VISIONI / NEI MOLTI MONDI
di Guido Acampa e Gabriele Frasca / Luca Sossella Editore, 2014
Su e giù nei multiversi
di Angelo Rossi
Alcuni pionieristici scrittori e artisti, le avanguardie e le teorie della comunicazione del Novecento hanno chiaramente reso noto come l’evoluzione dei media riscriva il sensorio dei fruitori delle opere e come, alla luce di questa riscrittura, cambi la posizione proprio dei fruitori, che chiedono alle opere un approccio altro. In particolare, dopo James Joyce, Marshall McLuhan o Samuel Beckett la strada che si è aperta all’arte è l’esplorazione dei territori di intersezione tra i media che danno vita a opere aperte dove il fruitore assume un ruolo attivo e partecipativo. E spesso l’incontro tra i mezzi può avvenire grazie all’incontro tra uomini che ne conoscono a fondo le potenzialità, ognuno nel suo ambito, ma che sono interessati a sfondare le pareti che li dividono. Ne nascono reazioni artistico-antropologiche feconde, che si crogiolano in opere che prendono per mano i fruitori e li accompagnano in esplorazioni dei margini fino a scalare vette andine. Un capitolo recente di queste reazioni artistico-antropologiche è partenopeo: dall’incontro dello scrittore (o meglio, poeta, romanziere, filologo, traduttore, performer, e altro ancora) Gabriele Frasca con l’artista e filmaker Guido Acampa e con le sue vecchie conoscenze, i musicisti Massimiliano Sacchi e Nino Bruno, dell’Opificio ResiDante (con cui aveva dato vita, nel 2003, allo straordinario cd Il fronte interno, pubblicato sempre da Luca Sossella Editore), è nato addirittura un film, o meglio un videodramma o videoistallazione andato esposto per spettatore unico alla Galleria Civica di Modena nel maggio scorso e successivamente su dvd per Luca Sossella Editore. Era necessario prenotare, ovviamente, per posizionarsi comodi sull’unica chaise longue della Sala Grande della Galleria Civica di Modena, indossare le cuffie e lasciarsi scivolare insieme a Victor Chemi nell’immersione criogenica di una semi-morte che dopo un decennio di viaggio lo avrebbe portato in un altro mondo. Liberamente ispirato a un racconto di Philip K. Dick, Spero di arrivare presto (I Hope I Shall Arrive Soon, apparso con il titolo Frozen Journey – Viaggio congelato – su Playboy, dicembre 1980 che, però, Frasca integra con materiale ispirato anche ad altre opere dello scrittore americano, cfr. Dick, 2009), altro incontro molto fecondo sulla strada fraschiana, Nei molti mondi è un videodramma di circa un’ora e mezza che, pur chiaramente influenzato dal lisergico postmodernismo dickiano, reagisce con i multiversi fraschiani e sembra inserirsi nel genere delle visioni tardoimperiali e medioevali per riannodarsi ad una teoria di calate agli inferi che vede stagliarsi all’orizzonte illustrissimi predecessori, come San Paolo o Dante. Ma di cosa si tratta? Victor Chemi si sente più spettatore che attore di una vita che considera sbagliata e di un mondo che non gli piace: lungo la sua strada difficoltà economiche, sofferenza, sensi di colpa e soprattutto troppi morti a cui lui è sopravvissuto (“Ogni cuore è un cimitero, signor Chemi, con tante tombe scoperchiate in attesa che un ultimo battito ripeta: «Si chiude!»” dice il computer di bordo, tema peraltro ossessivo nello stesso Dick), infestano la sua permanenza