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LETTURE / IL CICLO DEL FIUME


di Philip Josè Farmer / Fanucci, Roma, 2012 / Cinque volumi, pp. 256, 272, 512, 432, 384, € 9,90 cadauno


 

Citazioni, fallimenti e insoluti

di Gennaro Fucile

L’opera destinata al fallimento, senza via di scampo, è un genere che nella letteratura pop trova la sua massima espressione nel ciclo del Riverworld (d’ora in avanti Mondo del Fiume), scritto da Philip José Farmer nell’arco di circa quarant’anni. Una narrazione che si snoda lungo cinque romanzi, ai quali è affidata la storia principale, e che sono nell’ordine: Il fiume della vita (To Your Scattered Bodies Go, 1971), Alle sorgenti del fiume (The Fabulous Riverboat, 1971), Il grande disegno (The Dark Design, 1977), Il labirinto magico (The Magic Labyrinth, 1980), Gli dei del fiume (The Gods of Riverworld, 1983), proditoriamente ripubblicati da Fanucci dopo un esilio dalle librerie durato una quindicina d’anni. Intorno a questo nucleo maggiore nelle intenzioni dell’autore ruota (avrebbe dovuto ruotare) un numero indeterminato di racconti affluenti, secondo la definizione che ne diede lo stesso Farmer. In pratica riuscì a scriverne una manciata, mentre (questa sì che è un’autorialità collettiva) autori diversi si sono poi cimentati nella scrittura di altre storie ambientate sul Mondo del Fiume. La colossale idea è però di molto antecedente la pubblicazione de Il fiume della vita. Ricorda Farmer:

 

“La prima vicenda della serie del Mondo del Fiume fu scritta nel 1952. Era un romanzo di 150.000 parole, intitolato in origine Owe for the Flesh. Lo scrissi in un mese per poterlo presentare a un premio internazionale di fantasy e science fiction. Il romanzo vinse, ma per un complesso di circostanze in cui non mi addentrerò in questa sede, non venne mai pubblicato, e io incassai soltanto una minima parte del denaro che mi spettava. Allora, l’idea non era concepita come una serie: il manoscritto era un libro completo, nel quale veniva risolto l’enigma del Pianeta del Fiume. Quando gli spiacevoli avvenimenti collegati al premio si conclusero, io mi ritrovai in possesso della proprietà letteraria del libro. A quel tempo non c’era un mercato per i romanzi fantascientifici molto lunghi, scritti da autori che avevano venduto soltanto pochi racconti a varie riviste. Misi il manoscritto nel proverbiale cassetto e me ne dimenticai per diversi anni. […] Nel 1964 lo tirai fuori, lo spolverai a dovere, e cambiai il titolo in Owe for a River. […] A quell’epoca, Fred Pohl dirigeva Galaxy e le riviste sorelle. Gli spedii il manoscritto, e lui me lo rimandò con alcuni commenti molto acuti. Era un concetto troppo grande, disse, per confinarlo in un romanzo, anche se cosi lungo. Mi propose di scrivere una serie di novelettes per lui. Più tardi avrei potuto raccoglierle in un libro, se avessi voluto. Ormai avevo riflettuto abbastanza sul concetto del Mondo del Fiume per capire che Pohl aveva ragione. Un pianeta sul quale gran parte degli umani vissuti da 1.000.000 a.C. fino all’inizio del XXI secolo erano stati risuscitati sulle rive di un fiume lungo dieci o forse venti milioni di chilometri, era un mondo troppo grande per racchiuderlo in un solo volume. E aveva troppi personaggi che avrei desiderato approfondire” (Farmer, 1994).

