LETTURE / GLORIA AGLI EROI DEL MONDO DI SOGNO
di Giancarlo Liviano D’Arcangelo / Il Saggiatore, Milano, 2014 / € 16,00, pp. 304
Dove gli archetipi giocano a calcio
di Luca Bifulco
Rituale, mito, epopea, incanto. Ebbene, parliamo di calcio, di quel reame che combina gioco, abilità atletica, senso di appartenenza, finanche spettacolo e business, ma che ha un legame intimo, profondo, con i territori dell’immaginario e con gli elementi vivificanti del racconto eroico. È in questa dimensione intrisa di qualità epiche che ci conduce Giancarlo Liviano D’Arcangelo con il suo libro Gloria agli eroi del mondo di sogno. L’autore ripercorre per buona parte del testo le traiettorie della sua infanzia, momento esistenziale in cui è particolarmente fervido l’intreccio tra la forma profana della quotidianità e la forza utopica e dispensatrice di senso della capacità immaginifica. Un capitolo introduttivo rivive invece – con ambizioni tipiche dell’epopea – la finale del Campionato del Mondo del 2006, presentandoci in prima istanza gli ingredienti fondamentali della mitopoiesi calcistica: protagonisti dai tratti eroici, gesta gloriose, errori solenni, trionfi e disfatte, connubio vitale – pur nella sua struttura aporetica – tra virtù e limiti umani.
Nel complesso il libro ha il sapore di una sorta di Recherche – seppur con un’attitudine più volontaria al ricordo – dove la riscoperta del tempo perduto svela la promessa di una comprensione piena e dunque appagante dell’esistenza. Di fronte alla corruzione inesorabile del divenire, alla sua inafferrabilità, ricomporre e inondare di senso persistente ciò che è stato vuol dire trovare un conforto identitario placido e in qualche misura rassicurante. Ed è qui che la potenza mitica del calcio e del racconto epico che gli è connaturato acquisiscono una rilevanza cruciale, con i nuovi Achille, Lancillotto o Sigfrido che alla spada hanno preferito una sfera in cuoio da calciare con simile abilità. A maggior ragione se il pensiero punta quell’infanzia in cui gioco, immaginazione e realtà si fondono e si confondono senza sosta. Il calcio si ammanta allora, nel complesso, dello spazio e del tempo della festa, di quella gioiosa liturgia, ricca di connotazioni magiche, che promette una catarsi individuale e collettiva.
Ecco, così, che gli omini della Playmobil possono diventare i giocatori immaginari perfetti, protagonisti di infinite partite simulate, incarnando calciatori reali in un universo innovativo – dove atleti del passato competono con quelli del presente, dove le squadre possono mischiarsi e ricomporsi continuamente, dove è possibile dar vita ad imprese memorabili per quanto spesso inverosimili, dove si può colmare creativamente ogni lacuna della vita reale o ripagare i torti della Storia.
Ma anche ogni partita giocata per strada, nei campetti brulli di periferia o nelle squadrette giovanili del proprio paese si intreccia con la rappresentazione mitica, nella misura in cui ad esempio si può immaginare di impersonare un calciatore o un team di successo, o di riproporne le qualità più celebrate. Un gioco d’emulazione talmente sofisticato, ci descrive con indiscutibile verosimiglianza Liviano D’Arcangelo, che perfino ogni momento della vita quotidiana, ogni aspetto individuale snocciolato nei vari contesti ordinari – dal coraggio all’eleganza, dalla freddezza alla rapidità del passo – può avere come termine di comparazione, e dunque di decifrazione del reale, i tratti distintivi di un Platini, di un Futre o (su un piano, ci si consenta, più eretico e blasfemo) di un Maradona.
Lo stesso tifo per una squadra o un campione non fa altro, in definitiva, che accendere un livello di identificazione vicaria che porta a far coincidere allegoricamente, ma con un forte coinvolgimento passionale, il nostro destino con quello dei nostri eroi.
Di particolare aiuto, in un simile impeto mitopoietico alla portata di ogni amante di questo sport, è l’immaginario legato al calcio degli anni Ottanta. Non solo, presumibilmente, perché è l’epoca che ha accolto l’infanzia dell’autore, ma anche per lo specifico equilibrio, raggiunto in quegli anni e poi smarritosi, tra spettacolo, media, orizzonti del visibile e sport. Nei decenni precedenti il racconto sportivo si limitava grosso modo – sebbene non esclusivamente – alla forma scritta che, per quanto utile ad alimentare e a lasciare liberi gli spazi dell’immaginazione, poteva a volte difettare in quanto ad informazioni, figure, rappresentazioni, addirittura sensazioni dispensabili.
Oggigiorno, all’esatto opposto, viviamo una vera e propria forma di pornografia calcistica: tutto è visibile fin nell’intimo, lo sguardo si insinua anche nei retroscena inaccessibili dello sport e nei suoi anfratti sacri ed inviolabili, abbondano informazioni, dettagli, gossip, immagini che spesso si intromettono con insistenza morbosa fin negli ambiti privati dei protagonisti. Tutto subito e pienamente disponibile, al fine di appagare l’ingordigia iconica dello spettatore, ma con un ritmo e un’estensione capillare tale da lasciare scarsa manovra all’incanto.
