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ASCOLTI / CUT THE WORLD


di Antony and the Johnsons / Rough Trade, 2012


 

Nere regine emergono dai fiumi

di Livio Santoro

Nel luglio del 1992 il fiume Hudson restituì alla città di New York il corpo livido e gonfio di Marsha P. Johnson. Corpo ibrido morto suicida, corpo simbolico morto suicidato o ancora corpo ingombrante morto assassinato. Questo ancora non possiamo saperlo e probabilmente mai lo sapremo. Sappiamo tuttavia che condensata in quel corpo c’era la carica della lotta civile del mondo un po’ confuso che la secchezza dell’acronimo (di concerto con il fastidioso imperativo razionalizzante della categorizzazione) chiamerebbe ai giorni nostri LGBT. Sappiamo pure che la riemersione di Marsha P. Johnson, transgender attiva lungo quasi un ventennio per la promozione delle soggettività sessualmente incerte al banchetto occidentale dei diritti, pesante icona in grado di attirare a sé anche l’attenzione di Andy Warhol, al di là dell’una o delle altre delle tre interpretazioni, ha portato con sé un enorme turbamento. Ha trascinato alla luce del cielo, oltre la sua incipiente putrefazione e il cattivo odore che si porta appresso ogni cadavere che si rispetti, un senso di rabbia mista a commozione che si è protratto nel tempo continuando a rilasciare la sua eco anche ad anni di distanza. Eco recuperata da uno dei progetti musicali più raffinati ed eleganti che i tempi recenti ci abbiano regalato, Antony and the Johnsons, che già nel nome affonda a piene mani nell’acqua di quell’Hudson che annuncia e trascina la morte, nell’informe senso di rabbia e commozione, di disagio e di docili malinconie che ne emerge tessendone le note. Perché da sensazioni simili a quella venuta a galla nell’Hudson spesso esce fuori una musica non troppo allegra che resta nell’aria e che vuol farsi raccogliere, comporre e cantare.

 

There is a black river

It passes by my window

 

Così nella struggente River of Sorrow (capitolo portante dell’album d’esordio che porta lo stesso nome del gruppo, Antony and the Johnsons, 2000), che proprio a Marsha P. Johnson, alla sua morte, è dedicata.

Di fatto la band, ensemble forte di musicisti dal valore assoluto e dal garbo inusuale (si prenda soltanto la violoncellista Julia Kent: cofondatrice del bizzarro progetto Rasputinia con cui incide due album, 1996 e 1998; poi apparsa in una fugace collaborazione con gli umbratili Black Tape for a Blue Girl, 2002; e ora impegnata come solista, da apostola del riverbero e del loop, a partire dall’ottimo debutto Delay, 2007, fino al recente Green and Gray, 2011), è gemmazione dell’anima e della voce di Antony Hegarty, triste regina un poco oscura e un poco grottesca presentatasi al mondo in abito bianco, con il capo cinto da un’aureola di cartone; regina di un effimero regno fatto di lacrime trattenute e di sorrisi a mezza bocca. È infatti proprio da quel mondo venuto a galla nell’Hudson che Antony recupera il suo vibrato che, per quanto sofferto, sembra non voler abbandonare una flebile speranza intessendo le trame di un cantautorato autunnale eppure mai banale e scontato.

Dal 2000, anno del principio (Antony and the Johnsons, inizialmente stampato dalla Durto, viene ripubblicato quattro anni dopo dalla Secretly Canadian), la band newyorkese, nonostante l’attesa spasmodica e lo straziato desiderio dei fan, centellina le sue uscite producendo soltanto altri tre album da studio (2005, 2008 e 2010), in cui alla raffinatezza compositiva ed esecutiva dell’esordio e al gusto classico per le trame innalzate da stupendi dialoghi d’archi (raffinatezza fatta di tappeti di violini, crescendo lacrimevoli dal sapore orchestrale e pianoforti silenziosi) sembra affiancarsi sempre di più un senso d’intimismo immerso come al solito nelle effusioni torbide, malinconiche e tormentate dell’Hudson River. Accanto ai quattro album, la band incide anche due piccole perle collaborando in produzioni di nicchia con quella congregazione un poco tetra e vagamente ipnotica che porta il nome di Current 93 (un ottimo live nel 2002 e uno split nel 2003). Nel frattempo il mondo della musica, di tutta la musica in ogni cantone dell’orbe, si rende conto della voce della regina dei Johnsons, della sua raffinatezza, dell’agrodolce che dà sapore alle note toccate e di quel misto di sensazioni contrastanti intessute di trascendenza angelica e mondana brutalità che ne costituiscono il supporto e che fanno parlare di Antony Hegarty come se a muovere le sue corde vocali ci fosse quello stesso demone bianco sporco che stava nella gola di Nina Simone. Un’intensa voce come oggi (come sempre) difficilmente se ne incontrano. È così un continuo susseguirsi di collaborazioni, di artisti innegabilmente famosi e valorosi che provano a chiamare a sé Antony: ci riesce Lou Reed nel 2003 facendo cantare e rivisitare ad Antony la sua “general track” Perfect Day; ci riescono le CocoRosie nel 2005 (Beautiful Boyz, secondo capitolo dell’album Noah’s Ark, è una tremenda e struggente stretta al cuore, una triste ballata dal gusto si potrebbe dire quasi genetiano) e nel 2007; e poi Björk e Marianne Faithfull, la prima nel 2007, la seconda nel 2008 (l’ospitalità offerta da Lou Reed e Björk verrà poi ricambiata da Antony rispettivamente in I am a Bird Now, del 2005, e in Swanlights, del 2010). Dalle nostre parti sono Franco Battiato ed Elisa ad accorgersi di Antony: Del suo veloce volo, quinto capitolo di Fleurs 2 (2008), è il risultato della collaborazione con il cantautore catanese, collaborazione che, bisogna dirlo con rammarico, non è esattamente all’altezza delle aspettative; Forgiveness è invece la tredicesima e non troppo esaltante traccia dell’album Heart (2009), in cui Antony ed Elisa duettano purtroppo con scarsa originalità e con quel vago senso di manierismo di cui spesso hanno bisogno le platee un poco provinciali.

