nel pop (cioè la
musica da discoteca che ha rimpiazzato l’R&B a
livello globale) somiglia molto all’Eurotrance, un cocktail
molto blando creato negli anni Novanta mescolando insieme gli elementi
più insipidi della House e della Techno.
Secondo
esempio. La prima volta che ho sentito la versione di Valerie
di Amy Winehouse (contenuta nell’album di Mark Ronson Version,
2007, ndr) stavo passeggiando in un centro
commerciale – forse il posto ideale in cui consumare
l’ascolto di un brano del genere. Fino ad allora, avevo
sempre creduto che Valerie fosse stata incisa per
la prima volta dagli Zutons, pedante gruppo indie rock britannico
(2006, ndr). Eppure, per un momento, il suono soul
anticato del disco, in stile anni Sessanta, e la voce (che ad un primo
ascolto non avevo riconosciuto essere quella di Winehouse) mi facevano
riesaminare questa mia convinzione: “Sicuramente”
– pensai in quel momento – “la versione
degli Zutons deve essere una cover di questa
versione qui, a quanto pare più
‘vecchia’, che non avevo mai sentito
prima…” Ovviamente, non mi ci volle molto per
rendermi conto che quel ‘suono soul anni Sessanta’
era in realtà una simulazione: era questa versione ad essere
una cover di quella degli Zutons, realizzata nello stile retro truccato
in cui si è specializzato il produttore del pezzo, Mark
Ronson.
Le produzioni di Ronson sembrano fatte
apposta per esemplificare quello che Fredric Jameson ha definito
“la modalità nostalgica”. Jameson
descrive questa tendenza nei suoi scritti straordinariamente profetici
sul postmodernismo, a partire dagli anni Ottanta. Ciò che
rende Valerie e gli Arctic Monkeys casi emblematici
del retrò postmoderno è il modo in cui performano
l’anacronismo. Anche se entrambi suonano sufficientemente
storicamente ‘fedeli’ all’epoca che
scimmiottano, tanto da passare realmente per pezzi d’epoca ad
un primo ascolto, pur tuttavia c’è in essi
qualcosa che non quadra. Incongruenze nella trama sonora –
risultato delle tecniche di studio e di registrazione contemporanee
– indicano che si tratta di pezzi che non appartengono
né al presente né al passato, ma ad una qualche
era ‘senza tempo’, un eterno mondo-anni-Sessanta o
anni-Ottanta. Il suono ‘classico’, i cui elementi
sono stati ormai serenamente liberati dalle pressioni del divenire
storico, può ora essere ciclicamente rispolverato e tirato a
lucido grazie alle nuove tecnologie.
È
importante essere chiari sul senso preciso che Jameson attribuisce
all’espressione “maniera nostalgica”.
L’autore non si riferisce infatti alla nostalgia psicologica;
anzi, la maniera nostalgica così come la teorizza Jameson si
potrebbe dire che precluda la nostalgia psicologica, poiché
emerge soltanto allorquando il senso coerente del tempo storico va in
frantumi. Figure capaci di mostrare ed esprimere un anelito verso il
passato sono infatti riconducibili ai paradigmi dell’epoca
modernista; basti pensare, ad esempio, agli sforzi d’ingegno
di Proust e Joyce per ritrovare il tempo perduto. La maniera nostalgica
di Jameson, invece, è più precisamente un
attaccamento formale alle tecniche e alle formule
del passato, conseguenza di un abbandono di quella sfida tipicamente
modernista che animava il continuo rinnovamento delle forme culturali
affinché queste fossero adeguate a descrivere
l’esperienza contemporanea. L’esempio chiave che fa
Jameson è quello del film (ormai quasi dimenticato) Body
Heat (tr. it. Brivido caldo, ndr),
di Lawrence Kasdan (1981); film che, sebbene fosse ufficialmente
ambientato negli anni Ottanta, dava la sensazione di essere un film
degli anni Trenta. Scrive Jameson,
Sul piano tecnico, Body Heat non è un film nostalgico, dal momento che è ambientato in uno scenario contemporaneo, in un piccolo insediamento in Florida vicino Miami. D’altra parte, tale contemporaneità tecnica è veramente ambigua. […] Tecnicamente […] i suoi oggetti (le sue automobili, per esempio) sono prodotti degli anni Ottanta, ma tutto il resto cospira, nel film, ad annichilire tale immediato riferimento al contemporaneo e a far sì che lo si possa percepire anch’esso come fatto nostalgico – come fatto narrativo all’interno di un passato nostalgico indefinibile, un eterno mondo-anni-Trenta, al di là della storia. Mi sembra un’ipotesi supportata da sintomi sin troppo evidenti quella per la quale proprio lo stile dei film nostalgici stia invadendo e colonizzando anche quei film che hanno un’ambientazione contemporanea: come se, per qualche strana ragione, non fossimo in grado, oggi, di mettere a fuoco il nostro presente, come se fossimo divenuti incapaci di produrre delle rappresentazioni estetiche della nostra esperienza attuale. Ma se è così, allora è un atto d’accusa terribile contro lo stesso capitalismo consumistico – o almeno un sintomo allarmante e patologico di una società divenuta incapace di affrontare il tempo e la storia.
Se Body Heat non può essere considerato né un artefatto d’epoca né un film nostalgico cioè è dovuto principalmente al fatto che nel film viene negato qualunque riferimento diretto al passato; da ciò, l’anacronismo della pellicola. E il paradosso, qui, è che questo “annichilimento della contemporaneità ufficiale”, questa “scomparsa della storicità”, diventano sempre più i tratti tipici della nostra esperienza dei prodotti culturali. Un altro degli esempi di maniera nostalgica che Jameson riporta è quello di Star Wars (tr. it. Guerre Stellari, 1977-1983, ndr).
