LETTURE / L’ARMATA DEI SONNAMBULI
di Wu Ming / Einaudi, Torino, 2014 / pp. 808, € 21,00
Una rivoluzione senza rivoluzione?
di Roberto Paura
Nel novembre 1792, affacciandosi dalla tribuna della Convenzione nazionale a Parigi, Maximilien Robespierre domandò: “Cittadini, volete una rivoluzione senza rivoluzione?” Poco meno di un mese dopo, da quella stessa tribuna, Robespierre avrebbe ripreso la parola in uno dei suoi discorsi più memorabili, nel corso dell’accesissimo dibattito sul processo a Luigi XVI, in cui avrebbe ricordato ai convenzionali che non spettava loro condannare o meno un re deposto, ma solo prendere una misura di “salute pubblica”, ossia giustiziarlo. Iniziava così la fase più cruenta della Rivoluzione, di quel grandioso evento che non ha più avuto eguali nella storia mondiale, “uno spettacolo non mai più veduto nel mondo”, come fu definita da un contemporaneo italiano ripreso dallo storico Luciano Guerci in un suo libro (Guerci, 2008). Non è un caso che i Wu Ming inizino da lì, dall’esecuzione di Luigi XVI, il cittadino Capeto, il loro ultimo romanzo L’armata dei sonnambuli: punto d’arrivo di una lunghissima e feconda riflessione intellettuale, storica, politica e artistica che il collettivo di scrittori italiani ha portato avanti a partire dal loro primo best-seller, Q, firmato con lo pseudonimo di Luther Blissett, che trattava sempre di una rivoluzione, quella rappresentata dall’irruzione nella Cristianità della riforma protestante di Lutero (Blisset, 1999). Non è un caso perché ai Wu Ming interessa proprio il momento centrale del decennio rivoluzionario, quello più cupo e violento, la “lunga notte” della Repubblica francese. Una notte così lunga da produrre autentici sonnambuli. Il titolo d’altronde suggerisce più di quanto non sembri. L’armata dei sonnambuli è, certamente, l’oggetto del grande complotto del misterioso mesmerista di fede realista che intende combattere il governo rivoluzionario con la sua stessa arma: le masse. Ma sonnambuli sono anche i protagonisti del periodo rivoluzionario. D’altronde Victor Hugo, modello letterario dei Wu Ming per questo romanzo, non definì Napoleone, il figlio della Rivoluzione, “il potente sonnambulo di un sogno che si è dileguato”? Il sogno iniziato con la presa della Bastiglia, che convince le masse popolari della possibilità di diventare finalmente attori della Storia, non solo agenti passivi delle scelte prese a Versailles. Tant’è che poi il popolo di Parigi andrà a prendere la famiglia reale nella loro sfarzosa reggia e la trascinerà nella capitale, prigioniera della volontà della maggioranza.
La rivoluzione, spiegano i Wu Ming, è “un tema sottotraccia a tutta la nostra produzione, un’urgenza dei nostri tempi, che si sta riaprendo dopo un lungo periodo di congelamento”. Già in Q molti lettori e diversi critici lessero una riflessione sui movimenti degli anni di piombo, filtrata dalla minuziosa ricostruzione storica dell’Europa del XVI secolo, teatro delle vicende narrate nel romanzo. L’impressione è che i Wu Ming usino il romanzo storico per parlare di questioni moderne, un po’ come già Umberto Eco – senza la stessa verve politica e polemica del collettivo – ha fatto con i suoi bestseller. Non è un caso allora che gli autori parlino de L’armata dei sonnambuli come punto d’arrivo della loro produzione, tanto da aver già anticipato che, dopo questo romanzo, inizieranno a percorrere altre strade. L’attualità di un romanzo ambientato nella Rivoluzione francese non sfugge a nessuno. I parallelismi tra il crollo dell’ancien régime e le difficoltà in cui si dibattono le fragili democrazie europee, soffocate dalla Grande Recessione e dall’avanzare del “populismo” (sprezzantemente giudicato dalle élite con lo stesso astio con cui l’aristocrazia parlava del fenomeno dei sanculotti e delle loro radicali soluzioni), sono abbastanza evidenti. Sennonché, la posizione assunta dai Wu Ming appare chiara con la scelta di non iniziare dal principio, dal 1789 o ancora prima, ma in medias res, nel momento culminante, proprio come Victor Hugo fa nel suo ultimo romanzo, pubblicato nel 1874, Novantatré (Hugo, 1998), in cui parla della Rivoluzione narrando del suo periodo più cupo, quello del Grande Terrore.