in un mondo che funziona male e dove Dio non interviene. Sordo all’avvertimento dickiano (Se vi pare che questo mondo sia brutto, dovreste vederne qualche altro, Dick 1997), Victor decide di trasmigrare in un altro pianeta: per farlo dovrà affrontare un viaggio lungo dieci anni, chiuso in una specie di bara che gela il corpo arrestando le funzioni organiche, senza però ucciderlo, e narcotizza l’attività celebrale. Un uomo né vivo né morto, ibernato per dieci anni, quanto durerà il viaggio, che sarà poi risvegliato all’arrivo e comincerà una nuova vita. Ma la complessità psichica o l’istinto di sopravvivenza (inciso nelle sue informazioni genetiche) di Victor presenteranno una serie di resistenze all’ibernazione e alla narcotizzazione: o meglio, il corpo sarà ibernato, ma la mente non smette di funzionare, non s’addormenta e rimane cosciente. La sua attività celebrale si ritrova dematerializzata, pensiero puro privo di percezioni. Il computer di bordo prova a metterci una pezza cercando un’alleanza con Victor: pescherà dai suoi ricordi per imbastire un “cineforum” per intrattenerlo nei dieci anni di viaggio. Ma la soluzione si rivela una calata agli inferi fino a poter sfiorare con i polpastrelli le corazze gli afidi che circolano sulle sinapsi di Victor, quei grumi di percezioni sensoriali vertitesi in ceppi traumatici che si sono “incistati” nel suo organismo e nella sua mente e ne hanno riscritto l’organizzazione funzionale: gli hanno, insomma, cambiato la vita dirigendola anonimamente dal profondo e spingendolo ad abbandonare il mondo “0” per un mondo “1”. Affiorante in un pulviscolo di ricordi eterei e di melodie oniriche, immagini instabili “pronte a comporsi e a ricomporsi” dentro una “coltre formata dalla compresenza di molteplici colori” che Frasca e Acampa hanno definito “grigio di Hilbert” (Frasca 2014b), l’intero deposito memoriale di Chemi evocato dal computer di bordo viene riorganizzato da Victor finendo, però, sempre per strutturare incubi, non sogni. In un delirante monologo interiore, in cui lo spettatore scivola coadiuvato dalla lunga soggettiva del teledramma e dalla fiumana delle parole di Victor-Raffaele Ausiello, riemerge costantemente un ceppo traumatico: l’inspiegabilità del male spinge Victor ad orbitare ossessivamente intorno al suo senso di colpa o intorno alle responsabilità di Dio, a cui rinfaccia il male simbolizzato da una carcassa di gatto che ha mezzo corpo schiacciato dalle ruote di un’auto. Invano il computer di bordo, che ha la voce del poco misterioso Guido Nerli, proverà a non farlo delirare: la lunga soggettiva, il grigio di Hilbert, le musiche di Sacchi e Bruno e la fiumana di parole del racconto di Dick ancor più lisergicizzate dal cut-up di Frasca che ha campionato e rimontato parti dell’opera di Dick, delineano un teso crescendo in cui lo spettatore finisce per perdere la bussola e scivolare in una sospensione spazio-temporale che assomiglia molto ad un galleggiamento ipnagogico. E quando tutto finisce, ci si sfilano le cuffie e, un po’ sbandando per gambe formicolanti e occhi confusi, si esce dalla sala della proiezione, recuperando in modo traballante il flusso percettivo con il mondo esterno, non potendo evitare di farsi domande non di poco conto, del tipo: che cos’è la realtà? Perché Dio permette il male?
