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VISIONI / HOMO SAPIENS. LA GRANDE STORIA DELLA DIVERSITÀ UMANA


(a cura) di Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani / Museo delle Scienze, Trento, 20/09/2012 – 13/01/2013


 

Terrestri in mostra

di Fabio Bartoli


 

La mostra internazionale Homo sapiens. La grande storia della diversità umana ha visto il suo esordio al Palazzo delle Esposizioni di Roma, dove si è tenuta dall’11 novembre 2011 al 9 aprile 2012, per poi essere replicata in una forma più contenuta al Museo delle Scienze di Trento. L’idea di rendere la scienza spettacolare e fruibile ai più era già stata attuata, anche in tempi recenti, con mostre come Charles Darwin 1809 / 2009 e Astri e Particelle. Le parole dell’universo, che avevano suscitato una risposta da parte del grande pubblico decisamente confortante. Nell’ottica di questo cammino, Homo sapiens sancisce un ulteriore passo in avanti, poiché in questo caso siamo chiamati a contemplarci anche in qualità di oggetto di questa rappresentazione multimediale dei più recenti progressi di varie branche del sapere scientifico che, chiamate a collaborare in vista di uno scopo comune ed esortate ad abbandonare gli steccati di incomunicabilità in cui spesso si sono auto-ghettizzate, oggi proiettano una luce fulgida come non mai sulla nostra storia evolutiva, obbligandoci a riflettere sulla nostra collocazione all’interno del pianeta solo adottando i parametri del tempo profondo dell’evoluzione. Non è certo un caso se uno dei suoi curatori (oltre a Telmo Pievani, filosofo della scienza e suo prestigioso e prolifico divulgatore) sia appunto Luigi Luca Cavalli Sforza, genetista di fama mondiale, promotore di un vastissimo programma di ricerca interdisciplinare volto a portare alla luce le strettissime interdipendenze tra geni, popolazioni e lingue e quindi tra evoluzione naturale e culturale; Geni, popoli e lingue (Cavalli Sforza, 1996) è il titolo di uno dei suoi libri più noti, assegnato anche alla terza sezione della mostra, volta – tra le altre cose – proprio a ricostruire il percorso che ha portato alla diversità culturale di Homo sapiens sviluppatasi a partire dalla sua unitarietà biologica. Ma questo è un capitolo già piuttosto avanzato – appunto – della grande storia della diversità umana, che prima del cervello, e prima finanche delle mani, nasce dai piedi. Ed è giustamente da questi che parte la mostra per raccontare al pubblico la nostra meravigliosa storia di esseri umani da quando, tra i sei e i sette milioni di anni fa, iniziammo a separarci dall’antenato comune che condividiamo con lo scimpanzé, e da questi partiremo anche noi per raccontarla a nostra volta ai lettori di Quaderni d’Altri Tempi. Considerata la vocazione di questa rivista, la mostra sarà raccontata in maniera ulteriormente spettacolarizzata, decostruita secondo parametri paraletterari. Si invitano i lettori a non considerare questa impostazione come una pretestuosa forzatura, giacché la stessa scienza si sviluppa in stretto rapporto dialettico con l’immaginario culturale; d’altronde anche lo stesso Pievani, nel video-messaggio di benvenuto alla mostra, afferma che “La scienza ci abitua sempre di più a grandi storie”. Una grande storia è per esempio quella narrata da Frank Capra nel suo film La vita meravigliosa, da cui il paleontologo Stephen Jay Gould, anch’egli celebre divulgatore (tanto da apparire nell’episodio de "I Simpson" Lisa, che scimmietta!), ha mutuato il titolo e il concetto di fondo di un suo saggio in cui scrive: “Io temo che l’Homo sapiens sia una «cosa tanto piccola» in un vasto universo, un evento evolutivo estremamente improbabile nell’ambito della contingenza. Il lettore può prendere questa conclusione come gli pare. Alcuni troveranno questa prospettiva deprimente; io l’ho sempre considerata esaltante: una fonte insieme di libertà e di conseguente responsabilità morale” (Gould, 1990). Lo stesso vale per il lettore di questa recensione, che adotta la prospettiva di Gould così come la fanno propria la mostra e il catalogo a essa abbinato, curato dagli stessi Cavalli Sforza e Pievani e pubblicato da Codice Edizioni; si può scegliere se sposarla (e allora il proseguimento della lettura è vivamente consigliato) oppure rigettarla, ma ci si lasci comunque suggerire che una storia contingente, proprio perché non predeterminata, è una storia di infinite possibilità e quindi di estrema libertà, e perciò senz’altro più affascinante di qualsivoglia rigido copione attribuibile alla provvidenza.