Nel 2012, e veniamo a noi, Antony and the Johnsons, nonostante la numericamente avara produzione di album da studio, si permettono il lusso di calcare la stessa strada che gli artisti della musica oramai affermati e riconosciuti percorrono a un certo punto della loro carriera (secondo alcuni quando le idee cominciano a scarseggiare, secondo altri quando le case discografiche hanno bisogno di far cassa, va da sé): incidere un live con accompagnamento orchestrale. Per prendere soltanto tre esempi in giro nei più disparati territori del suono si possono qui ricordare i Portishead (1998), i Metallica (1999), e infine Sting (2010), quest’ultimo prodotto addirittura dalla Deutsche Grammophon.

Antony e il suo seguito, dal canto loro, scelgono la Danish National Chamber Orchestra e il risultato è un live pulito e lineare, in cui la delicatezza orchestrale accompagna in sottofondo, senza mai emergere in prima persona, i soliti racconti della formazione newyorkese. Gli archi danesi danno continuità a quelli già presenti nella band e i fiati ampliano il respiro delle arie, ma in entrambi i casi si tratta di un accompagnamento più che di una rivisitazione, di un supporto esterno più che di una riconfigurazione dall’interno. Nulla di davvero nuovo, si direbbe. In altri termini l’orchestra non snatura quanto Antony and the Johnsons hanno già nelle loro corde, nella loro sottigliezza compositiva ed esecutiva, nei loro arrangiamenti che da sempre affondano nelle tonalità dell’orchestrale e ancor prima della camera. Ne consegue che le solite sofferenze narrate nel tempo con la delicatezza che contraddistingue i quattro album da studio precedenti trovino qui terreno su cui stendersi in pace, stirandosi leggermente in un’atmosfera di sussurri e di mormorii prolungati. Un solo inedito musicale, Cut the World, e un altro inedito parlato, Future Feminism, completano una track list imbevuta delle più classiche canzoni prodotte negli anni precedenti dalla band (su tutte spiccano per intensità Cripple and the Starfish, You are My Sister e Twilight). Il secondo, Future Feminism, non è altro che un monologo di Antony, forse un po’ bizzarro; una frettolosa e divertente analisi dello stare al mondo, a partire dalle fasi lunari per arrivare fino alla discriminazione sessuale e alla naturale “incomprensione” della persona sola: elementi che da sempre fanno da sfondo alle narrazioni della band. Future Feminism non stride con il resto, anche se, probabilmente, qualora non avesse campeggiato nella track list del live il risultato sarebbe stato migliore. Cut the world invece, canzone da cui l’intero disco prende il nome (presentata con un video tanto intenso, truculento e necessariamente vendicativo da sfociare nella dolcezza, il cui sfortunato protagonista è nientedimeno che Willem Dafoe), è il vero motivo per cui legittimare l’acquisto del disco. È proprio qui che vengono nuovamente recuperati tutti quei temi cha hanno costruito fino ad oggi il motivo della band: la sopraffazione di un (non del) sesso forte, la debolezza quotidiana dell’amore rifiutato e il conseguente rivolgimento violento della fine. Cut the World, diamoci un taglio, anche violento, con questo mondo violento! Che poi si pianga o si affoghi nella sofferenza della vendetta (che, per quanto si possa dire, se non altro nelle narrazioni della band, sembra non poter essere mai dolce) così come nelle altre sofferenze che ci caratterizzano e accompagnano ben venga, ma che almeno il pianto abbia il suono raffinato della voce di una triste regina che, bene o male, regna su un mondo fatto di fiumi malinconici e di ferite lacrimevoli.

 


 

ASCOLTI

Antony and the Johnsons, Antony and the Johnsons, Secretly Canadian, 2004.
Antony and the Johnsons, I Am a Bird Now, Secretly Canadian, 2005.
Antony and the Johnsons, The Crying Light, Secretly Canadian, 2008.
Antony and the Johnsons, Swanlights, Secretly Canadian, 2010.
Antony and the Johnsons & Current 93, Live at Saint Olave’s Church, Durtro, 2002.
Antony and the Johnsons & Current 93, Calling For Vanished Faces I / Virgin Mary, Durtro, 2003.
Battiato Franco, Fleurs 2, Mercury Records, 2008.
Björk, Volta, One Little Indian, 2007.
Black Tape for a Blue Girl, The Scavenger Bride, Projekt, 2002.
CocoRosie, Noah’s Ark, Touch and Go, 2005.
CocoRosie, The Adventures of Ghosthorse and Stillborn, Touch and Go, 2007.
Elisa, Heart, Sugar, 2009.
Faithfull Marianne, Easy Come, Easy Go, Naïve Records, 2008.
Kent Julia, Delay, Important, 2007.
Kent Julia, Green and Gray, Important, 2011.
Metallica & San Francisco Symphony, S&M, Elektra, 1999.
Portishead & New York Philharmonic Orchestra, Roseland NYC Live, Go! Discs, 1998.
Rasputinia, Thanks for the Ether, Columbia, 1996.
Rasputinia, How We Quit the Forest, Columbia, 1998.
Reed Lou, The Raven, RCA, 2003.
Sting & Royal Philharmonic Concert Orchestra, Live in Berlin, Deutsche Grammophon, 2010.