Il perché è presto detto: non può esserci rivoluzione senza rivoluzione. Il Terrore non è un episodio storico a sé stante, uno “slittamento” degli ideali del 1789, come tanti storici successivi tenteranno di spiegare, dividendo la Rivoluzione in due distinte fasi (tanto che anche una bella fiction del 1989, in occasione del bicentenario, si divideva in due parti: les années lumières e les années terribles). Giustificazioni a posteriori che lasciano il tempo che trovano, alla stregua di quella di Benedetto Croce che tentava di sostenere come il fascismo fosse una parentesi, uno “smarrimento della coscienza” (Croce, 1963) nel percorso tutto sommato condivisibile della storia italiana. Il Terrore non fu una parentesi, un incubo dal quale improvvisamente ci si risveglierà come tanti sonnambuli (ecco l’altra interpretazione del titolo del romanzo): è parte integrante della Rivoluzione francese. “Il 1789 senza il 1793, quindi. È una tendenza del tutto contemporanea. Coca-Cola senza caffeina, sigarette che si possono fumare in aereo perché non si accendono e non fanno fumo, yogurt senza grassi, dolcezza senza zucchero, sensazioni senza corpo, Guerra apparentemente senza Guerra, nel senso che non tocca noi, Rivoluzione senza Rivoluzione: l’edulcorazione prima di tutto”. Così si esprimevano nel 2010 i Wu Ming in un articolo su GQ Italia pubblicato anche sul loro blog Giap, in cui tra l’altro vengono pubblicate riflessioni sparse che emergono nel corso della stesura dei loro libri. In quell’articolo, dal titolo Robespierre e noi. Pensare l’uguaglianza, capire il terrore, gli autori anticipano il tema di fondo de L’armata dei sonnambuli. Lo stesso che ritorna in Cura Robespierre, brano dell’album Bioscop (2014) uscito contemporaneamente al romanzo per opera del Wu Ming Contingent (composto da due dei quattro scrittori, uno alla chitarra e l’altro alla voce). “Il nostro tempo, che confonde aggressore e aggredito, vittima e carnefice, che tende ad assegnare ad entrambi le stesse ragioni, non è a proprio agio di fronte a certe idee e alle persone che le incarnano”, scrivono ancora i Wu Ming. “Per noi, schiacciati sull’eterno presente della merce senza caffeina, senza grassi, senza nicotina, con il minimo di effetti collaterali, ciò che Robespierre rappresenta è intollerabile”. Ma veniamo al romanzo. Ci sono due vicende principali che si snodano sullo sfondo della Francia del Terrore. La prima riguarda Marie, la giovane e umile cittadina del faubourg Saint-Antoine, il sobborgo protagonista di tutte le grandi giornate rivoluzionarie di Parigi, utero della futura classe operaia. Marie è una delle donne che fa la Rivoluzione, come quelle tratteggiate da Jules Michelet nel suo classico del 1854 Le donne della rivoluzione (Michelet, 2003). Non ha precise idee politiche, finché non stringe contatti con Claire Lacombe, che invece le idee le ha ben chiare e sostiene la parità dei sessi e il diritto delle donne a combattere in Vandea contro le armate controrivoluzionarie dei realisti a fianco dei loro uomini. Marie e Claire, femministe ante litteram – come femminista fu la Società delle repubblicane rivoluzionarie in cui militano e la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina della sfortunata Olympe de Gouges – ricordano che la Rivoluzione è femmina, anche se nella Convenzione nazionale siedono solo uomini e l’unica donna che entra nella storia di quegli anni è Charlotte Corday, la fanatica assassina di Marat. Affianco a lei c’è Leo o Leonida, attore italiano, testa calda infervorata dalla lezione di Carlo Goldoni, con una propensione a mettersi nei guai, e che a un certo punto giunge alla consapevolezza che la Rivoluzione non è che un grande spettacolo (i Wu Ming giocano sul doppio significato del termine rappresentare: quello politico, incarnato dalla democrazia rappresentativa, e quello teatrale, sinonimo di “mettere in scena”). Così, decide di indossare un costume da Scaramouche e, un po’ Zorro e un po’ Batman anch’egli ante litteram, va in giro per le strade di Parigi, nottetempo, per colpire gli accaparratori che non vogliono vendere il pane o, dopo la caduta di Robespierre, i moscardini della jeunesse dorée che tentano di arrestare l’ondata rivoluzionaria perseguendo i sanculotti.