In principio era il piede. La mostra inizia in oscure stanze dalla luce soffusa riempite di suoni cupi e minacciosi, che ci ricordano del nostro passato più remoto e fragile, quando eravamo in balia dell’ambiente naturale e non ancora suoi apparenti dominatori. Fondamentale (anche fuor di metafora) per intraprendere il cammino che ci ha portati a essere umani, a “sollevarci” dalla nostra condizione eminentemente naturale per infilarci nell’intricato sentiero dell’evoluzione culturale, è stata l’acquisizione del bipedismo, che ha avuto costi sostenuti ripagati però da benefici enormi: “Il bipedismo ha avuto […] imprevedibili effetti collaterali, che hanno cambiato il corso della nostra evoluzione. […] L’abbandono dell’andatura quadrupede comporta infatti una riorganizzazione costosa di tutta l’anatomia: rende più instabili, porta a esporre gli organi vitali, restringe il canale del parto nelle femmine ed è più difficile da apprendere per i cuccioli. […] Dobbiamo dunque supporre che la selezione naturale abbia favorito gradualmente questo cambiamento in virtù di un vantaggio sostanziale. Se siete scimmie antropomorfe africane obbligate a sempre più frequenti spostamenti in radure aperte e infuocate, ridurre la superficie corporea esposta al sole tropicale ed equatoriale può essere un’ottima idea, così come ergersi in allerta sopra le distese erbose. […] Quale sia stata la sua funzione iniziale, a noi […] il bipedismo ha regalato doni preziosi come la corsa sulle lunghe distanze e l’uso libero delle mani, dotate di pollici opponibili più lunghi di quelli di una scimmia antropomorfa che permettono la presa di precisione. Senza contare che un bipede, al bisogno, può comunque arrampicarsi su un albero o nuotare. Al costo di qualche acciacco, magari, ma ne è valsa la pena, perché il nostro successo come esploratori planetari trova le sue radici in questa rivoluzione anatomica incompiuta e nei suoi effetti, in ultimo, culturali” (Cavalli Sforza e Pievani, 2011).

Uno dei primi exhibit interattivi della mostra non può allora che chiamarsi Ci sono molti modi di camminare; esso invita il visitatore a scorrere il dito lungo una barra luminosa, riproducendo così, a seconda della corrispondenza con una determinata specie, l’andatura bipede dello scimpanzé o dell’australopitecina, del neanderthal o del sapiens. Così tanti sono infatti i modi di essere bipedi da aver indotto l’antropologo Tim White a dichiarare che la diversità delle camminate ancestrali era tale che a immaginarla si sentiva catapultato nel bar intergalattico di Guerre Stellari (cit. in Pievani, 2012). Si pone così subito in evidenza uno dei messaggi principali veicolati dalla mostra, ispirato dagli avanzamenti delle scienze negli ultimi decenni: il rapporto tra le specie non va infatti inteso né in maniera gerarchica, con l’uomo (guarda caso) sempre posto in cima alla piramide, né – relativamente alle specie ominine – in maniera progressiva, come vuole la classica iconografia unilineare che vede le diverse specie sfumare per lasciare inevitabilmente il passo al compiuto e perfetto Homo sapiens. Dal modello filogenetico unilineare dell’evoluzione umana, legato all’ottica del gradualismo filetico della Sintesi moderna di cui Ernst Mayr è stato uno dei maggiori esponenti, si è infatti passati a un modello a cespuglio derivato dalla Teoria degli equilibri punteggiati di Niles Eldredge e Gould (Eldredge, 1991), materialmente rappresentato anche nella mostra in modo da far comprendere ai visitatori quante e quali siano state le specie ominine, quanto a lungo siano esistite e per quanto tempo abbiano eventualmente convissuto: nel corso di sei milioni anni di storia sono infatti esistite venti specie ominine (Tattersall, 2007) e solo fino a 40.000 anni fa, un battito di ciglia nell’ottica del tempo profondo dell’evoluzione, ben cinque di esse coesistevano. La solitudine dell’Homo sapiens, che tanto ci pare scontata nell’ottica di un fallace cammino di perfezionamento della specie, è infatti solo un’“invenzione recente” (Pievani, 2011). Scrive sempre Gould: “La vita è un cespuglio che si ramifica copiosamente, continuamente sfrondato dalla sinistra mietitrice dell’estinzione, non una scala di progresso prevedibile. La maggior parte delle persone lo sanno forse a parole, ma non hanno quest’idea radicata profondamente nel loro intelletto. Noi facciamo perciò di continuo errori ispirati dalla nostra adesione inconscia alla scala del progresso, anche quando neghiamo esplicitamente una tale antiquata concezione della vita” (Gould, 1990). Ora torniamo ai piedi.