 

Alle sorgenti di questa narrazione – fluviale in tutti i sensi – c’è quindi un’idea che non poteva non essere destinata a fallire, un assalto al cielo che, oltre a coinvolgere l’autore stesso, promuove a partecipante ogni lettore, anche se unicamente come comparsa o figura posta sullo sfondo. L’idea è questa: “Sebbene alcuni nomi della serie del Mondo del Fiume siano immaginari, i personaggi sono o erano reali. Magari non venite menzionati, ma ci siete anche voi” (Il grande disegno). Noi, tutti, circa trentacinque miliardi di personaggi, di cui necessariamente non si potrà dire granché e probabilmente anche meno, nulla, salvo procedere all’infinito intrecciando storie con storie, proponendo con regolarità elementi fissi e variabili. La coazione a ripetere insita nella serialità, la sua intima dialettica che contrappone il nuovo e il sempre uguale, trova in questo ciclo farmeriamo la sua più compiuta manifestazione e, al tempo stesso, ne svela il gioco, anzi tutti i giochi pertinenti al narrare. Lo scenario allestito da Farmer ha del ciclopico, le trame che lo attraversano sono tendenti all’infinito e per questo l’orizzonte è quello di un glorioso fallimento.

In un tempo imprecisato, in un punto ignoto dell’universo, su un pianeta gigantesco attraversato da un fiume lungo (si stima) dieci milioni di miglia, si risveglia l’umanità intera vissuta nel periodo compreso tra il 99.000 a.C. e il 1983 (in un primo tempo da più parti nella storia viene ipotizzato un diverso arco temporale).

Dire che per tutti si tratta di uno shock rende poco l’idea di quello che i resuscitati vivono in quel primo istante, big bang della coscienza ritrovata dell’intero genere umano. Il lettore osserva la scena attraverso gli occhi di quello che oltre a essere l’attore principale del primo romanzo, sarà anche il protagonista assoluto del ciclo: sir Richard Francis Burton “esploratore inglese, linguista, scrittore, poeta, spadaccino e antropologo” (Gli dei del fiume), un classico farmertipo, insomma, di quelli che assommano il fine intellettuale e l’avventuroso eroe senza scrupoli quando serve.

È il giorno del risveglio.

 

“Burton si alzò in piedi. Anche altri si stavano alzando. Molti avevano il volto inerte, oppure con un’espressione di assoluta meraviglia. Alcuni sembravano atterriti. I loro occhi erano spalancati, e roteavano; il loro petto si alzava e abbassava rapidamente; il loro respiro era sibilante. Alcuni tremavano come se fosse passato su di loro un vento gelido, malgrado l’aria fosse piacevolmente calda. Ma la cosa più strana, la cosa davvero sovrumana e terrorizzante, era il silenzio pressoché assoluto. Nessuno diceva una parola […] Di colpo una donna si mise a gemere. Cadde ginocchioni, gettò all’indietro la testa e le spalle, e cominciò a mugolare. Al tempo stesso, da un punto molto distante lungo la riva del fiume, qualcun altro mugolò. Fu come se quei due pianti fossero stati dei segnali. O come se fossero stati la chiave per la voce umana, e le avessero così reso la libertà. Gli uomini e le donne e i bambini presero a gridare, o a singhiozzare, o a graffiarsi il volto con le unghie, o a picchiarsi il petto, o a cadere in ginocchio alzando le mani in preghiera, o a gettarsi bocconi cercando, a mo’ di struzzi, di seppellire il volto nell’erba per non essere visti, o a rotolarsi avanti e indietro, abbaiando come cani o ululando come lupi” (Il fiume della vita).

 

Burton è nudo e calvo, come tutti. Il suo corpo non è quello del sessantanovenne morto nel 1890, ma quello che possedeva all’età di venticinque anni. Come per gli altri anche “intorno al suo polso c’era un sottile bracciale trasparente, collegato a una striscia dello stesso materiale e lunga quindici centimetri. L’altra estremità di questa era assicurata ad un semicerchio di metallo, che costituiva l’impugnatura di un cilindro di metallo grigiastro, chiuso con un coperchio” (ibidem).