L’altra vicenda ha per protagonista, invece, Orphée d’Amblanc, medico mesmerista che cerca di curare i suoi pazienti con l’ipnosi. Incaricato dal Comitato di salute pubblica di indagare su un complotto messo in piedi nelle aree controrivoluzionarie del paese per rovesciare la Repubblica, d’Amblanc s’imbatte in strani casi di mesmerizzazione, che fanno capo a un misterioso esponente della nobiltà il cui scopo è quello di mettere su un’armata di sonnambuli sotto il suo controllo per liberare l’erede al trono, il Delfino di Francia prigioniero nella torre del Tempio a Parigi. Qui fa irruzione il fascino del misterioso e dell’esoterico rappresentati delle strambe teorie di Franz Anton Mesmer sul magnetismo e sull’elettricità. Sono gli anni degli esperimenti di Luigi Galvani in Italia e di Benjamin Franklin negli Stati Uniti, di quella “teologia dell’elettricità” (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 47) che è a metà strada tra positivismo e superstizione. Nell’imitare i toni del feuilleton ottocentesco (non manca, per esempio, la classica scena del duello a suon di pistole), i Wu Ming traggono ispirazione dal ciclo di Giuseppe Balsamo di Alexandre Dumas, dove abbondando scene di ipnosi e potenti complotti rivoluzionari (nonché la figura appassionante di Marat, che pure getta la sua ombra sulle pagine de L’armata dei sonnambuli).
Gli autori strizzano l’occhio alle teorie del complotto sulla Rivoluzione che fiorirono fin da subito, al punto che di complotti morirà lo stesso Robespierre (il suo discorso dell’8 termidoro in cui denuncia una grande cospirazione senza però fare nomi convincerà i “termidoriani” ad agire e a ghigliottinarlo prima che lui ghigliottini loro). Sono soprattutto le teorie del complotto dell’abate Barruel pubblicate nella monumentale opera Memorie per servire alla storia del giacobinismo del 1802 (in Italia venne pubblicata nel 1850 e oggi è reperibile in rete), nel quale l’intera Rivoluzione è ricondotta a un ampio complotto massonico, da cui anche Dumas trarrà spunto. L’idea che se ne ricava, e a cui strizza l’occhio – ovviamente in modo canzonatorio – anche Umberto Eco nel suo Il cimitero di Praga (Eco, 2010), è che le grandi vicende storiche sono in realtà manovrate da intelligenze occulte che muovono i fili della Storia. E manovratore è senza dubbio il villain de L’armata dei sonnambuli, il cavaliere legittimista che usa la sua abilità di mesmerizzare per creare un esercito di “zombie” privi di volontà, braccia armate per rovesciare la Repubblica giacobina. Nascondendosi dietro svariate identità, questo cattivo da operetta, che gli autori ammettono di aver voluto proprio così, rifacendosi alla tradizione del romanzo dell’Ottocento, crea un’armata di sonnambuli con la quale prima colpisce i sanculotti dei faubourg, in pieno clima da reazione termidoriana, e poi tenta il colpo dell’evasione del Delfino dalla prigione del Tempio.
Mai come in questo romanzo, tra tutti quelli scritti dal collettivo bolognese, storia e finzione si mescolano con abilità. La Francia rivoluzionaria descritta ne L’armata dei sonnambuli è per metà vera e per metà sogno distorto di qualche sonnambulo, come i matti che risiedono nell’ospedale di Bicêtre e che rimettono in scena i passi salienti della Rivoluzione. Lì ci sono i finti Robespierre e i finti Brissot, nonché i finti cadaveri di Marat (fino a quattro contemporaneamente) con i quali allestire la grottesca messa in scena del funerale del Martire della Rivoluzione. Ma l’idea che emerge prepotente nelle scene ambientate a Bicêtre – tristemente nota per essere stata lo sfondo dei più crudi episodi dei massacri del settembre 1792 – è che non ci sia confine tra il mondo distorto dei matti internati e quello reale al di fuori delle mura: i pazzi hanno preso il controllo del manicomio. Dopotutto, che differenza c’è tra la coreografia del finto funerale di Marat inscenato a Bicêtre e la grottesca Festa dell’Essere Supremo che Robespierre, con l’aiuto del pittore David, metterà in scena al Campo di Marte un mese prima della sua caduta, travestito da sacerdote di una nuova religione della libertà ma deriso dal popolo accorso alla cerimonia? Ancora una volta ritorna il doppio significato del termine “rappresentare”.
