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LETTURE / LA LEGGENDA DEL VENTO


di Stephen King / Sperling & Kupfer, Milano, 2012 / pp. 374, € 19,90


 

Una saga fantasy da brivido

di Francesca Fichera


 

Pensare alla nuova tappa di un viaggio già concluso, all’ampliamento di un racconto che già possiede la sua ultima pagina bianca, comporta il rischio di una presunzione prometeica. Pensare a questo in termini di necessità, piuttosto che di mere finalità di mercato, o, ancor peggio, di carenza di idee, ha semplicemente del vertiginoso.

A cimentarsi in questa delicatissima impresa è l’oramai maturo ma sempre prolifico Stephen King, mai come adesso sovrano incontrastato del brivido, in rapporto a quell’immensa mole narrativa, quell’über-storia – per dirla con parole sue – di indescrivibile maestosità e fascino che è La torre nera: l’odissea di un eroe, ultimo superstite della sua stirpe, segnato da un dramma originario – la misteriosa morte della madre e la perdita della sua amata per mano di una strega crudele – che combatte il Male nel “Multiverso” di King insieme ad una banda di dropout.

Sette sono i volumi che la compongono: fittamente scritti, intensamente vissuti, incentrati sull’estenuante ricerca di una meta – appunto la Torre – spina dorsale dell’intero cosmo, anello di congiunzione della miriade di dimensioni spazio-temporali nelle quali si scopre essere articolato il mondo al di là di ogni umana misura. Un luogo tanto oscuro quanto potente in grado di determinare, nella medesima maniera in cui i sogni stavano a Fantàsia ne La storia infinita di Michael Ende (1997), l’inizio e la fine di ogni cosa. Tutte le cose vanno salvate, ne La torre nera, e spetta a un esile assemblaggio di persone predestinate, cucite insieme attraverso lo spazio-tempo dal tessuto del Ka, percorrere fino in fondo l’irto Sentiero del Vettore, uno dei sei “raggi di forza”, le direttrici cosmiche in cui è suddiviso nella cosmologia kinghiana il suo “Tutto-Mondo” e che ne sostengono le fondamenta: al suo termine, dopo il Portale che ne contrassegna la via d’uscita, v’è il centro della ruota, la Torre, la cui soglia va oltrepassata prima che lo faccia il Male, la prole del Re Rosso, la faccia più crudele e distruttiva della sorte. Roland Deschain di Gilead, Jake Chambers, Susannah e Eddie Dean di New York e una tenera bestiola di terre sconosciute, il bimbolo Oy, fanno parte del Ka-tet, “dell’uno da molti”, del gruppo di prescelti sacrificati alle fitte trame del Ka e alla salvezza dei suoi mille universi.

La loro odissea tolkieniana muove da un singolo, solitario passo compiuto nel deserto – “The man in black fled across the desert and the gunslinger followed” – incipit di parola e di avventura destinata a diramarsi per tante pagine quanti sono i “mondi possibili” in esse descritti. E la cui fine – sospirata, doppia, bellissima – non lasciava immaginare altro che l’immaginazione stessa. Eppure King è riuscito a dire bene dicendo ancora, e lo ha fatto con The Wind through the Keyhole.

L’ipotetico ottavo capitolo della saga si configura, in realtà, come l’episodio n° 4.5 – come lo stesso King chiarisce nell’introduzione al romanzo – a metà strada tra Wizard and Glass (La sfera del buio) e Wolves of the Calla (I lupi del Calla). Una splendida narrazione a scatole cinesi incastonata fra le dolenti digressioni contenute nel volume precedente, dove Roland confessa ai compagni il suo tragico antefatto, e la serrata sequenza di svelamenti e decisive battaglie di quello seguente. La masnada di pistoleri, il Ka-tet, si trova qui, fotografata nell’hic et nunc letterario dell’über-storia sulle rive del fiume Whye, reduce dalle sconvolgenti confessioni di Roland ma non per questo meno sicura di voler proseguire lungo il Sentiero del Vettore. Verso la Torre.