 

Tutti si ritrovano con il corpo riportato al tempo del massimo splendore. Ci sono bambini, anch’essi calvi, nessuno di età inferiore ai cinque anni. Burton si era già risvegliato (in una sorta di prologo) in una camera gigantesca di pre-resurrezione contenente miliardi di corpi che galleggiano nell’aria come il suo. Chi è l’autore di tutto ciò e perché lo ha fatto? Quali fini si è posto? Determinismo, libero arbitrio, concezioni dell’universo e dell’uomo si danno il cambio nel corso del racconto. La quest troverà risposta, ne troverà diverse, lungo la strada, anzi lungo il corso del fiume, e una folla di personaggi entrerà in gioco. Farmer vi riversa tutto il suo sapere, lascia ovunque segnali, spie, avvisi della enciclopedica documentazione sottostante la narrazione. Un gusto flaubertiano, in una vicenda dove i condomini balzachiani e i gironi danteschi si danno appuntamento nell’altrove. A volte basta un cenno, come avviene in Alle sorgenti del fiume, quando Sam Clemens (ovvero Mark Twain) impreca contro Giovanni Senza Terra, un pessimo alleato a suo modo di vedere per l’impresa che ha in mente, ovvero di risalire il Fiume fino alle sue sorgenti. Nello sbottare, precisa che a un simile alleato così velenoso, avrebbe preferito un mascalzone come il re del Belgio (ai suoi tempi): Leopoldo. Ebbene, Twain è l’autore del Soliloquio di re Leopoldo, breve e poco noto testo dove si sbeffeggia magistralmente il predone del Congo.

In un equilibrio impossibile, Farmer terrà viva la tensione, il mistero e soprattutto l’avventura, riuscendo al tempo stesso a passare in rassegna tutti i grandi temi e le figure chiave della fantascienza: androidi, alieni, robot, viaggi nello spazio e nel tempo, apocalissi, fantasie scientifiche, utopie e antiutopie, universi paralleli, superuomini e soprattutto il grande sogno infuso in tutte le storie e a tutti gli eroi: la ricerca dell’immortalità. Se un’opera è così concepita, però, è chiaro perché non può che destinarsi al fallimento, ad essere progettualmente incompiuta. Il Mondo del Fiume non si può narrare integralmente, anche le vicende del ciclo principale procedono per balzi, tra il primo romanzo e il secondo, ad esempio, intercorrono vent’anni. A questo si aggiunga che nella prima parte del ciclo è impossibile morire definitivamente, perché la resurrezione è automatica, solo che il corpo si ritrova in un altro punto del pianeta secondo criteri imperscrutabili (ma che cosa non lo è in questo mondo?). Dunque anche chi è comparso e poi morto nel corso delle vicende iniziali è portatore di un’ulteriore storia affluente relativa al suo post-post mortem. Ciò nonostante Farmer la coltiva per quarant’anni, la persegue come un’utopia, per il gusto dell’avventura, probabilmente, quella dello scriverla (che sfida!) e del narrarla, potendo ancora una volta partecipare da signore assoluto al suo gioco preferito: la citazione.

Farmer ha sempre amato le storie d’avventura, ingerendo sin da bambino in dosi massicce le gesta di eroi di carta e di celluloide e ha incessantemente citato i protagonisti delle sue storie preferite. Nel suo terzo grande ciclo, quello dell’universo Wold Newton, si presuppongono parentele aliene che legano insieme una combriccola stupefacente, comprendente tra gli altri, Doc Savage (la sua biografia apocalittica è l’altro tassello di partenza), Philip Marlowe, Arsène Lupin, James Bond, Nero Wolfe, Phileas Fogg, il Viaggiatore nel tempo di H.G. Wells e Sherlock Holmes. (vedi "Quaderni d'Altri Tempi" n. 20). Ha citato di tutto, letteratura di serie A, B, fino a quella di serie Z da cui nascono alcune sue storie di fanta-porno-horror.

