È alto poco meno di 35 cm e pesa circa un
chilogrammo. Parla, balla, ride, saluta calorosamente quando si rientra
a casa, avverte quando è stanco e ha bisogno di riposarsi.
Prima parlava giapponese, ora conosce anche l’italiano, ma
non è un migrante. Si chiama Robi, suo padre è un
ingegnere, Tomotaka Takahashi, sua madre è la robotica, ma
l’albero genealogico è piuttosto ramificato nei
territori della scienza e dell’immaginazione.
Robi
è un androide, non è un’invenzione
letteraria o cinematografica e non è destinato a uso
industriale, medico o militare. La sua missione è
l’amicizia, far compagnia, rendersi utile, un delicato mix di
lavoratore domestico, pet e bambolotto. È in grado di
comprendere 250 comandi, risponde se chiamato, è dotato di
una scheda per il riconoscimento vocale e ha più grazia nel
muoversi rispetto all’andatura goffissima che ha sempre
contraddistinto i robot, anche se c’è ancora un
po’di strada da fare. La scheda è situata nella
testa, così come un telecomando, che, grazie
all’emissione di impulsi a infrarossi, gli consente di
accendere, spegnere, cambiare canale e regolare il volume delle
televisioni compatibili. Può funzionare da timer in cucina e
pulisce i pavimenti. Ha una presa cosiddetta morbida,
può tenere in mano oggetti leggeri come dei fogli di carta,
comunica emozioni attraverso la variazione del
colore degli occhi (rossi, gialli, azzurri e altre tonalità)
ovvero grazie a dei Led colorati che illuminano anche la bocca, ma
questa è sempre rossa. Si stanca e lo segnala, si
è detto, ma è normale, è umano,
verrebbe da dire. Per consentirgli di riposare è necessario
farlo sedere sulla sua stazione di ricarica: un’apposita
sedia gialla, dopodiché occorre premere il tasto
“accensione”.
Parla giapponese con la voce
di una famosa attrice e doppiatrice del Sol Levante, Ikue
Otani, che ha lavorato in serie tv come Pokémon
(Pikachu), One Piece (Tony Tony Chopper), Detective
Conan (Mitsuhiko Tsuburaya) e My 3 Daughters
(Fu). La familiarità si conquista anche così.
Anche in Italia, dove infatti la scelta è caduta su Davide
Garbolino, doppiatore che ha prestato la sua voce anche a protagonisti
di film di animazione come Pokemon, Dragon
Ball, Kimba, Detective Conan
e Batman.
Infine, Robi ha un periodo di
gestazione, quasi una gravidanza prima di accoglierlo per intero in
casa: lo si può acquistare solo un pezzettino alla volta, a
puntate, in edicola, come hanno educato a fare decenni fa le collezioni
di figurine dei F.lli Panini. Anche in questo caso, alle spalle
c’è un gruppo editoriale, la De Agostini
Publishing. Inoltre, poiché anche il commercio si
è evoluto, accanto al classico giornalaio si è
affiancato il più autorevole e-retailer del globo: Amazon.
Il futuro è andato diversamente da come se lo immaginava
Alberto Sordi quando girò e interpretò Io
e Caterina (1980). Lì l’androide
arrivava già completo e aveva sembianze femminili;
l’immaginario erotico intrecciava un comico e grottesco
amplesso con quello tecnologico. Robi deve essere costruito, ma
montarlo è easy, occorre un semplice cacciavite. Ogni
dispensa concorre a formare Robi e il racconto della sua genealogia,
perché in allegato ai pezzi della singola uscita, oltre alla
guida al montaggio, c’è un fascicolo dedicato alla
robotica, alla sua storia e ai robot protagonisti in serie televisive e
film, per un totale di quasi mille pagine.
