LETTURE / IO VENÌA PIEN D’ANGOSCIA A RIMIRARTI
di Michele Mari / Cavallo di ferro, Roma, 2012 / pp. 140, € 12,90
Lupi e poeti hanno la stessa Luna
di Livio Santoro
J’m’appell’ la lune
Quand un poète a du chagrin
J’lui donne’mes clefs, j’suis pas bégueule,
Dans mes froufrous il compt’ ses sous,
Et croit faire fortune
Avec la lune
Léo Ferré
Nel 1990 Longanesi pubblica per la prima volta io venìa pien d’angoscia a rimirarti, secondo romanzo di Michele Mari, un autore di cui, bisogna dirlo, la letteratura italiana contemporanea aveva ed ha davvero bisogno. Il libro esce dai cataloghi e dalle tipografie per rientrarvi nel 1998, quando è Marsilio a ripubblicarlo. Sorte (o spietato mercato?) vuole che anche questa seconda edizione vada esaurita e persa senza essere riproposta, lasciando che del libro si parli come di un vecchio prodotto del passato più recente, una straordinaria bizzarria da Wunderkammer, introvabile testimonianza di mondi meravigliosi ma purtroppo estremamente distanti. Fin quando al termine del 2012, e speriamo davvero per tanto tempo, Cavallo di ferro (che di Mari, nel 2010a, ha già pubblicato I demoni e la pasta sfoglia) ne acquisisce i diritti per darlo nuovamente alle stampe. Fortunatamente, aggiungiamo qui; e per tanti motivi.
In prima battuta per l’ardire narrativo di una prova che s’adegua al detto ottocentesco, senza mai essere pedante ma, anzi, recuperando quel tratto ironico che di Mari sembra essere caratteristico più di ogni altra cosa. In secondo luogo per la sua eleganza stilistica, filologica e, diciamolo pure, archivistica. Inoltre, su tutto, perché io venìa pien d’angoscia a rimirarti è una storia di conoscenza, di lupi e di poeti, e già questo soltanto basterebbe. Una storia, in sostanza, di solitudine e di Luna. Perché i lupi e i poeti, da che mondo è mondo, parlano alla Luna preferibilmente con la lingua dell’isolamento.
Il poeta più di tutti, lo sappiamo, è amico della creazione, della conoscenza e del sapere. Egli, come il lupo, è abituato alla foresta e all’asperità di un ambiente ostile, si dimostra avvezzo a parlare quest’idioma solitario (nel suo splendido esergo, citando un antico proverbio boemo, io venìa pien d’angoscia a rimirarti ammonisce: “Se incontri il lupo, prendilo per fratello, perché egli conosce la foresta”). Tale abitudine proviene al poeta dalla sua indole, certo, e naturalmente si concretizza nell’utilizzo dei termini più svariati, non si fossilizza sul primo umore utile. Le parole della lingua di cui si parla possono allora essere docili, vagamente indolenti e sensuali per esempio, come nel più classico dei ritratti baudelairiani (Tristezze della luna) affidato a quel compendio di umori decadenti e di balsami lussuriosi che nel 1857 dà vita a I fiori del male (Baudelaire, 1993):
Questa sera la luna sogna con più languore;
come una donna bella su cuscini svariati
che con la mano lieve e distratta accarezza
prima del sonno il dolce contorno dei suoi seni,
sopra il lucido dorso di valanghe di seta,
morente s’abbandona a lunghi smarrimenti,
e gira intanto gli occhi su visioni bianche che nell’azzurro salgono,
come sboccio di fiori. Quando nel suo accidioso languore,
qualche volta lascia un’ascosa lacrima cadere sulla terra,
nemico del riposo, un pio poeta accoglie
nel cavo della mano quella pallida lacrima
iridescente al pari di un frammento d’opale,
e la cela agli sguardi del sole, nel suo cuore.
Oppure, con toni anche drasticamente differenti, che si pongono al di là dello scomodo fardello di quel romanticismo di cui le belle lettere fanno spesso fatica a liberarsi, il poeta e la Luna dialogano ancora (o, in questo caso, avevano già dialogato, dato che stiamo parlando di trenta o quaranta anni prima), senza tuttavia dimenticare l’ineffabile e sensibile lingua della solitudine (ed è il caso di Leopardi, 2011):
O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna.