È quasi nell’immediato che l’über-narratore King individua l’occhiello dove far scorrere il filo della trama, l’espediente narrativo da utilizzare nella più alta fra le sue versioni: la starkblast, tempesta rara ma di inaudita forza, capace di ghiacciare e ridurre in pezzi tutto quel che incontra. Il Ka-tet, anticipato dal suo unico membro a quattro zampe Oy, prevede l’arrivo della catastrofe e si rifugia in una delle tante costruzioni abbandonate del villaggio fantasma incontrato lungo la strada. Lasciando il vento – ed il Tempo – ad imperversare fuori. Qui Roland ritorna a vestire i panni del narratore, profittando dell’apparente pausa temporale e realizzando una quasi-omerica compenetrazione fra oralità e scrittura. Aprendo, in poche parole, la prima delle tre scatole che costituiscono The Wind through the Keyhole.

Ancora una volta, dunque, King entra nel corpo finzionale del pistolero di Gilead, nelle sue fattezze ritagliate dai western di Sergio Leone e dall’indimenticabile sagoma di Clint Eastwood, e lo anima affinché venga restituita, in una triplice immagine speculare, la fascinazione dell’atto narrativo, la magia dei cantori classici e il loro detenere l’incanto del mondo umano.

Nella microstoria, parte della macro, successiva al compimento di quest’ultima e perciò meritevole di rivelarne in parte i principali meccanismi, l’ultimo cavaliere di Gilead eterna l’incantesimo della narrazione avvincendo a sé i suoi compagni di Ka-tet: Jake, Susannah, Eddie, perfino il piccolo Oy. E tutto per parlar loro di una favola che sua madre, Gabrielle Deschain, era solita raccontargli quando era bambino. Si chiamava, appunto, The Wind through the Keyhole, ed anche in quella si scatenava la starkblast. Ma prima di scoperchiare il cuore dell’avventura, di metterne a nudo la deliziosa e brillante sostanza, il Roland oratore-scrittore intende ricordare un tempo intermedio nel quale le circostanze gli avevano imposto di imitare sua madre raccontando la stessa fiaba a qualcuno. È un tempo già successivo alla morte della madre Gabrielle, tuttavia ancora giovane, precedente alla rovina definitiva di Gilead e alla partenza di Roland sulle orme dell’Uomo Nero, quella che dà il “la” alla definitiva corsa in direzione della Torre. In questa ennesima sezione temporale – la seconda delle tre scatole, volendo ritornare sulla metafora – King immortala un pistolero ancora immaturo ma già sofferente, impegnato a scovare un terribile mutante, uno skin-man, che da mesi vaga per Little Debaria sterminandone la popolazione. Fra i superstiti alla furia del mostro c’è Bill, un ragazzino rimasto orfano che per Roland rappresenterà ciò che sono, all’inizio del libro e al primo dei tre livelli in cui esso s’articola, Jake, Eddie, Susannah e Oy: gli ascoltatori, coloro che leggono con le orecchie, ossia il vero punto d’innesco al suo narrare.

Da questo secondo, coinvolgente livello scaturirà finalmente il terzo, la favola che dà nome al romanzo e che chiude, nel migliore dei mo(n)di possibili, il cerchio narrativo di King offerto in omaggio all’attività stessa del racconto. Con un romanticismo e una delicatezza per la maggior parte sacrificati all’economia fantasy della serie, nonché ai limiti imposti dalle scadenze editoriali, King riqualifica La torre nera in maniera del tutto inaspettata. Sua è la lezione, sintesi di un discorso sotteso all’intera saga, sul Tempo umanamente percepito: “il vento attraverso la serratura”, appunto, oltre cui respira e soffia un’eternità inimmaginabile.

Qualcosa desunto da Paul Ricoeur (2008) sulla base delle Confessioni di Sant’Agostino e della Poetica di Aristotele, ma ivi già dimostrato e applicato, al di là di qualsiasi speculazione filosofica. “Il tempo diviene tempo umano nella misura in cui viene espresso secondo un modello narrativo”, scrive Ricoeur, conferendo emblematicamente a chi racconta – parlando, scrivendo – il ruolo di creatore capace, mediante l’attività mimetica, di catturare e imbottigliare gli aliti dell’eterno, di imprigionare il Tempo dandogli, insieme, un significato.