Eccolo dunque Roby, al momento l’ultimo nella scala
evolutiva del robot, razza che da sempre incarna la
classica opposizione manichea bene/male, sempre in bilico tra i due
poli, che in questa versione formato Puffo eredita tutto il buono che
c’è nella macchina, o meglio che il nostro
desiderio vi deposita. L’onnipotenza della creazione e il
piacere di possedere una creatura docile, in grado di soddisfare ogni
nostro volere. È così da sempre, ma
poiché a nessuno piace il regime di schiavitù, ci
pensò Isaac Asimov, come è noto, a dare regole
precise ai costruttori di robot e le sue tre leggi della robotica
codificano la morale tecnologica analogamente a quanto dettato dalle
tavole della legge riguardo ai comportamenti umani. Asimov
pubblicò Io, robot nel 1950. Sono i
racconti dove le tre leggi vennero formulate, ma a renderle note al
grande pubblico, senza doverle enunciare esplicitamente, ci
pensò sei anni dopo il lungometraggio Il pianeta
proibito, anche se già nel 1951 erano nel software
del robot Gort (il film è Ultimatum alla terra
di Robert Wise). Del cast de Il pianeta proibito fa
parte il robot Robbie, da cui per esplicita ammissione del management
di Robi, arriva il nome del giovane androide e che, a sua volta
ereditava il nome dal protagonista dal primo dei racconti di Asimov
dedicato ai robot. Non solo il nome però, perché
Robi e il suo nonno cinematografico Robbie sono impregnati dello
spirito del consumo, cercano di essere in sintonia con una figura ben
precisa del capitalismo post fordiano: il consumatore. Questi si evolve
e di conseguenza nei territori dell’immaginario anche il
robot fa altrettanto.
Quello del film del 1956
è ancora impacciato nei movimenti, incarnerà per
anni il prototipo dei robot giocattolo, a loro volta capaci unicamente
di avanzare a scatti dopo essere stati caricati a molla, ma che
intrecciavano un legame forte tra il mondo dell’infanzia e
quello degli adulti/spettatori al cinema. L’infanzia del
consumatore e quella dei bambini del dopoguerra sono
all’ombra del robot, simbolo (insieme all’astronave
che porta tutti in giro per l’universo) di un futuro assai
simile al paese delle meraviglie, di cui la rigogliosa offerta prima di
merci poi di segni, darà alla luce quell’etica
dell’infantilizzazione, autentico motore della
società dei consumi, di cui ci parla Benjamin Barber nel suo
Consumati (Barber, 2010), che la grande crisi
contemporanea oggi rende più difficile (e pericolosa per il
portafoglio), ma sempre irrinunciabile. La genesi è
lì, a metà degli anni Cinquanta, in quella che
anni dopo venne indicata come space-age, non a caso anche
l’età dell’oro degli avvistamenti di Ufo.
Quando
Robbie sforna manicaretti o serve whisky a gogò si
sostituisce al supermercato, al negozio ideale, allo spazio di vendita
dove si entra e, se si dispone di reddito adeguato (o credito
più o meno reale), si prende ciò che si vuole, si
acquista anche per il piacere di farlo, lasciando libero di agire
l’impulso di possedere qualsiasi cosa, ogni giocattolo che si
presenta sotto i nostri occhi… specie se è una
novità; tanto più se il giocattolo è
un robot, segno di modernità, di futuro, porta
d’ingresso a un mondo di meraviglie. Questo era
l’immaginario prima statunitense e poi globale del
consumatore negli anni Cinquanta (e per molto tempo ancora),
l’immaginario di quella figura il consumatore “a
sua volta un prodotto di consumo, ed è tale sua
caratteristica a sancirne l’appartenenza alla
società” (Baumann, 2008). È il distacco
dalla società dei produttori che manterrà come
elemento di continuità la dimensione servile del robot
(d’altronde l’etimo lo condanna per
l’eternità) e la doppia anima adulto/bambino sia
della macchina sia del suo fruitore, il consumatore che ormai acquista
solo in presenza di una componente ludica e/o
d’intrattenimento scegliendo tra prodotti altrimenti simili
per caratteristiche tecniche. Gli standard produttivi occidentali sono
(illeciti a parte) tutti a un livello tale da rendere impossibile
operare una scelta se non in base a fattori come ad esempio la
comunicazione, in particolar modo se social, giocosa, interattiva e
interessante.
