ASCOLTI / ENCYCLOPEDIA OF ARTO


di Arto Lindsay / Northern Spy, 2014


 

Il guastatore sonico e i suoi doppi

di Cristian Caira

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Da efferato stupratore della tradizione rock a posato compositore post-tropicalista, da orifizio tutto singulti e grugniti a crooner caldo e disinvolto. Sono in molti a storcere il naso di fronte all’imprevedibile deviazione impressa da Arto Lindsay alla propria traiettoria creativa: “Che delusione! Si è messo a fare musica orecchiabile, catchy, come dicono gli inglesi…”. Noi la pensiamo diversamente, e, pur ammettendo che il Lindsay astratto e rumorista dei DNA era tutta un’altra cosa, confessiamo che il suo doppelgänger “positivo” - più accessibile, certo, ma, a suo modo, sperimentale - non ci dispiace affatto. A compendiarne le gesta ci ha pensato Encyclopedia of Arto, doppia compilation pubblicata dalla newyorkese Northern Spy, che andremo a visitare, non prima però di aver radiografato una delle personalità più sfuggenti del panorama underground.

Una fiera macilenta che agonizza in una pozza di sangue; un diroccato paesaggio mentale solcato da neri pensieri di morte; o ancora, un demente che fissa, seduto a gambe incrociate, il suo inintelligibile acquerello: sono le torve, febbricitanti immagini evocate dal sound sconcertante dei DNA, da quella spasmodica e orripilante creatura sonora che Arto Lindsay (voce e chitarra), Robin Lee Crutchfield (organo) e Ikue Mori (batteria) partoriscono mortificando sadicamente i loro strumenti (o reinventandoli duchampianamente?). L’eterodosso stile di questo trio di disadattati e sradicati (Lindsay è un apolide cresciuto in Brasile insieme ai genitori missionari, Crutchfield un introverso omosessuale che si esibisce in assurde performance di strada e Mori una giapponese incapace di esprimersi in inglese) si rivela per la prima volta su You and You (Medical, 1978). Nei due brani che compongono il singolo, You and You e Little Ants, sonnambolici battiti da teatro kabuki, elementari e inquietanti accordi d’organo ossessivamente reiterati (idea mutuata dai Suicide?), atonali farneticazioni chitarristiche e canto afono e beefheartiano si giustappongono malamente dando vita a scheletriche, scomposte e straziate cacofonie. L’astruso astrattismo dei DNA ha poco da spartire con l’esplosivo punk-funk dei Contortions, i lamenti stentorei dei Teenage Jesus and the Jerks e il clangore chitarristico dei Mars. Non è il sound, dunque, ad accomunare le quattro principali formazioni della No Wave, ma piuttosto la brama di sbarazzarsi dell’ingombrante e puteolente cadavere del rock (“L’obiettivo era uccidere i tuoi idoli. Tutto ciò che mi aveva influenzato fino a quel punto lo trovavo troppo tradizionale, fosse Patti Smith, gli Stooges o Berlin di Lou Reed. Andavano bene per la loro epoca, ma avevo la sensazione che ci volesse qualcosa di più estremista. Qualcosa di sbudellato”, dice Lydia Lunch, ex leader dei Teenage Jesus). Su No New York (1978), l’epocale antologia che documenta la “follia omicida” del fenomeno, i DNA appaiono con quattro (brandelli di) brani: Egomaniac’s kiss, in cui ritmi cingolati, catatoniche intermittenze organistiche, graffi atonali e nauseati latrati si fondono in un’ossuta e strisciante nenia, Lionel, vorticosa sarabanda dada-primitivista (perfetto equivalente sonoro delle tempestose tele di Basquiat), Not Moving, che incede cigolante e raschiante come un macchinario ebbro, per poi lanciarsi in un anthem paranoide e disperato, e Size, marcetta psicopatica e subnormale. Pochi mesi dopo l’uscita di No New York, Crutchfield abbandona la band per dedicarsi ai Dark Day. A sostituirlo viene chiamato Tim Wright, bassista reduce da un’esperienza con i Pere Ubu. La nuova line-up produce A Taste Of DNA (1981), un EP in cui episodi, per così dire, musicali (New Fast, 5:30, Blonde Red Head) si alternano ai soliti assemblage sgraziati e puntuti (32121, New New, Lying on the Sofa of Life).