Una delle esperienze culturali più importanti delle generazioni cresciute tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta era la serie televisiva del sabato pomeriggio di Buck Rogers – extra-terrestri da strapaese, veri eroi americani, eroine in preda all’angoscia, il raggio della morte o la scatola del giudizio universale, e l’impiccagione alla fine alla cui miracolosa risoluzione non si poteva mancare di assistere il sabato successivo. Guerre Stellari reinventa questa esperienza nella forma del pastiche: e cioè, non esiste più ragion d’essere per una parodia di queste serie dal momento che esse sono estinte ormai da lungo tempo. Lungi dall’essere una satira senza tempo di tali forme oggi defunte, Guerre stellari soddisfa una profonda (potrei forse aggiungere repressa?) voglia di ripeterne l’esperienza; è un oggetto complesso nel quale ad un primo livello i bambini e gli adolescenti possono assumere le avventure direttamente, mentre il pubblico adulto è in grado di soddisfare un più profondo e più propriamente nostalgico desiderio di ritornare a quel periodo precedente e di vivere ancora una volta i suoi vecchi e strani manufatti estetici.
Qui
non c’è alcuna nostalgia per un periodo storico in
particolare (o, se c’è, è soltanto
indiretta): piuttosto, il desiderio che Jameson descrive in queste
righe è quello di una forma. Star Wars
è un esempio particolarmente significativo di anacronismo
postmoderno, per il modo in cui usa la tecnologia per camuffare la
forma arcaica. Celando le proprie origini all’interno della
forma ormai stantia di una serie d’avventura, Star
Wars potrebbe sembrare nuovo per mezzo di tutti gli effetti
speciali senza precedenti che impiega, ottenuti attraverso le
più recenti tecnologie. Se, in una maniera tipicamente
modernista, i Kraftwerk usavano la tecnologia per fare emergere delle
forme nuove, la maniera nostalgica invece ha relegato la tecnologia
alla funzione di elemento tramite cui mettere a nuovo ciò
che è ormai vecchio. L’effetto è stato
quello di camuffare la sparizione del futuro nel suo
contrario.
Il futuro non è sparito dalla
sera alla mattina. L’espressione di Berardi “la
lenta cancellazione del futuro” è così
appropriata perché cattura esattamente il lento ma
inesorabile processo tramite cui il futuro è stato
gradualmente eroso nel corso degli ultimi trent’anni. Se
è nei tardi anni Settanta e nei primi anni Ottanta che la
crisi corrente della temporalità culturale ha iniziato a
farsi sentire, è soltanto a partire dalla prima decade del
XXI secolo che quella che Simon Reynolds chiama
“discronia” è diventata endemica. Questa
discronia, questa disgiunzione temporale, avrebbe dovuto essere
perturbante; eppure, la predominanza di quella che Reynolds chiama
“retromania” indica che essa ha perso ogni tratto unheimlich:
l’anacronismo, ora, è dato per scontato. Il
postmodernismo di Jameson – con la sua inclinazione verso la
retrospezione e il pastiche –
è stato naturalizzato. Pensate, per esempio, ad Adele, che
ha un successo assolutamente straordinario: sebbene la sua musica, sul
mercato, non rientri nel genere ‘retro’, non
c’è niente nei suoi dischi che possa
caratterizzarli pienamente come prodotti del XXI secolo. Come tanti
prodotti culturali contemporanei, i dischi di Adele sono impregnati di
un vago ma persistente feeling di passato, senza
pur tuttavia rimandare specificamente ad alcuna epoca storica.
Jameson
identifica la “sparizione della
storicità” con la “logica culturale del
tardo capitalismo”, senza però spiegare nei
dettagli perché le due espressioni siano l’una
sinonimo dell’altra. Perché l’arrivo del
capitalismo neo-liberale post-Fordista ha portato alla cultura della
retrospezione e del pastiche? Possiamo forse
azzardare un paio di ipotesi. La prima riguarda il consumo. Potrebbe
essere che la distruzione della solidarietà e della
sicurezza introdotte dal capitalismo neoliberale abbiano generato una
fame compensatoria di cose certe e già ben familiari? Paul
Virilio ha proposto il concetto di “inerzia
polare”, che sarebbe una sorta di effetto collaterale della e
contrappeso alla straordinaria accelerazione della comunicazione.
L’esempio chiave di Virilio è quello di Howard
Hughes, che passò quindici anni della propria vita in una
stanza d’hotel, guardando e riguardando a ripetizione Ice
Station Zebra (tr. it. Base artica Zebra,
1968, ndr). Hughes, un tempo un pioniere
dell’aeronautica, fu tra i primi esploratori del terreno
esistenziale che sarebbe stato spalancato dal ciberspazio, in cui non
è più necessario spostarsi fisicamente per avere
accesso all’intera storia della cultura. O per dirla
diversamente, seguendo le argomentazioni di Berardi,
l’intensità e la precarietà della
cultura del lavoro tardo capitalista ci gettano in una condizione che
è simultaneamente di esaurimento e di iper-stimolazione. La
combinazione di lavoro precario e comunicazioni digitali mette sotto
assedio l’attenzione. In questo stato insonne, soffocante
– sostiene Berardi – la cultura viene
de-erotizzata. L’arte della seduzione richiede troppo tempo
e, secondo l’autore, anche il Viagra non è che una
risposta ad un deficit culturale più che biologico:
disperatamente privi di tempo, energie e attenzione, chiediamo con
forza soluzioni immediate. Lo stesso discorso vale per il
retrò che, come un altro degli esempi riportati da Berardi,
cioè la pornografia, promette la soluzione rapida e semplice
di una soddisfazione già nota con il minimo della variazione
possibile.