L’organizzazione dello shopping e della vita quotidiana ancora modellata sulla fabbrica si è via via sbriciolata. Se ne trovano testimonianze ovunque. Nella vita quotidiana, Robbie è esploso in mille schegge, in innumerevoli elettrodomestici, oggi anche pensanti grazie a software che ne consentono l’interazione con l’ambiente e con gli utenti; nella vita delle nostre fantasticherie, Robbie è lo snodo dalla ingenuità diffusa del primo Novecento, come l’automa G8 che troviamo nelle avventure del Signor Bonaventura, addetto a lavori pesanti come creare un percorso praticabile in un bosco, a Wall.E, un insospettabile erede, l’indefesso robot spazzino protagonista dell’eponimo film prodotto da Pixar Animation Studios mezzo secolo dopo Il pianeta proibito. Oppure c’è Rosie, domestica meccanica armata di piumino, grembiulino e crestina in azione qualche anno dopo nella serie The Jetsons, conosciuti da noi come I Pronipoti (il primo episodio originale è del 1962). Lei è un modello antiquato, ma per affetto non viene sostituita. La famiglia dei pronipoti ne paga il fio, perché ormai Rosie è inadeguata alle nuove esigenze della famiglia moderna, le sue modalità d’uso non sono più soddisfacenti traducendosi in un comico dispotismo del personaggio. L’icona Rosie ha resistito nel tempo al punto di ritrovarne un’erede in Beatrice, apparsa in pubblico a Stazione Futuro, uno degli eventi più importanti organizzati a Torino per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Alta 180 centimetri e di ragguardevole peso, 150 chili, è stata ideata per fare da accompagnatrice nei musei, infatti parla ben trenta lingue. Insomma, non lava i pavimenti, ma la silhouette è proprio quella di Rosie.
Si scivola di continuo su piani diversi nel mondo dei robot, da quello narrativo a quello dell’immaginario consumistico, da quello dell’infanzia al mondo adulto delle applicazioni a uso civile e militare. A far da lasciapassare è sempre l’animo buono del robot. La fantascienza in senso stretto ne ha forniti di esempi, anche prima di Asimov. Il vero primo uomo artificiale a fare da protagonista nella fantascienza si chiama non a caso Adam, Adam Link e lo hanno immaginato i fratelli Binder (Earl and Otto, da cui il nome fittizio Eando), facendone il protagonista di una serie di racconti (il primo è del 1939) poi raccolti in volume (l’ultimo è del 1942) con il titolo originale I, Robot, preso poi a prestito da Asimov. Personaggio, Adam Link, piuttosto stucchevole, che esordisce così: “ Sono nato, sono stato creato cinque anni fa. Sono un robot. Voi umani avete delle difficoltà a crederci. Sono fatto di fili e rotelle, non di carne e sangue. Funziono elettricamente. Il mio cervello è spugna e iridio”. Poi, tanto per esser chiaro, precisa: “Sono stato creato dall’uomo e servirò l’uomo” (Binder, 1978). Si troverà nei guai, perché il suo creatore, un certo dottor Link (ovviamente) morirà accidentalmente e Adam verrà invece sospettato di averlo ucciso. Poi tutto finirà bene e il robot si accaserà anche (con Eve, naturalmente). Il complesso di Frankenstein, come lo chiamerà Asimov, è già qui e rappresenta la deriva melodrammatica del robot, che proprio fa fatica a starsene buono e zitto. Prima o poi si commisera o si ribella, come accade nel fantastico mondo dei robot, come si intitola in italiano il film scritto e girato da Michael Crichton nel 1973. Westworld è il titolo originale, il nome di una specie di Disneyland per adulti (benestanti beninteso) in cerca di emozioni forti, che giocano a fare i cowboy, i cavalieri medioevali o gli antichi e corrotti romani. Qualche meccanismo si inceppa e i robot danno vita a una vera mattanza.
Niente paura, quando un robot va in tilt
è subito sostituito da una nuova generazione di macchine
ancora più efficienti, intelligenti, simili
all’uomo, di animo buono e dediti solo a sollevarci dagli
affanni quotidiani, lavorando per noi e giocando con noi. A volte
succede anche il contrario, che una macchina pensata per la guerra,
guastandosi subisca una metamorfosi diventando buona, come nel caso di
Numero 5, che poi si ribattezza Johnny 5, il robot di Corto
circuito, film del 1986 diretto da John Badham. Succede anche
che due robot infrangano non le leggi della robotica, ma quelle della
morale e per mano (meccanica) di altre macchine più
specializzate (in pratica degli evolutissimi cacciaviti) vengano puniti
con la morte, ovvero smontati. Succede nel video All Is Full
of Love di Björk, diretto da Chris Cunningham nel
1999, con le due androidi in amore, metodicamente disattivate (www.youtube.com).