Per rimarcare ulteriormente l’importanza che essi hanno rivestito nella nostra storia naturale e culturale, la sua dimensione concettuale viene infatti simbolicamente circoscritta proprio a dei passi: si va dalla “prima” camminata dell’umanità impressa nel tufo di Laetoli, in Tanzania, che l’ha raccolta 3,75 milioni di anni fa nel grembo delle ceneri eruttate dal vulcano Sandiman mescolatesi alla pioggia (l’evento viene ricostruito tramite l’installazione multimediale Immersione a Laetoli), fino alla celeberrima camminata sulla Luna di Neil Armstrong. Tra questi apogei mondiali del bipedismo, si collocano delle “nostre” Ciampate del Diavolo, provenienti dal sito di Tora e Piccilli (CE), con molta probabilità lasciate da esseri umani intenti in una fuga disperata nel mezzo di un’eruzione del vulcano di Roccamonfina. Un percorso, questo, che racchiude idealmente la storia dell’essere umano, peculiare “proprietà emergente della natura” (Pievani, 2002). Proprio per questo, dalle riproduzioni dei minacciosi umori delle intemperie naturali, si sfuma via via nella dolce musica che accompagna la grande rivoluzione paleolitica (a proposito di musica: nella mostra è esposto “lo strumento più antico del mondo”, il Flute 1, risalente a circa 35.000 anni fa), attraverso la quale siamo diventati mentalmente, oltre che anatomicamente, moderni e che trova anch’essa spazio nella multiforme terza sezione della mostra.

Ma questa storia, questa grande storia fatta a sua volta di grandi e piccole storie, epiche nella loro straordinaria ordinarietà, ha bisogno dell’introduzione dei suoi protagonisti per essere raccontata a dovere. Protagonisti di quella che è una storia, seppur a suo modo eroica, svoltasi in tempi bui, coralmente attuata da anonimi paladini la cui vicenda si perde in una notte di tempi antecedenti l’avvento della civiltà per come noi la intendiamo. A correrci in aiuto nel conferirgli un volto è la pratica scientifica di assegnare un nome a ogni fossile rinvenuto, facendo in modo tale che il principio dell’individuazione che ne è a fondamento dia un’identità precisa e universalmente riconoscibile a entità così remote e distanti dal concetto stesso di individualità. Si pensi alla famosa Lucy, esemplare femmina della specie Australopithecus afarensis, sorta di ambasciatrice della paleoantropologia in tutto il mondo, il cui scheletro è ricostruito all’interno della mostra. Lucy, anche grazie al suo nome mutuato da una canzone dei Beatles (Lucy in the sky with diamonds), ha reso familiare anche al pubblico dei non addetti ai lavori una specie ominina altrimenti sfuggente, indecifrabile. Un conto infatti è spingere la nostra mente indietro nel tempo per cercare di riannodare il filo che ci lega a una specie esistita milioni di anni fa; un altro è cercare le nostre tracce perdute nel cammino di Lucy, la piccola Lucy resaci così familiare dal richiamo al brano psichedelico dei Fab Four.

Lo stesso può dirsi per i due ospiti più illustri della mostra, presenti nella loro autenticità di reperti, ovvero Australopithecus sediba e Homo georgicus, esemplari che negli ultimi anni hanno contribuito a dotare di ulteriori fronde il cespuglio dell’evoluzione umana. Soprattutto il primo – rinvenuto dal paleoantropologo Lee Berger nel 2010 (Berger, 2012) – in virtù della sua recente scoperta sta all’esposizione come l’amico interessante appena conosciuto sta a una serata di socializzazione, suscitando una sincera curiosità e grandi aspettative in questo caso ampiamente ripagate.

