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LETTURE / IL LIBRO DEL GENIO E DELLA FOLLIA


di Fernando Pessoa / Mondadori, Milano, 2012 / pp. XXXVIII-433, € 22,00


 

La divina follia dell'umano

di Licia Petraccone


 

Saggi introversi estrapolati con grande maestria dall’edizione originale da Giulia Lanciani – una delle più importanti lusitaniste italiane – danno vita ad una delle opere più rappresentative di Fernando Pessoa, Il libro del genio e della follia, scelta cospicua tratta dalla raccolta di oltre seicento testi pubblicati in Portogallo nel 2006 dal filologo Jerònimo Pizarro. Il Pessoa che ritroviamo tra queste pagine nella loro quasi totalità inedite, frammenti che ruotano tutti attorno allo stesso tema, cerca di porre un confine netto tra genialità e follia patologica, un tema che gli fu molto caro, tanto da perseguitarlo per tutta la vita, ma con particolare intensità tra il 1907 e il 1914.

Che il tema per Pessoa risulti ineludibile è espresso con chiarezza in una sua lettera all’amico Casais Monteiro in cui lo scrittore palesa il legame tra la propria follia (“un profondo tratto d’isteria”) e l’origine degli eteronimi, le tante persone, le tante personalità che lo stesso autore ha reso vive – dotandole perfino di una pseudo anima, di precise, puntuali “origini” anagrafiche – al fine di mettersi in contatto col mondo, forse, meglio, di esprimere la molteplicità del suo percepire e sentire, la strategia scelta per dare conto dell’urgenza espressiva che lo agita.

Qui la dimensione possibile di malessere, di disagio psichico espresso attraverso la moltiplicazione delle “sorgenti” della comunicazione artistica, di alter ego come Bernardo Soares Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro diventa espressione della fungibilità dell’identità, della consapevolezza – tutta novecentesca – della fragilità del , della sua inconsistenza e frammentazione.

Tali personaggi infatti rimandano continuamente al rapporto fra l’individuo e la realtà, fra l’io e il mondo esterno. Prima fra tutti Soares, “autore” de Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares (Pessoa, 2011), opera che costituisce la percezione e insieme l’alterazione dei dati dell’esperienza pessoiana. Così l’affermazione dell’alter ego di Pessoa, Soares, contenuta qui, “Il genio è la peggiore maledizione con cui Dio può benedire un uomo”, si rivela essere parziale, incompleta. Se il genio è una maledizione, ha anche un’altra faccia: quella di un dono che ad alcuni di noi è concesso, il talento di farsi interprete delle interrogazioni degli umani su se stessi, sulla realtà, sul senso delle cose.

La follia per Pessoa diviene rielaborazione di un’esperienza dell’anima, non nel senso del suo collasso, della chiusura al senso, dell’ottundimento dell’ordine dei significati, ma nella consapevolezza che le esperienze dell’anima sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e disporle in successione ordinata perché, al di là di ogni ordine razionale, l’anima sente che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile supera il reale, che ogni tentativo di comprensione totale emerge da uno sfondo abissale che è caos, apertura, disponibilità per tutti i sensi (Galimberti, 2012).

Lo scrittore Pessoa è fingidor, è sognatore, ed è proprio attraverso il mondo onirico che nascono parole che poi la ragione ordina in una sequenza non oracolare, non enigmatica. Quel mondo che sta prima della ragione e che offre a quest’ultima i contenuti da ordinare per una produzione compiuta di senso è il mondo che Platone nel Fedro chiama della divina follia – theia manìa (Platone, 2000) – dove le cose trasgrediscono le loro definizioni e si offrono come irradiazioni di immagini rinvianti a quell’ulteriorità di senso che anche le più comuni esperienze non cessano di diffondere, quando sfuggono al controllo dell’anima razionale. Sebbene quindi – sulla scia di Platone – la conoscenza del mondo sia affidata all’umana ragione, quest’ultima non sarà mai tale completamente se non presuppone la conoscenza di sé, affidata all’umana “follia”.