Salta agli occhi che la trama è tutta dentro la poetica fantascientifica dickiana, per cui l’opera si attiva a partire da un’idea dinamica che possa innescare “una trasposizione fondata nella società in modo da far emergere, nella mente dell’autore, una società nuova che, trasferita su carta, produce nella mente del lettore uno shock convulsivo, lo shock del riconoscimento negativo” (cfr. Dick 1997). In questo modo, la narrativa assume una valenza allegorica: sotto il velo del recit il lettore scopre progressivamente nell’opera un rispecchiamento per enigmi (per speculum in aenigmate) del reale, sul quale è portato a riflettere. In particolare, la science fiction dickiana, che ha una base tutta filosofica, più che proporre mirabolanti trovate tecnologiche o lotte per la salvezza della Terra, traghetta il lettore verso un “mondo parallelo” o “mondo 1” che è una trasposizione del mondo reale o “mondo 0” proprio perché nasce da una messa in crisi delle strutture socio-storiche del mondo 0, rendendolo relativo o illusorio. In questo caso, l’inesorabilità del male (“Ogni cuore è un cimitero, signor Chemi…”) spinge Victor a lasciare la Terra: la sospensione criogenica del viaggio annullerebbe lo scorrere del tempo, poiché il corpo ibernato non invecchia e il tempo soggettivo è sospeso poiché è narcotizzata l’attività celebrale. Ma la gestione meccanica del corpo fallisce per eccesso di “umanità” di Victor: il suo istinto di sopravvivenza lo porta a contrastare la morte, seppure apparente, della sospensione criogenica e a trasformarsi in puro pensiero o flusso di coscienza, sconnesso dalla realtà per interruzione dei canali percettivi. Si innesca così la produzione ipnagogica di immagini che sono però reali, perché Victor le vede e soprattutto perché ne soffre. Il mondo 1 del racconto nasce così da un impianto scettico: tempo, spazio, suoni e immagini sono conosciuti attraverso le percezioni che sono vive in Victor anche in assenza di realtà. Quindi, quello che si conosce è sempre inerente alla soggettività di chi parla e non all’oggettività della realtà. Sull’asse lineare del tempo meccanicistico e logico, Dick innesta un asse ortogonale sul quale dispiega mondi paralleli al mondo reale: nella sospensione temporale, Victor costruisce, attraverso le immagini pescate nei suoi ricordi, non più un universo, ma multiversi. Ma di oggettivo non rimane, però, che il dolore di Victor, la sofferenza ed il male: causa della sua fuga dal mondo 0, il male torna costantemente a bruttare i film che disperatamente il computer di bordo cerca di costruire per intrattenere il povero Victor nei dieci anni di viaggio che passeranno insieme e che in qualche modo devono passare senza che Victor impazzisca, preda del suo delirio. Victor interroga Dio sul male, interrogativo che aveva portato Dick ad un’ossessiva riflessione sincretistica sulle religioni, che avrebbe avuto il sua acme con La trilogia di Valis, e sulla possibilità di salvezza in vita dell’uomo. Qui il videodramma o teledrammma o istallazione videoacustica di Frasca diverge dal racconto di Dick, sul quale, però, va ancora spesa qualche parola. Nel racconto l’epilogo vedrà finalmente approdare Vicktor Kemmings (questo il nome del protagonista del racconto originario) al nuovo mondo, dove rincontrerà Martine, un suo grande amore del passato, e comincerà un nuova vita. È interessante soffermarsi poiché il racconto si presenta come un’autentica allegoria del pensiero filosofico dickiano, nello stato in cui era giunta la sua riflessione soprattutto dopo l’evento di visioni o allucinazioni che lo scrittore diceva di aver avuto per un anno a partire da febbraio-marzo 1974, pensiero che poi aveva riassunto in Cosmologia e cosmogonia (cfr. Dick, 1997) del 1978 (pensiero sul quale Frasca nel saggio La lettera che muore aveva individuato l’influenza dello shock antropologico-culturale successivo alla scoperta dei rotoli del Mar Morto nella caverna di Qumran). Dick, come risulta lampante in ogni suo scritto teorico, si interroga ossessivamente sul male, ma rimane bloccato anch’egli nel paradosso logico dell’impossibilità di attribuirlo a Dio, senza postulare una sua certa malvagità, e dell’impossibilità della salvezza per l’uomo in vita, dovendola ipotizzare solo post-mortem. A seguito delle sue visioni e proponendo un attraversamento trasversale delle religioni misteriche (che mostrano un coltissimo e onnivoro Dick, altro che scrittore dedito agli stupefacenti), lo scrittore americano costruisce un pensiero organico (cfr. Esegesi in Dick, 1997) secondo il quale Dio, o Urgrund, ha creato, sciogliendosi in esso, l’universo, o artefatto, che ha regole logico-meccanicistiche, e poi ha creato l’uomo, che è un micro-Dio, è cioè in sé una scheggia-specchio di Dio. Ma l’uomo vive in un mondo che è una proiezione dell’artefatto ed è gravato dalla presenza del male che è frutto delle leggi logico-meccaniche che lo regolano: Dio-Urgrund non può cancellare il male perché, essendosi materializzato e dissolto nell’universo ha dimenticato la propria perfezione e l’assolutezza del bene. Sta all’uomo, attraverso una discesa nella memoria e nel passato, liberarsi delle leggi logico-meccaniche dell’artefatto, riscoprire in sé la scintilla divina, ricordare a Dio cosa effettivamente era stato e liberare finalmente l’universo dal male. Vicktor Kemmings si libera dalle leggi logico-meccaniche dell’artefatto poiché è sconnesso dallo spazio-tempo del mondo e del corpo nella sospensione criogenica che è andata male: l’imprevisto gli ha lasciato il cervello libero di agire e soprattutto di innescare una lunga discesa nella memoria. Così Vicktor riattraversa il suo passato, soffrendo come se fosse in Purgatorio per espiazione, e si salva solo recuperando il suo amore: ma la salvezza avviene quando è ancora in vita e non dopo la morte. L’ipotesi dickiana ha questo di rivoluzionario nei confronti dei sistemi delle religioni misteriche: propone una salvezza in questa vita, non dopo la morte, avanzando un’interpretazione esauriente di cosa sia la realtà e in che rapporto si ponga con l’uomo e Dio. E salva anche la possibilità dell’esistenza di Dio. Questo per quanto riguarda I Hope I Shall Arrive Soon.