Una profonda empatia è invece suscitata dalla ricostruzione del Ragazzo del Turkana, fatta a partire dal fossile rinvenuto dal team di ricerca di Richard Lekey nei pressi del lago eponimo in Kenya di un giovane esemplare di Homo ergaster morto adolescente. L’esortazione lanciatagli dai curatori della mostra, Corri, ragazzo del Turkana!, sembra invitarlo a sfuggire al suo triste destino, anche se la sua ragione principale risiede nella sua appartenenza alla prima specie davvero “camminatrice” del genere Homo, con conseguenze alle quali tra poco si farà riferimento.

Ancora più prematura la morte del cucciolo di Lagar Velho, fossile rinvenuto in Portogallo di un bambino sepolto che alcune voci della comunità scientifica suggeriscono essere frutto dell’ibridazione tra un sapiens e un neanderthal, che convissero in Europa prima che questi ultimi si estinguessero circa 28.000 anni fa. Altri, meno soggetti al fascino di accattivanti suggestioni, credono invece che si tratti “solo” di un cucciolo di sapiens particolarmente robusto.

A proposito dei neanderthal, a questi nostri “cugini” così tanto bistrattati in passato si è voluto dare il giusto riconoscimento – e il giusto spazio – in una stanza interamente dedicata. Un esemplare della specie è stato rappresentato in una forma anziana per sottolinearne la longevità, a testimonianza di una vita non così bruta come si è creduto per troppo tempo. Nella dialettica tra storia naturale e immaginario culturale il neanderthal è stato infatti da principio relegato in una dimensione animalesca e subumana, “altro da noi” in grado di rassicurarci riguardo la nostra celeste unicità. L’immagine dei neanderthal come esseri rozzi e brutali, dovuta all’interpretazione più ideologica che scientifica che dei loro primi fossili diede Marcellin Boule, si riflesse nelle opere di Zdenek Burian, “le cui pitture e sculture ci hanno restituito l’immagine di uomini e donne che si muovevano strascicando i piedi, con le spalle curve e lo sguardo fisso e privo di ogni espressione, e con atteggiamenti animaleschi nel modo di consumare i pasti e organizzare le relazioni sociali: bruti appunto, da tenere accuratamente estranei non solo alla nostra storia biologica, ma anche a quella culturale. Ancora una volta insomma se eravamo proprio costretti ad ammettere che prima della nostra comparsa fosse successo qualcosa, ebbene che almeno tra noi e quel qualcosa ci fosse un salto genetico e psicologico, in modo da non turbare l’idea che solo noi eravamo gli uomini con la U maiuscola. Se dovevamo avere degli antenati, che fossero molto diversi da noi: nostro, e solo nostro, doveva rimanere il posto di vertice in un’inesistente scala evolutiva. Non eravamo infatti unici, perché modellati per assomigliare a colui che veniva considerato l’artefice della creazione, cioè di un evento del quale non c’è traccia alcuna nella natura? Che magnifico risveglio quello che ha fatto di noi delle «scimmie evolute» invece che «angeli decaduti». Come ebbe a dire l’antropologo francese Paul Broca nel 1870: «Preferirei essere una scimmia perfezionata invece di un Adamo degenerato».” (Biondi e Rickards, 2004).