Non è infine un caso che, ne L’armata dei sonnambuli, non ci siano eroi, ma “eroi imperfetti”, come quelli teorizzati nel saggio eponimo L’eroe imperfetto (Wu Ming 4, 2010) e nel più recente Difendere la Terra di Mezzo (Wu Ming 4, 2013), entrambi firmati da Federico Guglielmi. La Storia, dopotutto, la fanno i personaggi comuni; è cosa nota. I protagonisti di questo romanzo non sono propriamente personaggi comuni ma rappresentano tutte le classi sociali che domineranno gli anni della Rivoluzione. Vogliono essere tutti eroi, ma non lo sono. Leo si maschera da Scaramouche per diventare l’idolo dei sanculotti, e come i supereroi di oggi si dota anche di un’arma apparentemente invincibile, lo “spirito di Marat” (un femore umano placcato d’argento): ma è in realtà è un fallito relegato ai margini della società. Marie vorrebbe diventare un’eroina della Rivoluzione, difendere la sua femminilità violata nella giovinezza, che l’ha resa madre di un figlio che non ha mai voluto, ma in questo tentativo si ritrova continuamente a fare i conti con il suo essere donna e donna del popolo. D’Amblanc s’infervora nella causa illuminista di smascherare presunti casi di licantropia e ipnosi di massa giustificando il tutto con l’effetto di elettricità e magnetismo (e le pagine che lo riguardano sembrano ispirarsi ai resoconti dell’antropologo Ernesto de Martino nel profondo Sud dell’Italia, alle prese con presunti casi di fascinazione e fatture); ma in realtà egli stesso è vittima di false convinzioni scientifiche e non riesce a nascondere il desidero di sfruttare le mesmerizzazioni per mettere le mani su una sua avvenente paziente.
Non sono eroi, i protagonisti de L’armata dei sonnambuli, proprio perché in ogni vera Rivoluzione non possono essercene. Non lo era Marat, l’amico del popolo che chiedeva centomila teste per purgare la nazione, né Danton, l’idolo delle masse sempre incline alla corruzione, o Robespierre, l’incorruttibile moralista vittima della sua stessa megalomania. Ma questo non vuol dire che essi furono traditori di un’autentica Rivoluzione “gloriosa”, quella dell’Ottantanove, trasformata nell’incubo del Terrore. Non ci sono mai state, né mai ci saranno, rivoluzioni gloriose, se non nei romanzi. E che L’armata dei sonnambuli sia anche qualcosa più di un romanzo, come rivendicano i Wu Ming, lo dimostra proprio il fatto che quella da loro rappresentata è la Rivoluzione autentica, quella in cui è sempre difficile capire davvero chi abbia vinto e chi abbia perso.
ASCOLTI
— Wu Ming Contingent, Bioscop, Woodworm Music, 2014.
LETTURE
— Barruel Augustin, Memorie per servire alla storia del giacobinismo, http://books.google.it/books/about/Memorie_per_servire_alla_storia_del_Giac.html?id=zbkHbt4VitAC&redir_esc=y).
— Blissett Luther, Q, Bompiani, Milano, 1999.
— Croce Benedetto, Scritti e discorsi politici (1943-1947), Lateza, Bari, 1963.
— Dumas Alexandre, Cagliostro, Tullio Pironti, Napoli, 1999.
— Eco Umberto, Il cimitero di Praga, Bompiani, Milano, 2010.
— Guerci Luciano, Uno spettacolo non mai più veduto nel mondo, Utet, Torino, 2008.
— Hugo Victor, Novantatré, Mondadori, Milano, 1998.
— Michelet Jules, Le donne della rivoluzione, Bompiani, Milano, 2003.
— Wu Ming, Robespierre e noi. Pensare l’uguaglianza, capire il terrore, in GQ Italia, Condé Nast Italia, Milano, luglio 2010, ora su http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=984.
— Wu Ming 4, Difendere la Terra di Mezzo, Odoya, Bologna, 2013.
— Wu Ming 4, L’eroe imperfetto, Bompiani, Milano, 2010.
VISIONI
— Robert Enrico e Richard Heffron, La rivoluzione francese, miniserie trasmessa su Rai1 in quattro puntate nel settembre/ottobre 1990.