L’altra spiegazione del nesso
fra tardo capitalismo e retrospezione ha a che vedere con la
produzione. Nonostante tutta la retorica della novità e
dell’innovazione, il capitale neoliberale ha gradualmente ma
sistematicamente privato gli artisti delle risorse necessarie per
produrre il nuovo. Nel Regno Unito, lo stato sociale del dopoguerra e
le borse di mantenimento agli studenti (l’autore si riferisce
alla quota a fondo perduto concessa nel Regno Unito sul prestito
d’onore che può essere richiesto per il
finanziamento dei propri studi universitari - ndr)
più alte di quelle di oggi rappresentarono una forma di
finanziamento indiretto alla maggior parte degli esperimenti che ebbero
luogo nell’ambito della cultura pop tra gli anni Sessanta e
gli anni Ottanta. Tuttavia, il successivo attacco ideologico e pratico
ai servizi pubblici portò ad una situazione in cui anche
questo spazio, che era uno di quelli dove gli artisti potevano sentirsi
al sicuro dalla pressione di produrre qualcosa che avesse immediato
successo, venne drasticamente circoscritto. Mentre il servizio pubblico
radiotelevisivo diventava sempre più
‘marketised’ (una possibile traduzione italiana del
termine è ‘marchetizzato’, ndr),
crebbe anche la tendenza a produrre un tipo di cultura che somigliasse
a quella già esistente e già di successo.
Conseguenza di tutto ciò fu che il tempo a disposizione per
sottrarsi dal lavoro ed immergersi nella produzione culturale si
ridusse drasticamente. Se c’è un fattore che
più di ogni altro contribuisce al conservatorismo culturale,
questo è l’aumento dell’inflazione sul
canone di locazione e sulle ipoteche. Non è un caso,
infatti, che l’effervescenza culturale di Londra e di New
York nei tardi anni Settanta e nei primi anni Ottanta (nelle scene punk
e post-punk) abbia coinciso con la disponibilità di immobili
occupati abusivamente o a basso prezzo. Da allora, il declino
dell’edilizia popolare, l’attacco
all’occupazione abusiva e il folle aumento dei prezzi degli
immobili hanno portato ad una massiccia diminuzione del tempo e delle
energie spendibili nella produzione culturale. Ma forse è
stato solo con l’arrivo del capitalismo comunicativo digitale
che questo processo ha raggiunto il picco massimo di crisi.
Naturalmente la cattura dell’attenzione di cui scrive Berardi
riguarda tanto i produttori quanto i consumatori. La
possibilità di produrre il nuovo dipende dalla
possibilità di sottrarsi da una serie di cose, quali ad
esempio la socialità o forme culturali preesistenti. Ma la
forma di socialità dominante oggi – quella del
ciberspazio delle reti sociali, con le sue infinite
opportunità di micro-contatto e la sua valanga di link su
YouTube – ha reso la possibilità di sottrarsi da
qualunque cosa più difficile che mai. Per riprendere Simon
Reynolds, che spiega questo processo in maniera assai precisa, negli
ultimi anni la vita quotidiana si è accelerata, ma la
cultura ha rallentato.
Al di là di quali
siano le cause di questa patologia temporale, è chiaro che
nessuna area della cultura occidentale ne sia immune. I vecchi
avamposti del futurismo, come la musica elettronica, non offrono
più una via di fuga dalla nostalgia formale. La cultura
musicale è sotto vari punti di vista paradigmatica del fato
dell’intera cultura sotto il capitalismo post-fordista. A
livello della forma, la musica è bloccata tra il pastiche
e la ripetizione, sebbene la sua infrastruttura abbia subito
un cambiamento massiccio ed imprevedibile: i vecchi paradigmi di
consumo, vendita al dettaglio e distribuzione si stanno disintegrando,
mentre il download eclissa l’oggetto fisico, i negozi di
dischi chiudono e le copertine degli album spariscono.
La
‘hauntology’: perché?
Che
cosa ha a che vedere con tutto questo il concetto di hauntology?
In effetti, è con un po’ di riluttanza che il
termine iniziò a venire utilizzato nell’ambito
della musica elettronica più o meno intorno alla
metà della scorsa decade. […]
Jacques
Derrida ha introdotto per la prima volta il termine ‘hauntology’
nel suo Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e
nuova Internazionale (1993, ndr), in cui
scrive: “Hanter non vuol dire essere
presente, e bisogna introdurre la hantise nella
stessa costruzione di un concetto”. Quello di ‘hauntology’
è infatti un concetto che prende il nome da un gioco di
parole tra il termine ‘ontologia’, con cui si
designa una branca della filosofia che studia l’essere in
quanto tale (e il verbo francese hanter, che indica
il frequentare assiduamente un luogo, l’aggirarvisi
insistentemente e, nel caso di un fantasma, l’infestare
– ndr). La hauntology
è il prosieguo di altri concetti di Derrida, quali la
traccia e la différance; come gli altri
due termini, anche questo si riferisce al fatto che nulla ha
un’esistenza puramente positiva: tutto quel che esiste
è possibile solo sulla base di una serie di assenze che lo
precedono e lo circondano e che gli consentono di possedere la coerenza
e l’intellegibilità che esso ha. Come illustrato
in un famoso esempio, ogni termine linguistico particolare prende il
proprio significato non dalle sue proprie qualità positive
ma dalla sua differenza da altri termini. Da qui, le originali
decostruzioni di Derrida della “metafisica della
presenza” e del “fonocentrismo”, che
mettono in luce il modo in cui particolari forme di pensiero dominanti
abbiano (incoerentemente) privilegiato la voce rispetto alla
scrittura.