Farmer amava citare i suoi amori, un’autentica passione, si è sempre divertito a pasticciare con le sue letture creando scenari adatti a contenerle tutte, inventando situazioni che consentissero ai suoi personaggi ideali di incontrarsi, connettendo piani differenti di finzioni, intrecciando epoche, culture e figure provenienti dagli ambienti più disparati, con retroterra storico-culturali anche diametralmente opposti.

Farmer ha citato di tutto nei sessant’anni che ha dedicato al mestiere di scrittore, svelando la natura intima della letteratura di massa senza tradirla. Citando alla rinfusa, nelle storia di Farmer oltre ai personaggi del Wold Newton sono comparsi Tarzan (ripetutamente, cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 23), King Kong, Ishmael, tale Fyodor (ma non è difficile arrivare al suo cognome). Si è mascherato da Kilgore Trout, ovvero il protagonista de La colazione dei campioni di Kurt Vonnegut Jr. per firmare il romanzo Venere sulla conchiglia, ha attinto da Edgar Rice Burroughs non solo con Tarzan ma anche dalle avventure di John Carter di Marte, e gli ha fatto il verso (ma operando un altro fine ribaltamento di piani, cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 39) scrivendo un racconto su Tarzan alla maniera dell’altro Burroughs (William), celebre soprattutto per essere l’autore de Il pasto nudo. Nel Mondo del Fiume di personaggi che con la letteratura e l’avventura sono parecchio coinvolti ne compaiono a bizzeffe. Ci sono il citato Sam Clemens, Alice Pleasance Liddel Hargreaves, che ispirò a Lewis Carroll le storie di Alice in Wonderland, Jack London, Tom Mix, Ulisse, Mozart, Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac, Aphra Behn, la prima donna a fare di mestiere la scrittrice sostenendosi con i proventi delle sue opere, il poeta cinese Li Po, anche lui famoso spadaccino, il Padre del ragtime di S.Louis, al secolo Tom Turpin e così via, ai quali si accompagnano anche un discreto numero di personaggi storici ambigui, inquietanti, crudeli; come si è detto c’è Giovanni d’Inghilterra, il Senzaterra, fratello di Riccardo I d’Inghilterra, il Cuor di Leone, ma anche Hermann Göring, il fondatore della Luftwaffe, qui pentito e “sacerdote” della Chiesa della Seconda Possibilità, un cocktail mix di new age e religioni storiche, e il re vichingo Erik il sanguinario, per citare i personaggi più di rilievo nella finzione farmeriana.

Farmer, non poteva essere altrimenti, si è inserito tra i protagonisti (lo precisa, si è detto sopra: ci sono personaggi anche sotto falso nome ma reali) del Mondo del Fiume. Qui si fa chiamare Peter Janus Frigate (si notino le iniziali) e addirittura ce se sono due, uno “autentico” e l’altro un impostore, in realtà uno degli artefici del Mondo del Fiume, Loga, il dissidente dal progetto concepito da una élite super tecnologica, razza iperevoluta i cui membri emblematicamente si indicheranno lungo tutta la storia come Etici. In questo gioco di specchi l’autore trova modo di tornare al tempo delle malefatte subite dall’editore che non gli pagò i diritti per il citato Owe for the Flesh, solo che lo sfogo è inizialmente affidato al falso Frigate! Trova il modo di spiegarci la sua inclinazione letteraria e a fornirci una confessione in sedicesimo. Parlando di Frigate/Farmer, scrive: “Le serie erano la sua specialità, nei sogni e nella narrativa. Una volta, durante la sua carriera di scrittore, aveva avviato ventuno serie. Ne aveva completate dieci. Le altre stavano ancora attendendo, incompiute, quando il grande redattore dei cieli le aveva arbitrariamente censurate tutte. Così in vita, così in morte. Non riusciva mai – mai? be’, quasi mai – a terminare qualcosa. Il grande incompiuto” (Il grande disegno). Iperbolicamente Frigate/Farmer confessa anche il limite della sua coscienza di scrittore: “Non chiedermi di definire la fantascienza – aveva risposto Frigate. – Nessuno è mai riuscito a darne una definizione del tutto soddisfacente” (idbidem).