Il video
è montato al contrario ed è letteralmente la
gestazione di Robi con una sequenza temporale invertita. Robi si monta,
Björk si smonta.
Il vero passaggio di testimone tra
Robbie e il futuro vede però come protagonista C-3PO, il
robot antropomorfo, imbranato quanto basta di Star Wars,
uno dei quattro personaggi, si noti, a essere presenti in tutti gli
episodi della saga. C-3PO di mestiere fa l’interprete e
quando bisogna dialogare con le razze più disparate poste ai
quattro angoli dell’universo, la sua diventa
un’attività di importanza fondamentale, non
proprio un lavoro per tutti. Infatti conosce oltre sei milioni di forme
di comunicazione, know-how che lo rende insostituibile. Se Robbie
fabbricava beni di consumo, C-3PO produce informazione, la merce del
futuro, anzi del presente. Egli (?, esso?) non solo
è schierato dalla parte de buoni, ma è buono di
natura, perché si limita a chiacchierare con chiunque e a
metterlo nei guai è il suo compare scavezzacollo, R2-D2.
Robi, il piccolo robot che in molti hanno iniziato a costruire tra le
pareti di casa condivide del materiale genetico immaginario con C-3PO,
perché l’andatura più disinvolta non
è il suo vero punto di forza. Ciò che conta
è la capacita di dialogare, seppur ai minimi termini, con
l’alieno che c’è in casa,
l’umano. Sembra qui tornare in scena un’altra
relazione tra Altri, quello tra l’uomo e la scimmia,
riassunta in modo esemplare dal signore della foresta
burroughsiano.
Fatto sta che a Robi dovremo
abituarci indipendentemente dal suo successo commerciale,
perché espressione di un nuovo stadio del nostro
immaginario, non votato alla conquista dello spazio esterno (pure
affidato per ora a robot meno antropomorfi), più dedicato
allo spazio interno, ma depurato di quelle inquietudini esplorate da
chirurghi dell’anima come James Ballard. Uno sguardo raccolto
tra le mura domestiche, circondati da nuovi comfort (il desiderio del
consumo è in rigenerazione permanente), non più
la scoperta della stereofonia o l’attesa
dell’incontro ravvicinato del terzo tipo, ma un fiume di app
per ogni necessità e/o superfluità e un
po’ di innocua compagnia da parte di una macchina in fondo
costruita con le nostre mani. Robot che al massimo iniziano a sognare
di condurre anche loro automobili, ovvero altre macchine, quelle su cui
da sempre sfreccia l’immaginario legato alla
virilità. La pensano così alla Peugeot (www.youtube.com),
ponendo alla
guida della nuova 208 un altro androide chiaramente imparentato con
Robi, che non può celare il suo sogno segreto,
perché mentendo gli cresce il naso, come un vecchio
prototipo di cyborg, partorito proprio in Italia, in Toscana,
Pinocchio. In meno di un minuto si salta tutta l’epoca
industriale affollata di robot servili e ribelli, melodrammatici e
pericolosi, quella stagione mai conclusasi della science fiction
più hard, ricca di conflitti, scontri, violenze. Niente di
tutto ciò. Si torna alla fiaba, al preindustriale, tipico
slittamento postindustriale tra i piani della storia, quello che
avviene ogni volta che un nuovo grado di conoscenza consente di
simulare meglio la tradizione, il tempo passato. Il
burattino/androide della Peugeot e il Robi italo/giapponese incorporano
i diversi generi del fantastico senza privilegiarne alcuno. La
tecnologia che li muove ci appare sulle prime strana, non
immediatamente comprensibile, ma ne conveniamo che è frutto
di un sapere, solo troppo alto per tutti, esclusi gli ingegneri che si
occupano di robotica e lo spettacolo che danno in casa o in
tivù è tendente al meraviglioso. Niente di
diverso da quanto accade nei generi un tempo distinti della
fantascienza, del fantasy, della fiaba, ecc, in letteratura, al cinema
e nei videogiochi. In definitiva, quando montiamo Robi, come accadeva
con il Meccano in epoca industriale, stiamo anche incastrando le
tessere di un mosaico composto con il buono, il brutto e il cattivo del
nostro immaginario e non scopriamo il bambino, ma il robot che
c’è in noi.
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