La hauntology
però, rispetto ad altri concetti di Derrida ed in
particolare alla différance, mette
più esplicitamente in gioco la questione del tempo. Una
frase che ritorna più volte in Spettri di Marx
è infatti “Questo tempo è
scardinato” – una frase tratta dall’Amleto.
Inoltre, nel suo recente studio Radical Atheism: Derrida and
the Time of Life (2008, ndr), Martin
Hägglund sostiene che è possibile leggere tutta
l’opera di Derrida in relazione a questo concetto del tempo
scardinato. “Lo scopo di Derrida”, afferma
Hägglund, “è quello di formulare una
‘hauntology’ (hauntologie)
generale, contro la tradizionale ‘ontologia’ che
pensa l’essere come una presenza che si identifica in
sé stessa. L’importanza della figura dello spettro
risiede dunque nel fatto che esso non può essere pienamente
presente: non ha essere in sé, ma segna una relazione con quel
che non è più o quel
che non è ancora”.
La
hauntology sarebbe dunque semplicemente un tentativo di
riportare in vita il sovrannaturale o magari soltanto un modo di dire?
Per uscire da questa impasse dicotomica, occorre necessariamente
pensare la hauntology come l’agentività
del virtuale: lo spettro non è un qualcosa di
sovrannaturale, ma ciò che agisce senza esistere
(fisicamente). I grandi pensatori della modernità, come
Freud e Marx, avevano scoperto diverse modalità di questa
causalità spettrale. Il mondo tardo capitalista, governato
dalle astrazioni della finanza, è molto chiaramente un mondo
in cui le virtualità hanno effetti – e forse il
più infausto degli “spettri di Marx”
è il capitale stesso. Ma come Derrida sottolinea in una
intervista inclusa nel film Ghost Dance (1983, ndr),
la psicoanalisi è anche la “scienza dei
fantasmi”, uno studio di come gli eventi che si riverberano
nella psiche diventino spiriti.
Ritornando di nuovo
alla distinzione di Hägglund fra il non
più e il non ancora, possiamo
provvisoriamente distinguere due diverse sensi coesistenti nella hauntology.
Il primo si riferisce a ciò che non è
più (attuale), ma che rimane
capace di effetti in quanto virtualità (la
“compulsione a ripetere” traumatica: un pattern
fatale). Il secondo si riferisce a cioè che non
è ancora accaduto (come attuale), ma produce già
effetti in quanto virtuale (un attrattore, un’anticipazione
che dà forma al comportamento presente). Lo
“spettro del comunismo” che Karl Marx ed Friedrich
Engels annunciavano in una delle prime righe del Manifesto
del Partito Comunista (1948, ndr) era
proprio uno spettro di questo tipo: una virtualità il cui
avvento, fino ad allora ancora solo annunciato, già giocava
un ruolo nel minare lo status quo.
Oltre a segnare uno dei momenti chiave del progetto filosofico decostruzionista di Derrida, Spettri di Marx era anche un tentativo di riflessione sul contesto storico di riferimento, che era quello in cui aveva luogo lo smantellamento dell’impero sovietico. Meglio ancora, il saggio era un tentativo di riflettere sulla presunta fine della storia annunciata con fervore da Francis Fukuyama nel suo La fine della storia e l’ultimo uomo (2003, ndr). Cosa sarebbe accaduto ora che il socialismo realmente esistente era collassato e il capitalismo poteva esprimersi al massimo, non più contrastato dall’esistenza di un altro blocco, ma soltanto da piccole isole di resistenza come Cuba e la Corea del Nord? L’era di ciò che io ho chiamato “realismo capitalista” – la diffusa credenza che non vi sia alcuna alternativa al capitalismo – è stata infestata non dall’apparizione dello spettro del comunismo, ma dalla sua sparizione. Come ha scritto Derrida:
C’è oggi nel mondo un discorso dominante… Questo discorso dominante ha spesso la forma maniacale, giubilatoria e incantatoria che Freud assegnava a una certa fase detta trionfante del lutto. L’incantesimo si ripete e si ritualizza, dipende da e se si attiene a delle formule, come vuole ogni magia animista. È sempre la stessa solfa e lo stesso ritornello. Al ritmo di un passo cadenzato proclama: Marx è morto, il comunismo è morto, davvero morto, con le sue speranze, il suo discorso, le sue teorie e le sue pratiche, viva il capitalismo, viva il mercato, sopravviva il liberalismo economico e politico!
Spettri
di Marx rappresentava anche, per Derrida, una riflessione
sulle tecnologie mediatiche (o sull’era post-mediatica) che
il capitalismo ha istallato sul proprio territorio globale. In questo
senso, la hauntology non era per nulla un concetto
astratto; piuttosto, si trattava di un qualcosa di totalmente endemico
nell’era della “tecno-tele-discorsività,
tecno-tele-iconicità”, dei
“simulacri” e delle “immagini
sintetiche”. Questa discussione sul
“tele-” mostra come la hauntology
riguardi una crisi dello spazio oltre che del tempo. Come sostengono
già da tempo teorici come Virilio e Jean Baudrillard
[…], le ‘tele-tecnologie’ fanno
collassare lo spazio e il tempo. Eventi distanti fra loro nello spazio
sono fruibili simultaneamente dal pubblico. Né Baudrillard,
né Derrida avrebbero vissuto tanto a lungo da poter vedere i
massimi effetti delle ‘tele-tecnologie’ –
i massimi effetti fino ad ora, ovviamente – che hanno
così radicalmente ristretto lo spazio ed il tempo, il
ciberspazio. Ma è certamente qui che diventa evidente il
primo motivo per cui la hauntology sarebbe poi
diventata un termine per riferirsi alla cultura pop della prima decade
del XXI secolo: è stato in questa fase, infatti, che il
ciberspazio ha raggiunto il dominio assoluto sulle dinamiche di
ricezione, distribuzione e consumo della cultura –
specialmente nell’ambito della cultura musicale.