Vediamo inoltre che per Pessoa l’arte moderna è arte di sogno. “In epoca moderna si è affermata la distinzione tra il pensiero e l’azione, tra l’idea dello sforzo e l’ideale, e tra lo sforzo stesso e la realizzazione. […] Dacché l’arte moderna è divenuta arte personale, era logico che il suo sviluppo si orientasse verso una sempre maggiore interiorizzazione: verso il sogno […] e per comunicare il suo sogno (l’ autore) deve avvalersi delle cose che comunicano il sogno”, come la scrittura.

La scrittura pertanto è un’attività complessa, è insieme preferire il proprio immaginario e voler comunicare. E nel “caso Pessoa” potremmo parlare di arte che allevia dalla vita senza alleviare dal vivere. Perché nelle opere del nostro autore ciò che diviene palese è il suo mal-de-vivre espresso come una denuncia, la denuncia che Pessoa si pone verso il suo desassossego, derivato regressivo di desassossegar, che in portoghese indica una perdita o una privazione: la mancanza di sossego, cioè di tranquillità e di quiete. Una sorta di “incompetenza verso la vita” propria dell’uomo superiore. Incompetenza che diviene – come nel genio – incapacità di vivere la quotidianità. Impossibilità di accettare la quotidianità. Perché non esiste condivisione e accettazione per ciò che non risulta sensato, per ciò che appare drammaticamente assurdo. L’uomo superiore è uomo solo perché sa che ogni suo sforzo, ogni logica, sfugge da qualsivoglia legge generale. Il genio ha un’unica certezza: quella della fine della propria esistenza. Allora vive, o scrive, il ché è la stessa cosa. Osserva altri che “vivono come se dovessero vivere in eterno” (Bove, 2011) e lascia il perturbante all’interno del proprio animo. Accetta la verità reale – presupponendo che quest’ultima esista – come qualcosa di inverosimile e per rendere la verità più verosimile bisogna che la mescoli con la menzogna. È questo allora che lega il genio al folle, è questo che rende sfumati i confini e inquieti gli animi.

Riflessione, Coscienza e Sforzo sono infatti le qualità che Pessoa riconosce al surhomme, un uomo grande, superiore… l’uomo superiore infatti pensa con maggiore precisione, sente più profondamente, desidera in modo più immediato. È fortemente immaginativo e perspicace, è contemplativo e uomo d’azione … è genio e per questo è anche uomo disadattato, è uomo sofferente, frustrato, è uomo depresso e solo. E seppur tutto ciò rende spesso il genio vicino al folle, il primo mantiene comunque un contatto con l’ambiente, tende a distanziarsi solo dall’ambiente contiguo. Il Pessoa che ritroviamo ne Il libro del genio e della follia ci appare così un uomo che cerca di comprendere il proprio essere asociale, il suo sentirsi “estraneo”, incompreso, il suo essere “altro”, tentando – attraverso brevi saggi introversi – di superare la visione psicanalitica lombrosiana del suo tempo – che mette in relazione genio e follia senza marcarne confini chiari.

Quello di Pessoa può sembrarci così apparentemente un monologo, se si vuole un vaniloquio, un delirio: in realtà è un dialogo incerto, un dialogo con interlocutori inesistenti, in certi casi una conversazione mancata.

Nella sua paranoia di poeta che odia lo sguardo altrui e si rifugia nella solitudine di una scrittura occultata, con la sua metafora dell’espelho partido (lo specchio infranto), egli usa l’eteronomia come modo di vedersi e di vedere il mondo. Dunque è questo il terreno in cui si muove Pessoa. Un soggetto che patisce tra genialità e follia – follia come esperienza di spersonalizzazione (Barthes, 2010) – la propria precarietà, il proprio non-senso, la propria sostanza imperfetta. E seppure l’immaginazione letteraria suppone che altri siano noi e che debbano sentire come noi, ogni uomo è soltanto chi è e “al genio è concesso soltanto di essere qualche persona in più” (Pessoa, 2011).

 


 

LETTURE

  Barthes Roland, Dove lei non è, Einaudi, Torino, 2010.
  Bove Emmanuel, La coalizione, Lavieri Edizioni, S. Angelo in Formis, 2011.
 Galimberti Umberto, Eros e Psiche, Albo Versorio, Milano, 2012.
 Platone, Fedro, Bompiani, Milano, 2000.
  Pessoa Fernando, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, Feltrinelli, Milano, 2011.