E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore.
Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!
Rieccola, la Luna. Luna che dà sollievo alla travagliosa vita del poeta nebuloso e tremulo, che si precipita dal cielo per asciugarne o raccoglierne il pianto (quella stessa Luna che prima, nell’ode baudelairiana, piuttosto che recuperarne dagli occhi del poeta, di lacrime ne lascia cadere al suolo: a testimonianza del fatto che Luna e poeta, in ogni caso, sono esseri fatti per vivere in maniera solidale, compagni nel momento più buio di speranze e rimorsi). È proprio da qui, da questi versi umbratili, memoriosi e sensazionali, che Mari prende spunto per raccontare la sua storia. O meglio per farla raccontare, mettendola nel diario apocrifo del fratellino tredicenne di Giacomo Tardegardo (il nostro Leopardi, l’appena citato poeta nebuloso e tremulo), quattordicenne ragazzino che, al chiuso della sua biblioteca sembra avere soltanto due crucci: demolire le stoltezze e le ingenuità del passato superstizioso dell’uomo; guardare e scoprire le verità della Luna. Da uomo di conoscenza, da solitario, da poeta e perciò da lupo. Sì, da lupo, perché sull’ermo colle (lo stesso che apre il canto appena citato), a dialogare da sempre con la Luna, scambiandosi le lacrime con il suo chiarore, si può diventare anche mannari, licantropi, etimologicamente e fisicamente portati ad essere lupo e uomo: d’altronde noi esseri umani, poeti e non, ci si adatta ed abbandona a ciò che rende e dona sollievo. Ed è proprio la Luna, lo abbiamo detto, il maggior sollievo del poeta. O forse no, forse è superstizione anche questa, quella che l’uomo di conoscenza cerca di demolire da sempre, di cancellare, di espungere dal mondo ingenuo dei padri e dei nonni. Tuttavia, per quanto ci sia dato sapere, e già l’abbiamo detto, l’uomo solitario attraversa la conoscenza, egli è uomo di conoscenza, pur essendo poeta, lupo. Egli è l’una e l’altra cosa: licantropo.
È così che Mari ci confonde, lasciandoci sullo sfondo la possibilità di intendere a piacimento le cose, da buoni lettori, nonostante si racconti di personaggi (forse anche di fatti?) realmente esistiti. D’altronde non sarebbe la prima volta, per gli amanti di Mari, ritrovare la testimonianza di un passato vicino o remoto che, con i suoi nomi e le sue geografie, sia mescolata a quelle increspature di fantastico che caratterizzano da sempre l’autore milanese. Si prendano per esempio alcuni dei racconti del recentissimo Fantasmagonia (Mari, 2012; "Quaderni d'Altri Tempi" n. 37) e l’intero percorso di Rosso Floyd (Mari, 2010b, "Quaderni d'Altri Tempi" n. 29). Si potrebbe allora andare concludendo moltissime cose, ma ne soffrirebbe il semplice godimento di chi s’appresta ad aprire la prima pagina di io venìa pien d’angoscia a rimirarti. Per cui si dica soltanto che, per nostra fortuna, la letteratura italiana contemporanea non è fatta solamente di racconti di camorra e malavita o di storie melense popolate da giovani malinconici che prima erano adolescenti irrequieti e prima ancora bambini un po’ sfortunati. Per non parlare di quei prodotti da grande mercato che gemmano direttamente dalla televisione, e che dei libri hanno solamente il peso fisico e la forma. Per nostra fortuna, invece, ci sono anche splendori come io venia pien d’angoscia a rimirati, libri raffinati, divertenti, colti, leggibili (nonostante tutto) e per nulla spocchiosi. Libri anche e soprattutto ironici. Libri che vale la pena di conoscere, di consigliare e, cosa assai rara, di leggere più volte.
LETTURE
— Baudelaire Charles, I fiori del male, Feltrinelli, Milano, 1993.
— Leopardi Giacomo, Canti, Mondadori, Milano, 2011.
— Mari Michele, I demoni e la pasta sfoglia, Cavallo di ferro, Roma, 2010a.
— Mari Michele, Rosso Floyd, Einaudi, Torino, 2010b.
— Mari Michele, Fantasmagonia, Einaudi, Torino, 2012.