Quando
viene usato per riferirsi alla cultura musicale – nei miei
scritti ed in quelli di altri critici come Simon Reynolds e Joseph
Stannard – la hauntology è in
primo luogo un termine usato per riferirsi ad una particolare
confluenza di artisti. Il termine ‘confluenza’
è cruciale qui, poiché questi artisti –
e mi riferisco a William Basinski, all’etichetta Ghost Box, a
The Caretaker, a Burial, a Mordant Music e a Philip Jeck, tra gli altri
– ad un tratto sono venuti a convergere sullo stesso terreno
senza influenzarsi direttamente l’un altro: ad accomunarli
non è stato tanto un suono, quanto una
sensibilità, un orientamento esistenziale. Gli artisti che
furono etichettati come appartenenti al genere “hauntological”
erano immersi in una formidabile malinconia e a tutti stava a cuore
entrare in qualche modo in relazione con il processo tramite cui la
tecnologia materializza la memoria; da ciò, una fascinazione
per la televisione, per il vinile, per i nastri e per i suoni emessi da
queste tecnologie nel momento della loro rottura. Questa fissazione per
la memoria materializzata diede origine a quella che è
probabilmente la caratteristica sonora principale della hauntology:
l’uso del crackle, il particolare
crepitìo prodotto dalla superficie del vinile. Il crackle
ci fa rendere conto del fatto che stiamo ascoltando un tempo
scardinato; non ci permette di cadere nell’illusione della
presenza. Inverte l’ordine normale dell’ascolto in
cui, per dirla con Ian Penman, ci siamo abituati al fatto che il
“ri-” della “riproduzione”
venga represso. Non solo ci rendiamo quindi conto così che i
suoni che stiamo ascoltando sono registrati, ma diventiamo anche
consapevoli della presenza dei sistemi di riproduzione sonora che
utilizziamo per ascoltare le registrazioni. Inoltre, dietro molta
hauntology sonora c’è anche la questione
della differenza tra l’analogico e il digitale: tantissime
tracce hauntological sono infatti incentrate sulla
rivisitazione della fisicità dei media analogici
nell’era dell’etere digitale. I file MP3, infatti,
sono certamente materiali, ma la loro materialità
è occultata, ci è nascosta, a differenza di
quanto avveniva con la materialità tattile del vinile o
anche dei CD.
Questo desiderio di far rivivere un
regime di materialità più antico gioca un ruolo
importante nel creare la malinconia di cui è piena la musica
hauntological. E, volendo indagare sulle cause di
questa malinconia, l’indizio chiave ce lo fornisce il titolo
di un album di Leyland Kirby: Sadly, The Future Is No Longer
What It Was (2009, ndr). Nella musica hauntological
c’è un’implicita presa di coscienza che
le speranze inaugurate dall’elettronica del dopoguerra o
dall’euforia della dance music degli anni
Novanta siano evaporate: non solo il futuro non è mai
arrivato, ma anzi non sembra più nemmeno possibile. Eppure,
allo stesso tempo, la musica è in sé un modo di
rifiutarsi di abbandonare per sempre il desiderio di futuro. Questo
rifiuto conferisce alla malinconia una dimensione politica,
perché in definitiva indica
l’incapacità di adattarsi all’orizzonte
chiuso del realismo capitalista.
Non
rinunciare al fantasma
Secondo
Freud, sia il lutto che la malinconia hanno a che vedere con la
perdita. Ma laddove il lutto è il lento, doloroso
disinvestimento della libido dall’oggetto perduto, nello
stato malinconico persiste un attaccamento a ciò che
è scomparso. Affinché il lutto possa davvero
avere inizio, scrive Derrida in Spettri di Marx, il
morto deve essere scongiurato: “Lo scongiuro dovrebbe
assicurarsi che il morto non ritornerà: presto, far di tutto
perché il suo cadavere resti localizzato, in luogo sicuro,
in decomposizione esattamente lì dove è stato
inumato, anzi imbalsamato, come si usava fare a Mosca”.
Può però anche succedere che non sia concesso
interrare il corpo, così come esiste il rischio di esagerare
nell’uccidere qualcosa ad un punto tale che questa diventa
uno spettro, una pura virtualità. “Le
società capitalistiche”, scrive ancora Derrida,
“possono sempre tirare un sospiro di sollievo e dirsi: il
comunismo è finito dopo il crollo dei totalitarismi del XX
secolo, e non solo è finito, ma non ha mai avuto luogo, non
è stato che un fantasma. Non possono negare ciò
che resta comunque innegabile: che un fantasma non muore mai, ma resta
sempre a venire e a rinvenire”.
Lo haunting,
allora, può essere considerato una sorta di fallimento del
lavoro del lutto. Si tratta, cioè, del rifiuto di rinunciare
al fantasma, oppure il rifiuto del fantasma di rinunciare a noi
– e qualche volta queste due cose coincidono. Lo spettro
cioè non ci permetterà di accontentarci o
accettare le mediocri soddisfazioni che vediamo baluginare di tanto
intanto dinanzi ai nostri occhi in un mondo governato dal realismo
capitalista.
