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ASCOLTI / ALLELUJAH! DON’T BEND! ASCEND!


di Godspeed You! Black Emperor / Constellation Records, 2012


 

Elogio dell'usato sicuro

di Livio Santoro


 

Non c’è di che stupirsi, questo lo sapevamo bene già prima, lo immaginavamo almeno. I Godspeed You! Black Emperor, dopo l’intensa stagione di live che li aveva riportati tra il 2010 e il 2011 in giro per l’Europa e il Nord America a interrompere un silenzio quasi decennale (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 32), tornano finalmente con un nuovo album da studio: Allelujah!, che poi, oltre al grido internazionale dei fan dei cinque continenti, con Don’t bend! Ascend!, e dunque con ancor più generosa elargizione di esclamativi, sarebbe anche il titolo dell’album medesimo, il sesto della band di Montreal. Alcuni, i più impertinenti, potrebbero sostenere che questo ritorno, esattamente a un decennio di distanza dall’ultima registrazione da studio (Yanqui U.X.O., album che precede Allelujah! Don’t bend! Ascend!, risale al 2002), possa essere frutto di quella necessità di fare cassa che, anche nella musica indipendente (si sappia perdonare l’espressione fastidiosa), fa breccia nonostante inneggianti manifesti chiaramente affissi contro il dominio del capitale. Altri, forse più accorti, potrebbero invece affermare che diamine! il lavoro della gente va comunque remunerato, e questa storia del capitale lascia il tempo che trova, andiamo!, d’altronde siamo qui, in un modo o nell’altro ci troviamo in questo mondo… I primi, quelli più impertinenti, potrebbero allora rilanciare ma come, proprio loro? proprio i Godspeed You! Black Emperor? E in questa loro dietrologia sul marcio capitalismo che corrompe anche i suoi più fieri oppositori si potrebbero far forti di una gustosa coincidenza: ossia che l’album di cui si è appena cominciato a parlare viene lanciato sul mercato (n.b., il mercato) proprio in concomitanza con il quindicesimo anniversario della Constellation Records, etichetta canadese che proprio insieme agli otto più uno (otto musicisti più un videomaker, come da attuale line-up) di Montreal è nata, cresciuta, e si è affermata. Ricorrenza che, sia detto non soltanto a margine, è stata festeggiata sui palchi d’Europa tra gli scorsi novembre e dicembre senza lesinare su merchandise, tranquille scene di distratto divismo ed entrate a pagamento. Al che i più accorti potrebbero ribattere ancora più accomodanti (ché gli impertinenti succitati non facilmente lasciano la presa, sono cagnacci tignosi): tutto vero, non c’è che dire, figuriamoci! Ma potrebbero anche ricordare che quando i Godspeed You! hanno chiuso la prima serata delle celebrazioni europee dell’etichetta in quella comunità di squatters ripuliti che ospita il Dachstock di Berna, giorno sedici novembre 2012 (dunque a un mese e un giorno dall’uscita di Allelujah!), tutte queste polemiche gli sono sembrate soltanto fumo, carta straccia, una serie inutile di parole inutili per dare vita a chiacchiere inutili; simili a quelle che si fanno al bar la mattina, nella sala d’aspetto dell’oculista o alla fermata del bus, per intenderci meglio (e questo lo diciamo per esperienza: sia delle chiacchiere inutili che della celebrazione di Berna). Perché, è vero e bisogna dirlo, il materiale proposto nel nuovo album non è assolutamente innovativo e non si muove terribilmente sulle pareti del suono con lo stesso vigore che avevano f#a#∞ (1997/1998), Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven (2000) e il già citato Yanqui U.X.O. (2002) – se escludiamo dal computo le rare musicassette d’esordio di All Lights Fucked on the Hairy Amp Drooling (1994) –, ma avercene di album poco innovativi come questo. La vena che contraddistingueva i vecchi lavori, se possibile, in Allelujah! si dissolve nel tempo e nello spazio. La tenace convinzione nel crescendo resta anche qui, naturalmente; ma se nel passato, pensiamo soprattutto a brani come Moya (dell’ep, Slow Riot for New Zerø Kanada, 1999) ed East Heastings (1997/1998) – brano che tra l’altro compare nella colonna sonora del film del 2003 28 giorni dopo (Boyle, 2013) –, si trascinava attraverso una sorta di beatitudine del grigio, innalzandosi quasi dolcemente e magari precipitando improvvisamente, ma anche con calma, nelle spirali del silenzio, in Allelujah! si dilata e si estremizza, allungandosi a dismisura e soprattutto giocando crudelmente e spigolosamente con le ansie dell’ascoltatore. Si prenda a tal proposito l’opening track Mladic, odissea di venti minuti che nella sua prima metà sembra non voler smettere di espandersi, fagocitando materia col suono: secca, ruvida molto più del solito, forte di inserti arabeggianti (forse provenienti dall’esperienza di Thierry Amar, bassista della band, con l’ensemble di Osama “Sam” Shalabi Land of Kush?) che dialogano in una lingua assai strana con la sporcizia di certe chitarre quasi industrial. Raggiunto il parossismo si adempie così al compito della simmetria, e singhiozzando di alti e bassi la narrazione comincia ad accomodarsi nuovamente su toni pianeggianti, fino addirittura a scoprirne il sottosuolo, nel rumorismo del finale che conclude e risolve la tensione accumulata nei minuti precedenti. Their Helicopter Sing, secondo brano, raccoglie allora l’eredità di un animo già fiaccato dai venti minuti di Mladic, lasciando che questo possa ragionare, ma non troppo. Qui la narrazione diventa bassa e monotona, è vero, ma gli archi possono sfogare quelle dissonanze che prima erano rimaste sopite per organizzarsi e venire fuori più avanti. Nulla di esaltante, d’accordo, ma non è l’esaltazione che deve offrirci Their Helicopter Sing. Perché la funzionalità di questo brano sta forse nel preparare il campo al successivo, We Drift Like Worried Fire, venti minuti come Mladic, che insieme a quest’ultimo esprime la vera struttura portante del disco. Qui gli archi riprendono fiato, e accompagnano, anzi trascinano come erano avvezzi a fare in passato, l’incedere del brano, introducendo e lasciando un po’ di spazio alle chitarre, in una combinazione assai classica nella produzione dei Godspeed You! Proprio We Drift Like Worried Fire ci riporta agli antichi fasti della band (talvolta strizzando l’occhio alle sonorità più sinuose dei Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra, alter ego artistico della band che con i Godspeed You! Black Emperor condivide l’etichetta e tre dei suoi musicisti). Come in Mladic anche qui l’incedere della narrazione è vagamente simmetrico. Anche qui è proprio nella parte centrale, nel mezzo geometrico, del brano che si tocca il parossismo. La seconda parte è un saliscendi garbato, che non eccede nei toni e non fa mostra di troppo strazio, a quello ci aveva già pensato Mladic. Sicché l’album si chiude con Strung Like Lights at Thee Printemps Erable (sei minuti e mezzo, come Their Helicopter Sing), in cui sono soprattutto le chitarre, questa volta, a dimostrare la necessità della dissonanza.