Allo scioglimento dei DNA, band che “ha violentato a tal punto il nostro immacolato rock che non potrà più rifarsi una verginità” (in questi termini ne parlerebbe Henry Miller), l’attivissimo Lindsay si getta in svariati progetti. Assolutamente da menzionare sono le sue collaborazioni con i Golden Palominos di Anton Fier e i Lounge Lizards di John Lurie, celebri per il loro finto-jazz. Inclini invece a un sovraeccitato crossover sono gli Ambitious Lovers, progetto che l’ormai ex “King of Noise” avvia con il virtuoso tastierista svizzero Peter Scherer. Manipolando sardonicamente svariati generi - soul, samba, bossanova, funk, synthpop - e intrecciandoli senza ritegno, il duo, coadiuvato dai vocalist David Moss e Mark Miller e da quattro musicisti brasiliani, approda a una forma rutilante e scombinata di art-disco. La superband cosmopolita esordisce con Envy (1984), album in cui Lindsay rivela un insospettato côté black - timbro caldo, sussurri lascivi, gridolini asessuati. Let’s Be Adult, scheggioso synth-funk dominato da sontuosi arrangiamenti tastieristici, e Locus Coruleus, caotica tecno-dance che strizza l’occhio ai ghiribizzi pan-etnici di David Byrne e Brian Eno, sono gli episodi più entusiasmanti del disco. Nel successivo - e iperprodotto - Greed (1988), che annovera ospiti di gran lusso come John Zorn, Bill Frisell e Vernon Reid, il babelico eclettismo degli Ambitious Lovers si fa ancora più travolgente. In brani come Privacy, dissonante heavy-funk in bilico sul kitsch, e King, orgiastica batucada hi-tech, il duo sfoggia una fusion che per arditezza, colore e stravaganza fa concorrenza a quella di Prince. A Pretty Ugly (1990), compilation che raccoglie musiche composte per il teatro e il balletto, segue Lust (1991), ultimo - e non troppo ispirato - documento del gruppo. Il vivace sperimentalismo discotecaro degli album precedenti passa il testimone a un pop da camera agghindato, un tantino stucchevole. E così il canto di Lindsay - che si è ormai evoluto in un romantico crooning - resta impigliato in una giungla di arrangiamenti orchestrali.

Dopo la pubblicazione di Aggregates 1-26 (1995), una raccolta di fulminee improvvisazioni noise eseguite con il bassista Melvin Gibbs (Rollins Band) e il batterista Dougie Brown (Lounge Lizards), Lindsay dà avvio al suo lucido e rigoroso “programma brasiliano”, che prevede prima una fedele e ossequiosa imitazione dei moduli tropicalisti - O Corpo Sutil (1996), Mundo Civilizado (1996), Noon Chill (1997) - e poi una loro sagace rielaborazione - Prize (1999), Invoke (2002), Salt (2004). La doppia antologia Encyclopedia of Arto si dedica all’esplorazione di questa fase - la più fredda e sofisticata della carriera di Lindsay -, raccogliendone le esibizioni live (cd 2), stranianti punti di fusione fra chitarrismo informe e atonale e languida melodiosità brasiliana, e i brani più significativi, quelli che hanno traghettato il tropicalismo nel nuovo secolo (cd 1). Ci accingiamo ad analizzarli…

Nel brano apripista, 4 Skies, il canto pregno di saudade di Lindsay si intreccia con una traslucida chitarra impressionista in stile Durutti Column. La rinfrancante Simply Are, tutta poliritmi zampettanti e bizzarri germogli elettronici, sembra il prodotto di una gita brasiliana dei Talking Heads. A uno strano matrimonio tra Al Green e Four Tet fa pensare, invece, Illuminated, soave soul che scivola con grazia su un tappeto di elettronica minimale. Benché melodica e avvolgente, The Prize - ritmica controcorrente, abrasivi ghirigori di chitarra - rimanda alle asperità del passato. La successiva Personagem è una samba robotica e dolcemente dissonante. Morbido e ondeggiante percussionismo, cristallini contrappunti di piano e lussureggianti fioriture orchestrali conferiscono a Child Prodigy un’aura di eleganza broadwayana. E Lindsay canta con un aplomb degno di Frank Sinatra. Ridiculously Deep e Reentry danno vita a un altro bizzarro connubio, quello tra le cadenze trip-hop dei Portishead e lo sconsolato crooning di Caetano Veloso. Intrise di molle saudade sono Complicity, electro-litania tutta ritmiche asimmetriche e arrangiamenti stranianti, e Invoke, vellutata mini-suite in stile Tortoise. Combustivel, episodio che echeggia l’edonismo scatenato degli Ambitious Lovers, è una vertiginosa samba disturbata da folate di stridente elettronica.

 


 

ASCOLTI

AA:VV., No New York, Lilith, 2005 (cd).
Ambitious Lovers, Greed, Virgin Records, 1989.
Ambitious Lovers, Lust, Elektra, 1991.
DNA, DNA on DNA, No More, 2004.
Arto Lindsay, O Corpo Sutil, Rykodisc, 1996.
Arto Lindsay, Mundo Civilizado, Rykodisc, 1996.
Arto Lindsay, Noon Chill, Rykodisc, 1997.
Arto Lindsay, Prize, Righteous Babe, 1999.
Arto Lindsay, Invoke, Righteous Babe, 2002.
Arto Lindsay, Salt, Righteous Babe, 2004.
Arto Lindsay & The Ambitious Lovers, Envy, Eg Records, 2003.
Arto Lindsay Trio, Aggregates 1-26, Knitting Factory, 1995.
Peter Scherer & Arto Lindsay, A Pretty Ugly, Crammed Discs, 1990.