Per ogni Adamo è presente anche una Eva, che nella mostra assume le sembianze dell’Eva mitocondriale, il “volto” che nel 1987 è stato dato alla matrice originaria di DNA mitocondriale comune a tutti gli esseri umani. Anche in questo caso, il bisogno insopprimibile dell’essere umano di raccontare e raccontarsi storie con protagonisti ben definiti ha avuto la meglio sull’oggettività dei fatti: “La tentazione di chiamarla Eva è stata troppo forte, anche se fuorviante, perché non c’è mai stata una sola donna. Eva faceva parte di una popolazione, aveva padre e madre, figli e figlie. […] Ma perché è rimasta proprio una sola matrice, comune a tutti, per il DNA mitocondriale e per il cromosoma Y? Lo si può capire con un esempio. Se abitate in un piccolo e isolato villaggio di montagna, senza o con scarso arrivo di forestieri, i cognomi dei paesani diventeranno sempre meno, e al limite ne resterà solo uno. Non essendoci infatti immissione di nuovi cognomi, e perdendosi un cognome ogni volta che una coppia ha soltanto figlie femmine o non si riproduce, questo processo di estinzione casuale farà sì che alla fine tutti porteranno il medesimo cognome. Nel piccolo gruppo fondatore iniziale di tutti gli esseri umani attuali, lo stesso può essere accaduto per il cromosoma Y, che come i cognomi si trasmette solo per via maschile, e per il DNA mitocondriale a trasmissione solo femminile” (Cavalli Sforza e Pievani, 2011). Se pensiamo che meccanismi evolutivi come questo, noti come “deriva genetica”, danno luogo a quello che è chiamato “effetto del fondatore”, viene allora davvero spontaneo accostare a Eva Adamo, il “fondatore” dell’umanità, anche se siamo ben consapevoli che questa si è sviluppata a partire dalla “degenerazione” della scimmia. Appare inevitabile che le associazioni si rincorrano e le storie si intreccino; d’altronde è il pensiero simbolico che ci rende sapiens e farvi ricorso per noi è inevitabile. La nostra storia, quindi, ha trovato i suoi protagonisti. Ma che genere di storia essi ci permettono di raccontare?

Quel che è certo è che “la grande storia della diversità umana” è un’appassionante e coinvolgente storia d’avventura, frutto della nostra attitudine a “guardare oltre la collina” (Cavalli Sforza e Pievani, 2011) che ci ha reso l’unica specie cosmopolita e invasiva. Una storia suddivisa in tre grandi capitoli, ognuno dei quali trova il suo incipit sempre e comunque nello stesso luogo, l’Africa. Con buona pace dei sostenitori dell’ipotesi dell’evoluzione multiregionale, secondo la quale l’essere umano si sarebbe evoluto parallelamente in luoghi diversi, la teoria dell’“Out of Africa” ormai è sempre più consolidata in ambito paleoantropologico (Cavalli Sforza, 2010; Cavalli Sforza e Pievani, 2011). Secondo questa ipotesi, le diverse fasi di popolazione del mondo da parte di specie appartenenti al genere Homo si sono sempre svolte a partire dal continente africano, a partire da quella operata appunto da Homo ergaster, avvenuta circa due milioni di anni fa, che ha posto le basi per il popolamento dell’Eurasia. Successivamente, intorno a 500.000 anni fa, è stata la volta di Homo heidelbergensis, per poi giungere alla terza fase, che nel periodo compreso tra 60.000 e 10.000 anni fa ha portato all’intero popolamento del pianeta da parte di Homo sapiens, la specie in grado di guardare non solo oltre la collina ma anche oltre l’orizzonte indefinibile, come dimostra la colonizzazione dell’Australia originariamente intrapresa per mezzo di canoe alla quale la mostra conferisce un giusto e significativo tributo.

L’opera di colonizzazione di quasi tutte le terre emerse ad eccezione dell’Antartide è decisamente figlia della contingenza, come lo è d’altronde la storia naturale di ogni specie. La grande epopea umana, infatti, non trae linfa dallo stesso spirito che ha alimentato le grandi imprese di Giasone e Marco Polo, di Alessandro Magno e Cristoforo Colombo, ovvero la sete di ignoto, di sfida, di conquista o di ricchezza, ma dalla necessità di trovare un ambiente in grado di garantire la sopravvivenza. Una storia determinata dalle ondate di abbondanze e carestie del Sahara e del Sahel, dalla presenza e dalla scomparsa di lembi di terra come lo stretto di Bering e l’istmo di Panama e che, proprio per questo, trova il suo cartografo d’eccezione nell’Istituto Geografico De Agostini, al quale si devono le accurate carte geografiche che riproducono le condizioni ambientali dell’epoca e le rotte che queste hanno predeterminato. Non dobbiamo, quindi, immaginarci spiriti immaginifici che guidano grandi carovane, bensì tribù di cacciatori-raccoglitori che, al ritmo di circa un chilometro all’anno, si spostano sempre un po’ più in là per trovare un ambiente più salubre e più generoso. E così, dopo millenni di spostamenti, in seguito all’adozione di un sistema economico agro-pastorale sviluppatosi dapprima in Medio oriente a partire da circa 12.000 anni fa all’origine di una sorprendente abbondanza di risorse e di una vita meno condizionata da fattori strettamente contingenti, l’uomo ha acquisito un modo di vita stanziale. Gli accampamenti hanno così iniziato a essere villaggi e città e la crescita demografica è stata enorme, prima di vedere un suo ulteriore boom con la rivoluzione industriale e proseguendo in maniera sempre di più esponenziale.