Negli anni Ottanta, invece, la trasmissione delle partite in diretta, la possibilità di vedere con una buona frequenza azioni di gioco o immagini dei protagonisti del calcio mondiale consentiva di accumulare materiale ingente per alimentare la portata dell’inventiva, ma con un ragionevole livello di discrezione, senza l’invadenza e l’insistenza continua ed ingombrante di informazioni. L’immaginario poteva colmare gli spazi lasciati vuoti ed utilizzare quel materiale invitante per concepire promettenti mitemi. Non ancora una pornografia del calcio, dunque, al massimo una condizione più vicina alla “scena primaria” di freudiana memoria: un guardare dalla serratura, una redditizia ricerca di indizi utili a mettere in moto l’attività creativa, un’esperienza al contempo eccitante e sconcertante per la serietà delle emozioni connesse alla passione calcistica e all’immaginazione che essa può stimolare.
Ad ogni modo, tutto ciò sarebbe impossibile se la partita di calcio non fosse intrisa, fin nel profondo, di due potenti fattori costitutivi: il meccanismo del rituale, che genera appartenenze ed identificazioni possenti; l’impianto drammaturgico, ovvero una sorta di trama narrativa intrinseca capace di suscitare flussi emozionali veementi (cfr. Bromberger, 1999; Bifulco, Pirone, 2014). La partita ha così il sapore di una battaglia simulata (cfr. Morris, 1981), la sconfitta è una sorta di morte allegorica, i temi del conflitto convivono con quelli della collaborazione, l’antagonismo con la solidarietà, le doti o l’abilità tecnico-tattica devono confrontarsi con l’errore, la fatalità, il caso, la fortuna, la furbizia, l’inganno, elementi che sfuggono al controllo e all’intenzionalità tanto da rendere un incontro sempre potenzialmente ricco di imprevedibilità e pathos.
Solo su questa drammaturgia strutturale, e ritualizzata, può edificarsi il mito: quella narrazione che esplicita la straordinarietà, che racconta di eroi che collezionano meriti per la loro grandezza, per il coraggio, la tenacia, l’abilità, l’astuzia, ma dove emergono anche sbagli maestosi, colpe che sembrano la conseguenza della hýbris, di una sfida oltraggiosa e superba dell’eroe agli dèi e al possesso esclusivo di tratti divini. Il tutto in un turbinoso succedersi di momenti gloriosi, azioni prodigiose, ma anche difficoltà, scelte problematiche o esiti tragici.
Per questo il mito può avere la funzione psicologica di rappresentare un viaggio non solo radioso, ma che attraversa anche gli impedimenti e i limiti dell’uomo. L’eroe che lo intraprende ci dona un modello esemplare che ci aiuta a comprendere la natura umana e le sue contraddizioni, tanto da facilitarci nell’acquisizione della consapevolezza del reale (cfr. Campbell, 2012).
In ciò il calcio sembra riproporre i tratti di una mentalità arcaica, fondata sul paradiso degli archetipi, dove il senso della vita è fornito da ciò che è sacro, vale a dire separato dalla vita profana (cfr. Eliade, 1999). E una realtà è sacra nella misura in cui ricorda un evento mitico o ha le caratteristiche di una manifestazione divina. Il mito ed il rito hanno così il potere di inserire la singola e meschina esistenza nel ciclo cosmico, donando alla vita ordinaria l’unico significato possibile, in quanto imitatio dei, ovvero riproposizione terrena del modello archetipo.
È questo il valore del calcio che ci suggerisce il libro di Liviano D’Arcangelo: fornire dei modelli esemplari per arricchire il significato delle cose profane, dotarle di un senso trascendente, in ultima istanza colorare la vita e comprenderne la sostanza nel suo lato essenziale. Non una fuga, ma una comprensione più profonda, che è – al contempo – un andare oltre la finitudine, il deterioramento delle cose mortali e mondane, per essere inglobati in una cosmologia capace di trascendere il tempo.
Così, se il tempo profano è un tempo delle cose strumentali, quello degli eroi è il tempo del sogno, dell’incanto che si alimenta della gloria (cfr. Holt, Mangan, 1996). Dove le credenze, le qualità, i valori, le ambizioni, gli intenti, le fatiche umane sono incarnate in modo vitale nelle figure eroiche, acquisendo una intelligibilità al tempo stesso logica ed emozionale. È questo il significato simbolico degli eroi del calcio. L’epica che li accompagna ci consente una partecipazione rituale alla loro grandezza, ma anche la sensazione di una costante rinascita individuale e collettiva, nella possibilità di abitare con loro – e per loro tramite – in quel paradiso, pregno di senso, degli archetipi.
LETTURE
— Luca Bifulco, Francesco Pirone, A tutto campo. Il calcio da una prospettiva sociologica, Guida, Napoli, 2014.
— Christian Bromberger, La partita di calcio. Etnologia di una passione, Editori Riuniti, Roma, 1999.
— Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, Torino, 2012.
— Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma, 1999.
— Richard Holt, J. A Mangan, Prologue: Heroes of a European Past, in Richard Holt, J. A Mangan, Pierre Lanfranchi (a cura di), European Heroes. Myth, Identity, Sport, Frank Cass, London, 1996.
— Desmond Morris, The Soccer Tribe, Jonathan Cape, London, 1981.