La hauntology nel
XXI secolo non ha a che vedere con la sparizione di un oggetto in
particolare: ad essere svanita è una tendenza, una
traiettoria virtuale. Uno dei nomi di questa traiettoria è
‘modernismo pop’. L’ecologia culturale
cui mi riferivo più sopra, cioè la stampa
musicale e le punte più avanzate del servizio pubblico
radiotelevisivo, erano parte del modernismo pop britannico –
così come lo erano il post-punk, l’architettura
brutalista, i tascabili Penguin e la Radiophonic Workshop della BBC.
Nel modernismo pop, il progetto elitario del modernismo veniva
retrospettivamente rivendicato; contemporaneamente, si stabiliva una
volta e per sempre che la cultura pop(olare) non dovesse essere
necessariamente populista. Particolari tecniche moderniste erano non
solo disseminate nella cultura pop, ma rielaborate collettivamente ed
ampliate, appropriandosi di e rinnovando la missione modernista, che
era quella di produrre nuove forme che fossero adeguate al presente. Il
che vuol dire che, sebbene io allora non me ne rendessi conto (come
è ovvio che sia), la cultura che ha dato forma alle mie
prime aspettative era essenzialmente una cultura modernista pop. Ghosts
of My Life, allora, è esattamente un tentativo di
venire a patti con la sparizione delle condizioni che permettevano ad
una cultura di questo tipo di esistere.
Vale la pena, a questo
punto, soffermarsi un attimo su una delucidazione necessaria: vorrei
spiegare le differenze che intercorrono fra la malinconia legata alla hauntology
di cui sto scrivendo in queste pagine e altre due forme di malinconia.
La prima di queste è quella che Wendy Brown ha definito
“malinconia di sinistra”. Apparentemente, infatti,
le mie riflessioni potrebbero sembrare espressione di una certa
rassegnazione malinconica sinistroide, del tipo “sebbene
non fossero perfette, le istituzioni della democrazia sociale di un
tempo erano sempre meglio di quanto potremmo sperare di avere oggi
– anzi di quanto potremo sperare di avere da qui in
avanti…” Nel suo saggio
“Resisting Left Melancholy” (1999, ndr),
Brown attacca “una Sinistra che agisce senza operare una
profonda e radicale critica dello status quo e che
non fornisce alcuna valida alternativa all’ordine vigente. Ma
forse quel che è peggio è che questa è
una Sinistra che si è legata più
all’idea della sua stessa impossibilità che a
quella della sua potenziale capacità; una Sinistra che si
sente più a casa nella propria marginalità e nel
fallimento che nella speranza; una Sinistra che è catturata
in una dinamica di attaccamento malinconico a certi momenti del proprio
passato ormai morto, il cui spirito è ormai una emanazione
fantasmatica, la cui struttura del desiderio è passatista e
punitiva”. Eppure ciò che rende dannosa la
malinconia analizzata da Brown è il suo essere una forma di
misconoscimento: la malinconia di sinistra descritta da Brown
è quella di un depresso che crede di essere un realista; uno
che non nutre più alcuna speranza che il proprio desiderio
di trasformazione radicale possa essere realizzato, ma che non si rende
conto di avere lui stesso rinunciato a quel desiderio. In una sua
riflessione sul saggio di Brown contenuta in The Communist
Horizon (2012, ndr), Jodi Dean fa
riferimento alla proposizione di Lacan che recita “propongo
che l’unica cosa di cui si possa essere colpevoli
[…] sia di aver ceduto al proprio desiderio”; per
Dean, il passaggio che Brown descrive – da una sinistra
fiduciosamente convinta che il futuro le appartenga, ad una che si
crogiola nella propria incapacità di agire –
sembra esemplificare la transizione dal desiderio (che in termini
lacaniani è il desiderio di desiderare) alla pulsione (un
godimento che passa attraverso il fallimento). Il tipo di malinconia di
cui io sto scrivendo, invece, è un rifiuto – per
così dire – di adeguarsi a ciò che oggi
si chiama “realtà”, anche se il prezzo
da pagare per un tale rifiuto è quello di sentirsi degli
esiliati nel proprio stesso presente…
Il
secondo tipo di malinconia che occorre distinguere dalla malinconia
legata alla hauntology è quella che Paul
Gilroy chiama “melanconia postcoloniale” (2006, ndr).
Gilroy definisce questa forma di malinconia come un tentativo di
sfuggire a qualcosa: un’evasione “dai dolorosi
obblighi di elaborare gli squallidi dettagli della storia coloniale e
imperiale e di trasformare il senso di colpa paralizzante in una
vergogna più produttiva, che faciliti la costruzione di una
nazionalità multiculturale non più impaurita
dalla prospettiva di esporsi agli stranieri o
all’alterità”. Questa malinconia deriva
dalla “perdita di una fantasia
d’onnipotenza”. Come la malinconia di sinistra di
Brown, allora, la “melanconia postcoloniale”
è anch’essa una forma di misconoscimento: la sua
“caratteristica combinazione”, scrive Gilroy,
è fatta di “esaltazione parossistica, miseria,
autodisprezzo e ambiguità”. Il malinconico
postcoloniale non si rifiuta (semplicemente) di accettare il
cambiamento; piuttosto, in un certo qual modo, si rifiuta di accettare
l’idea stessa che il cambiamento sia avvenuto. Rimanendo
legato in modo del tutto incoerente alla propria fantasia
d’onnipotenza, è capace di esperire il cambiamento
solo nelle forme del declino e del fallimento, le cui cause attribuisce
ovviamente all’‘altro da sè’,
il migrante, su cui cade la sua condanna (e qui l’incoerenza
è palese: se il malinconico postcoloniale fosse realmente
onnipotente, come potrebbe mai l’immigrato rappresentare per
lui una minaccia?). A prima vista, si potrebbe considerare la
malinconia legata alla hauntology come una variante
della malinconia postcoloniale: l’ennesimo piagnisteo del
povero ragazzo bianco che si lamenta dei privilegi che ha
perduti… Eppure, se così fosse, allora
si tratterebbe soltanto della peggior forma di risentimento possibile
per ciò che si è perso: il ressentiment;
o ancora ciò che Alex Williams ha chiamato
“solidarietà negativa”, ovvero quella in
cui siamo invitati a festeggiare non la crescita della
libertà, ma il fatto che un altro gruppo sociale sia stato
miseramente ridotto in rovina – cosa particolarmente triste
quando il gruppo in questione è per lo più quello
della working class, la classe lavoratrice.