Sul fronte di Nei molti mondi, la “cover” che ne hanno fatto Frasca, Acampa & Co. si potenzia dell’incontro tra i media, librandosi in etere su onde acustiche e frame video: è un’esperienza, un viaggio in una dimensione psico-fisica altra più che un'allegoria di natura letteraria. In particolare, la voce è acusticamente “incassata” per rendere l’asfissia dell’immersione criogenica e, grazie alle cuffie, sembra fluire in inarrestabile flusso, come un trabordante monologo interiore, dall’interno del cervello dello spettatore che finisce per avere l’impressione di vestirsi della pelle di Victor Chemi (la fruizione ottimale, anche del dvd, necessita ovviamente delle cuffie che, come si può sperimentare, danno l’impressione che il suono venga direttamente da dentro il cervello: proprio per questa attenzione ai suoni, nel menu del dvd è possibile trovare anche il radiodramma dell’opera, oltre ad una traccia con le sole musiche di Sacchi e Bruno e ad una galleria fotografica). Tale effetto di straniamento è esasperato dal pulviscolo dell’immagine e cospira per dare vita ad un video mcluhanianamente freddo che inghiotte lo spettatore, costretto a dare forma all’informe o senso al delirio di immagini chiare (quando emergono dal pulviscolo) che mostrano, però, situazioni assurde. Il videodramma struttura uno stato allucinato, ipnagogico, proprio come se si fosse nella sospensione criogenica di Victor. Messi in crisi i canali percettivi, si rimane così sospesi in una dimensione spazio-temporale parallela, uno stato d’immanenza o mondo 1 che, come in un volo angelico, mette in crisi lo statuto di assolutezza del mondo 0. E quando finisce e ci si sfilano le cuffie, come alla fine di un trip ci si rimette in piedi un po’ traballanti, facendosi domande non di poco conto, del tipo: che cos’è la realtà? Perché Dio permette il male?
ASCOLTI
— ResiDante, Il fronte interno, Luca Sossella Editore, 2003.
LETTURE
— Philip K. Dick, Se vi pare che questo mondo sia brutto, dovreste vederne qualche altro, in Dick 1997.
— Philip K. Dick., Viaggio congelato in Tutti i racconti 1964 – 1981, Fanucci, Roma 2009.
— Philip K. Dick., La mia definizione di Fantascienza in Dick 1997.
— Philip K. Dick., Mutazioni, Feltrinelli, Milano, 1997.
— Philip K. Dick., La trilogia di Valis, trad. ita di Curtoni V. e Zinoni D., Fanucci, Roma, 2011.
— Gabriele Frasca, La scimmia di Dio, Costa & Nolan, Genova, 1996.
— Gabriele Frasca, La lettera che muore, Meltemi, Roma, 2005.
— Gabriele Frasca, Vivi viaggi veloci in Civico 103, numero 12, anno IV, aprile 2014, Galleria Civica di Modena.
— Gabriele Frasca, Greetings from Many Worlds, introduzione a Nei molti mondi, Luca Sossella Editore, Roma, 2014b.
— Stephen Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna, 1993.