Un’umanità cresciuta fino alle circa sette miliardi di unità attuali, e via via inglobata in un modello unico di società che dal centro si irradia in tutte le periferie, vede però ridotta la sua diversità culturale accumulatasi nei millenni, che invece andrebbe quanto possibile preservata. Dal momento che l’attuale modello unico si sta rivelando sempre più insostenibile, diventa fondamentale disporre di esempi di vita alternativi che possano permetterci di riconsiderare il nostro modello di sviluppo ed elaborarne in risposta di ecocompatibili. Scrivono infatti Cavalli Sforza e Pievani: “Le poche tribù di soli cacciatori-raccoglitori ancora esistenti rappresentano […] le preziose tracce residue di una complessa organizzazione sociale paleolitica, fatta di piccoli gruppi interconnessi, senza forti gerarchie sociali, senza un concetto esplicito di proprietà privata né di moneta, con narrazioni fondative centrate sulla sacralità dell’ambiente che dona loro la vita. Senza voler concedere nulla alla nostalgia per antiche età dell’oro, molti studiosi concordano che oggi per salvare la diversità biologica sarà sempre più necessario in futuro garantire la sopravvivenza dei popoli nativi che la custodiscono da sempre. […] I popoli nativi sono depositari di modalità di sopravvivenza e di relazione con l’ambiente che rappresentano per molti aspetti un modello di sostenibilità. I cacciatori-raccoglitori non possono permettersi di degradare l’ambiente in cui vivono, perché la loro stessa esistenza dipende dalla flora e dalla fauna che lo abitano” (Cavalli Sforza e Pievani, 2011).

La testimonianza che giunge da “altri” umani risulta essere molto preziosa poiché portatrice di modalità alternative di esperire e significare il mondo. Conservare la diversità diviene quindi l’imperativo in senso non solo sincronico ma anche diacronico (anche per questo la quarta sezione della mostra porta alla nostra attenzione Tracce di mondi perduti), come osserva con un legittimo orgoglio per la sua professione Juan Luis Arsuaga riflettendo sulla perdita del neanderthal: “Nulla potrà consolarci per la perdita dei Neanderthal, che furono un prodotto insostituibile di tanti millenni di evoluzione. Nessuno potrà riportarli in vita, perché le prime specie che «noi» estinguemmo furono «gli altri umani» (e da allora non abbiamo mai smesso). Noi paleontologi, però, sentiamo che grazie alla nostra opera la loro memoria è stata recuperata e che le loro esperienze, talvolta belle e talvolta brutte, la loro risate e le loro paure, le loro vite e le loro morti non andranno più perdute nel tempo come lacrime nella pioggia” (Arsuaga, 2012). Il riferimento è al celebre monologo finale di Blade Runner, che verte proprio intorno alla perdita di un’esperienza di vita unica come quella del replicante, destinata a svanire per sempre e con essa il prezioso valore che avrebbe potuto avere per l’essere umano. Siamo così entrati nel territorio della fantascienza, zona franca in cui l’incontro/scontro con l’alterità si configura quale processo di rinegoziazione della nostra identità e c’è da dire che i suoi topoi, visti gli incontri ravvicinati del terzo tipo avvenuti durante la storia umana, non si discostano troppo dalle inconsapevoli e contingenti trame tessute per noi dall’evoluzione.