Se non
‘nostalgia’, cos’altro allora?
Tutto
ciò ci riporta ancora una volta alla questione della
nostalgia: la hauntology è forse, come
hanno sostenuto molti critici, semplicemente un altro nome della
nostalgia? Si tratta semplicemente di uno struggimento malinconico per
la democrazia sociale e le sue istituzioni? Considerata
l’onnipresenza della nostalgia formale che ho descritto
più sopra, la domanda corretta è però,
piuttosto, questa: se non ‘nostalgia’,
cos’altro allora? Sembra strano dover sostenere
con forza che il fare un confronto tra passato e presente a
detrimento del presente non è automaticamente sinonimo di
colpevole nostalgia; eppure tale è il potere delle pressioni
de-storicizzanti del populismo e delle PR che è bene essere
quanto più chiari ed espliciti possibile su questo punto. Le
PR e il populismo alimentano l’illusione relativista che
l’intensità e l’innovazione siano
equamente distribuite in tutte le epoche della cultura. È la
tendenza a sovrastimare erroneamente il passato che rende la nostalgia
disdicevole. Ma una delle cose che ci ha insegnato When The
Lights Went Out (2010, ndr) di Andy
Beckett – una storia del Regno Unito negli anni Settanta
– è che, sotto diversi punti di vista,
sottostimiamo erroneamente un’epoca come gli anni Settanta:
Beckett ci mostra infatti come in realtà il realismo
capitalista sia stato costruito proprio a partire da una miticizzazione
negativa di questa decade. Per contro, le PR onnipresenti ci inducono a
sovrastimare altrettanto erroneamente il presente – e quelli
che non sanno ricordare il passato sono condannati a vederselo
propinato ancora e ancora e ancora come un prodotto di
consumo.
Se gli anni Settanta sono stati per molti
aspetti meglio di quanto oggi vorrebbe farci pensare il neoliberismo,
dobbiamo allora anche renderci conto di quanto la distopia capitalista
della cultura del XXI secolo non ci sia stata semplicemente imposta, ma
piuttosto sia stata costruita a partire da una cattura dei nostri
desideri. Come ha osservato Jeremy Gilbert, “Tutto quello che
più temevo potesse accadere negli ultimi
trent’anni è in realtà accaduto. Tutto
ciò rispetto a cui mi avevano messo in guardia i miei
mentori politici – quando ero ancora un ragazzo delle case
popolari di un povero distretto dell’Inghilterra del Nord nei
primi anni Ottanta, o quando, pochi anni dopo, da studente delle scuole
superiori leggevo le denunce al thatcherismo pubblicate sulla stampa di
sinistra – è successo veramente. Eppure io non
vorrei affatto vivere all’epoca di quarant’anni fa.
Il punto è questo, credo: questo è il mondo che
tutti temevamo; ma è anche il mondo che tutti, in un certo
qual modo, abbiamo voluto” (2012, ndr).
Non dovremmo ciò essere costretti a scegliere fra
– per dirne una – internet e la sicurezza sociale.
Uno dei modi per capire la hauntology è
quello di comprendere come i suoi futuri perduti non ci obblighino a
false scelte di questo tipo; al contrario, a perseguitarci è
lo spettro di un mondo in cui tutte le meraviglie delle tecnologie
della comunicazione convivano con un senso di solidarietà
assai più forte di quello che qualunque forma di democrazia
sociale avrebbe mai potuto o potrebbe mai garantirci.
Il
modernismo pop non fu affatto un progetto completo, uno zenit assoluto
che non necessitava di alcuna ulteriore miglioria. Indubbiamente, negli
anni Settanta la cultura era aperta all’inventiva della working
class in un modo che oggi è pressoché
inimmaginabile; ma gli anni Settanta furono anche un’epoca in
cui diverse forme di razzismo, sessismo e omofobia erano
all’ordine del giorno nella cultura mainstream.
Chiaramente, la lotta al razzismo e all’(etero)sessismo non
è ancora conclusa nemmeno oggi, ma ci sono stati progressi
significativi a livello egemonico, anche se il neoliberismo ha corroso
quell’infrastruttura di democrazia sociale che aveva
consentito alla working class una maggiore
partecipazione alla produzione culturale. La disarticolazione della
classe dalla razza, dal genere e dalla sessualità sono stati
in effetti centrali per il successo del progetto neoliberale, al punto
da far quasi sembrare, in maniera veramente grottesca, che il
neoliberismo stesso fosse la necessaria precondizione per il successo
delle lotte anti-razziste, anti-sessiste e
anti-(etero)sessiste.