La struttura dell’album è chiara, dunque, suggerita in maniera immediata dalla durata dei brani, dalla loro costruzione singolare e comparata nell’insieme, e dall’avvicendarsi di chitarre e archi nel sostegno a quelle teorie che, da sempre, caratterizzano l’impianto non soltanto musicale (ma anche di concetto espresso, di narrazione in senso ampio) dell’ensemble di Montreal.

Allelujah! Don’t bend! Ascend! non è niente di nuovo, lo ripetiamo e siamo d’accordo con chi lo sostiene e continuerà a sostenerlo. Ma talvolta la fiducia e il credito che ci vengono offerti dall’usato sicuro già di per sé sono gran cosa. D’altronde, se proprio vogliamo dirla, per contrastare quel marcio capitalismo di cui sopra si diceva (quello che metteva in disaccordo un interlocutore impertinente con uno accomodante), a volte non è meglio riusare ciò che ancora funziona bene, seppure non riluce del fulgore all’ultimo grido?

 


 

LETTURE

  Godspeed You! Black Emperor, All Lights Fucked on the Hairy Amp Drooling, (Mc), autoproduzione, 1994.
Godspeed You! Black Emperor, f#a#∞, Constellation Records (2 Lp)/Kranky (3 Cd), 1997/1998.
Godspeed You! Black Emperor, Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven, Constellation Records, 2000.
Godspeed You! Black Emperor, Yanqui U.X.O., Constellation Records, 2002.
Land of Kush, Against the Day, Constellation Records, 2009.

 


 

VISIONI

Boyle Danny, 28 giorni dopo, 20th Century Fox Home Entertainment, 2013.