Si è già fatto riferimento alla compresenza di cinque specie ominine sulla Terra fino a 40.000 anni fa, le quali – ad eccezione di Homo floriesensis, lo “hobbit man” (così chiamato in virtù della sua bassa statura, dovuta al fenomeno noto come “nanismo insulare”, nomignolo che testimonia ancora una volta la dialettica tra impresa scientifica e immaginario culturale) relegato appunto sull’isola indonesiana di Flores – si devono essere sicuramente incontrate e forse accoppiate, mescolate e ibridate, a prescindere da chi siano stati i genitori del cucciolo di Lagar Velho. Ma questi incontri con l’alterità più totale, con forme di “altra” umanità, non avvennero soltanto tra specie diverse: “A pensarci bene, quando gli europei sbarcarono nelle Americhe, due rami del popolamento umano si guardarono negli occhi dopo decine di migliaia di anni. Al ritorno dal primo viaggio, Cristoforo Colombo scrisse stupefatto al suo finanziatore Luis de Santángel di non aver trovato nelle Indie occidentali i mostri umanoidi, alti tre metri, con due teste e faccia da cane, che molti avevano previsto e che venivano evocati nel Milione di Marco Polo, di cui Colombo si era portato una copia, piena di annotazioni. Uscite indenni dall’immaginario medioevale, queste figure mitologiche e deformi avrebbero dovuto popolare le terre incognite oltreoceano e invece: «Non ho trovato i mostri umani che molte persone si sarebbero aspettate».” (Cavalli Sforza e Pievani, 2011). Da quanto se ne deduce, quindi, l’“altro da noi” esiste realmente solo nelle nostre teste, nelle rappresentazioni che di esso ci costruiamo per ignoranza e timore, mentre la realtà dei fatti ci rende ogni volta edotti sulla nostra unitarietà biologica, sulla nostra origine “unica, recente e africana”. Ed ecco allora che l’exhibit interattivo Il test della razza invita il visitatore ad accorgersi di tutto ciò in prima persona, esortandolo a raggruppare in razze diversi tipi umani mostrati su uno schermo elettronico: chiunque vi si sia cimentato sarà sicuramente rimasto stupito dall’esito fallace dei suoi abbinamenti. Ma se d’altronde l’altro exhibit interattivo Parente di una banana sarai tu?! ci fa scoprire che abbiamo il quaranta per cento dei geni in comune con la banana, c’è forse da stupirsi di quanto gli esseri umani siano una cosa sola?

“Unità nella diversità” è dunque il messaggio più importante veicolato dalla mostra a tutti i visitatori, che possono così tornare a casa con la consapevolezza che l’adozione dell’ottica tempo profondo non serve solo a rischiarare il nostro passato ma anche il nostro presente e il nostro futuro: “Le migliaia di culture dell’umanità sono altrettanti tentativi riusciti di abitare un ambiente terrestre e propagare la specie. Ciascuna di queste ha preziosi contributi da portare all’evoluzione dell’umanità nel suo insieme. Una specie africana giovane, inventiva ed espansiva, a partire dalla sua unità ha saputo generare la diversità. Ora proprio dalla storia della diversità può imparare a riscoprire la sua unità” (Cavalli Sforza e Pievani, 2011).

 


 

LETTURE

  Arsuaga Juan Luis, Come i primi uomini sconfissero gli “altri umani”, in MicroMega, Numero 1, 2012.
Berger Lee Rogers, La scoperta di Australopithecus sediba, in MicroMega, Numero 1, 2012.
Biondi Gianfranco e Rickards Olga, Uomini per caso. Miti, fossili e molecole nella nostra storia evolutiva,
Editori Riuniti, Roma, 2004.
Eldredge Niles, Strutture del tempo, Hopefulmonster, Torino, 1991.
Gould Stephen Jay, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia, Feltrinelli, Milano, 1990.
Cavalli Sforza Luigi Luca, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano, 1996.
Cavalli Sforza Luigi Luca, L’evoluzione della cultura, Codice edizioni, Torino, 2010.
Cavalli Sforza Luigi Luca e Pievani Telmo, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana,
Codice edizioni, Torino, 2011.
Pievani Telmo, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globalizzazione, Meltemi, Roma, 2002.
Pievani Telmo, La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, Raffaello Cortina editore, Milano, 2011.
Pievani Telmo, Il non senso dell’evoluzione umana, in MicroMega, Numero 1, 2012.
Tattersall Ian, Il creatore non ha superato l’esame, in MicroMega, Numero 2, 2007.

 


 

VISIONI

Scott Ridley, Blade Runner.The final cut, Warner Home Video, 2008.
Groening Matt, Lisa, che scimmietta!, in I Simpson, Gracie Films e 20th Century Fox Television, 2006.