Nella hauntology
non c’è in gioco il desiderio per
un’epoca in particolare, ma la ripresa del processo
di democratizzazione e pluralismo invocato da Gilroy. Forse
è utile ricordarci per un attimo che la democrazia sociale
è diventata una totalità completa soltanto
retrospettivamente; all’epoca, si trattava di un compromesso
che, per la sinistra, rappresentava la testa di ponte per il successo
di future rivendicazioni sociali. Ad infestare il nostro presente come
un fantasma dovrebbe essere quindi non il fatto che la democrazia
sociale non esista più, ma il fatto che
i futuri che il modernismo pop ci aveva insegnato ad aspettarci non
esistano ancora, non si siano in realtà mai
materializzati. Questi spettri – gli spettri dei futuri
perduti – vengono a redarguire la nostalgia formale che
caratterizza il mondo all’epoca del realismo
capitalista.
La cultura musicale è stata
un’area centrale nella proiezioni di quei futuri oggi
perduti. Il termine stesso di “cultura
musicale” qui è cruciale: la cultura tutta che
girava intorno alla musica (la moda, i discorsi, la cura grafica delle
copertine) è stata importante quanto la musica in
sé per sé nel far apparire dal nulla quei mondi
seducenti e al contempo strani. L’addomesticamento
del carattere straniante della cultura musicale cui
assistiamo nel XXI secolo – ovvero il ritorno di terrificanti
magnati dell’industria e ragazzi della porta accanto nel pop mainstream,
l’intrattenimento popolare che punta tutto sul premiare la
‘realtà’, la crescente tendenza nella
cultura musicale a vestirsi e a sembrare in tutto e per tutto versioni
chirurgicamente rivedute e corrette della gente
‘qualunque’, l’enfasi sulle acrobazie
emotive nel cantato – tutto questo, insomma, ha giocato un
grande ruolo nel condizionarci ad accettare il modello di
‘ordinarietà’ del capitalismo
consumistico. Michael Hardt e Antonio Negri hanno ragione quando
affermano che le rivendicazioni rivoluzionarie delle lotte sulla razza,
il genere e la sessualità vanno ben al di là di
una mera richiesta di accoglimento ed inclusione di tutte le
identità; piuttosto, in ultima analisi, se
c’è un obiettivo ‘finale’
è quello di smantellare l’identità.
Essi scrivono, infatti, che “dovremmo tenere bene a mente che
il processo rivoluzionario di soppressione
dell’identità è un processo mostruoso,
violento e traumatico. Non provate a salvare voi stessi –
perché in realtà è voi stessi
che dovrete sacrificare! Questo non vuol dire che la liberazione ci
getta in un mare indifferenziato privo di oggetti di identificazione,
ma piuttosto che le identità esistenti non ci potranno
più fare da ancora di salvezza” (traduzione
nostra, ndr). Oltre a metterci in guardia sugli
aspetti traumatici di questa trasformazione, Hardt e Negri sono anche
consapevoli che questo processo ha degli aspetti gioiosi. Lungo tutto
l’arco del XX secolo, la cultura musicale è stata
un banco di prova cruciale nel preparaci tutti a godere
di un futuro che non sarebbe stato più bianco, maschile o
eterosessuale; un futuro in cui il tramonto delle identità
– di quelle misere costruzioni della mente –
sarebbe stato un sollievo, una benedizione. Nel XXI secolo, al
contrario, la cultura musicale pop è stata ridotta al mero
livello di specchio della soggettività capitalista, come
testimoniano emblematicamente la fusione del pop e della reality
TV.
A questo punto, dovrebbe essere ormai
chiaro che in Ghosts of My Life il concetto di
‘hauntology’ è
utilizzato a più livelli. C’è un primo
livello che è quello assunto dal concetto
nell’ambito della cultura musicale e che, più
genericamente, fa riferimento alle persistenze, alle ripetizioni, alle
prefigurazioni. Ci sono poi anche altri livelli meno rassicuranti,
versioni meno benigne della hauntology. Il libro si
muove fra tutti questi diversi usi del termine.
Questo
libro parla dei fantasmi della mia vita; e quindi
c’è inevitabilmente una dimensione personale in
quello di cui scrivo. Ma io ho dato una mia propria interpretazione del
vecchio concetto che “il personale è
politico” ricercando le condizioni (culturali, strutturali,
politiche) della soggettività: per me, il modo
più produttivo di interpretare la frase “il
personale è politico” è infatti quello
di leggerlo come “il personale è
impersonale”. Per chiunque di noi è infinitamente
triste essere null’altro che se stesso (e
ancor più lo è essere costretti a vendere se
stesso). La cultura – e l’analisi della cultura
– hanno valore nella misura in cui ci permettono una via di
fuga da noi stessi.
Queste consapevolezze sono state
raggiunte a caro prezzo. La depressione è il più
maligno degli spettri che mi abbia mai perseguitato nella mia vita
– e qui uso il termine ‘depressione’ per
distinguere il tetro solipsismo della patologia psichiatrica dalle
desolazioni più liriche (e collettive) della malinconia
legata alla hauntology. Ho iniziato a tenere un
blog nel 2003, quando ero ancora in uno stato di depressione tale che
mi era difficile sostenere anche la vita quotidiana. Alcuni degli
scritti che compongono questo libro sono scaturiti dalla elaborazione
della patologia e non è un caso che l’esserne
venuto fuori (con successo, fino ad ora) abbia coinciso con una certa
esternalizzazione della negatività: il problema non ero
(soltanto) io, ma la cultura intorno a me. Ai miei occhi è
lampante il fatto che il periodo che va più o meno dal 2003
ad oggi sarà considerato, nel tempo, e non in un futuro
lontano, ma assai presto, come il periodo peggiore per la cultura (pop)
dagli anni Cinquanta in poi. Eppure dire che si è trattato
di una cultura fiacca e desolante non vuol dire negare che in essa vi
siano state tracce di altre possibilità. Ghosts of
My Life è un tentativo di entrare in contatto con
alcune di queste tracce.
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