Il potere ancestrale della mimesi sta proprio in questo: nel restituire l’essenziale, il senso trasversale delle cose umane, estrapolandolo dalla discordanza insita nel normale susseguirsi degli eventi. Realizzandosi mediante l’intreccio narrativo, l’atto mimetico muta la discordanza in concordanza, conduce in superficie le dinamiche fondamentali della storia del mondo (di tante storie, forse di tutte) e le fonde assieme immergendole nel denso fluido della causalità, dell’interrelazione, al fine di rendere possibile quel processo di comprensione e di riconoscimento – da parte del fruitore, che è tanto chi legge quanto chi narra – necessario alla costruzione dell’identità individuale. Di quel personale e unico sentire “il vento attraverso la serratura”.

Per questo motivo si dà ampia ragione a Paul Auster quando afferma che “le cose non sono mai finite e ogni storia è una storia che continua” (1998), che “un passo in un libro o un passo nella vita” sono la stessa cosa; oppure, ancora, a Ende che, nella sua Storia infinita, enuncia il duplice assioma secondo cui “tutto ciò che accade, tu lo scrivi” (Ende, 1997), e tutto ciò che è scritto accade. Se la narrazione nasce come bisogno atavico dell’uomo finalizzato alla definizione dell’Io, del proprio racconto interiore, consequenziale è il concepirla come attività creativa infinita e inarrestabile che, per dirla traslando un pensiero di Albert Camus, dà forma al destino. E, perché essa possa servire questo scopo, non è ammesso alcun limite, alcuna interruzione al suo svilupparsi.

Il narrare è di per sé aperto verso l’infinito e si compone di infiniti mondi. Proprio come testimoniano l’intero complesso di volumi che costituisce La torre nera; e, ancor di più, nel suo sottovalutato ruolo di episodio addizionale della saga, The Wind through the Keyhole. La sua struttura a più livelli è il primo e più lampante elemento a dimostrazione della connaturata apertura del processo narrativo che lo costituisce, ma non è il solo: King, infatti, come in un gioco cabalistico dedicato alla scomposizione in terne – la concatenazione di tre storie e l’assimilazione dei tre rispettivi protagonisti – elabora, a sorpresa, un terzo finale. Una sub-conclusione alla Torre nera tutta, oltre che al suo inatteso spin-off: un messaggio. Dopo le due conclusioni parallele, l’una commovente, l’altra disperata – “un sinonimo di addio”, per stessa definizione del re – inserite sul finire del settimo tomo, King fa in modo che ne giunga una nuova, in nome del tre, a lenire parzialmente ciò che è stato e ciò che sarà, sovrapponendo ai due tempi – l’ideale e il particolare – un’ancora trascurata tipologia di temporalità: quella spirituale.

Nulla cambia nel Ka, che farà comunque il suo corso, fino ai piedi della Torre e anche al suo interno. Tuttavia, la maestria di King sta nell’evidenziare la fondamentale importanza dei dettagli e la loro influenza sul modo di guardare avanti e indietro: l’oscillante presenza di un attimo che sembrava fosse stato fagocitato dagli anni e che invece quegli anni stessi riportano alla luce, nel presente. La prova che è sufficiente una sola parola, una sola idea, a sciogliere tutti i nodi dell’universo e a spalancarne ogni porta, rendendo conoscibile ed esplorabile anche il più recondito dei suoi angoli: ciò che non si sapeva di sé.

 


 

LETTURE

  Auster Paul, Una menzogna quasi vera. Conversazioni con Gérard de Cortanze, Minimum Fax, Roma, 1998.
Ende Michael, La storia infinita, Longanesi, Milano, 1997.
King Stephen, L’ultimo cavaliere, Sperling & Kupfer, Milano, 1989.
King Stephen, La canzone di Susannah, Sperling & Kupfer, Milano, 2004.
King Stephen, La chiamata dei tre, Sperling & Kupfer, Milano, 1993.
King Stephen, La sfera del buio, Sperling & Kupfer, Milano, 2003.
King Stephen, La torre nera, Sperling & Kupfer, Milano, 2006.
King Stephen, I lupi del Calla, Sperling & Kupfer, Milano, 2003.
King Stephen, Terre desolate, Sperling & Kupfer, Milano, 1992.
King Stephen, The Wind through the Keyhole, Scribner, New York, 2012.
Ricoeur Paul, Tempo e racconto. Vol. 1, Jaca Book, Milano, 2008.