Troviamo anche un accenno di lista degli autori che formarono l’artista Frigate/Farmer da giovane: Frank Baum, Hans Andersen, Andrew Lang, Jack London, A. Conan Doyle, Edgar Rice Burroughs, Rudyard Kipling e H. Rider Haggard e di alcuni testi decisivi nella sua formazione: Il viaggio del pellegrino, Tom Sawyer e Huckleberry Finn, L’isola del tesoro, Le mille e una notte, e I viaggi di Gulliver. Gioco di specchi. Si è poi auto-citato, nel capitolo finale del Ciclo del Fiume, il quinto romanzo, Gli dei del fiume, dove gli abitanti della torre eretta al Polo Nord del Pianeta del Fiume si regalano dei mondi privati, universi costruiti su misura come quelli che Farmer aveva già immaginato nell’altro ciclo massimo della sua produzione, i Fabbricanti d’universi. Il cerchio si chiude; Farmer, niente affatto uno sprovveduto che tira avanti con materiali di bassa lega, sa come ingegnarsi e allestisce nel Ciclo del Fiume una meta-letteratura al quadrato. Laddove i signori degli universi rivelavano le pulsioni, le logiche e le tecniche che presiedono alla costruzione letteraria della fantascienza e dell’intera letteratura popolare ma non solo, gli abitanti della torre raddoppiano la posta via via che il trucco si palesa. I signori degli universi appartengono a una razza evoluta, superomistica, il loro orizzonte è ludico; gli abitanti della torre sono umani, del passato per giunta, è la loro natura a essere vocata alla finzione. Basti osservare i cuccioli degli umani, gli adolescenti, pronti a immergersi nelle avventure dei loro eroi, ad affiancarli e anche a sostituirvisi. Vale anche oggi in tempo di passatempi su dispositivi mobile. La fantascienza è nata e cresciuta così. Si ripercorra il catalogo sopra elencato: androidi, alieni, robot, viaggi nello spazio e nel tempo, apocalissi, fantasie scientifiche, utopie e antiutopie, universi paralleli, superuomini e immortali.

Se l’elenco è valido, ovvero se non esiste storia fantascientifica contenente almeno una di queste voci, allora il testo-chiave del genere è Assurdo Universo il romanzo scritto nel 1949 da Frederic Brown. Che cosa racconta Brown? Il protagonista del romanzo dirige un periodico di sf (un pulp chiamato Storie sorprendenti) e viene catapultato in un universo inventato proprio da un lettore della sua rivista che, di quel mondo, è l’eroe incontrastato: un adolescente fulminato dalle storie di science fiction. In questa pazza, pazza, pazza storia, Brown spiega, o meglio svela i meccanismi che presiedono alla costruzione di una storia di sf, realizzando un metaracconto sull’onnipotenza di ogni creatore. Con Assurdo universo la sf chiudeva la lunga stagione che l’aveva vista prima goffa e impacciata come ogni bebè all’avventura carponi, poi spedita nel muovere i primi passi fino alla fioritura, in piena crescita, infine nel raggiungimento di un primo splendore adolescenziale. Brown chiudeva un’epoca e indicava la via maestra verso la maturità, una crescita fatta di visioni sempre più pericolose, di smaliziate decostruzioni, di disincantate e ambigue utopie, di vertiginoso citazionismo, di libertà assoluta nei temi e nelle tecniche letterarie, di speculazione sull’esistente e di indagini sul relativismo del presunto mondo reale, di congetture sulla natura stessa della scrittura. Alcune di queste traiettorie sono state tracciate magistralmente da autori come Philip K. Dick e James Ballard, abili nelle trasfusioni virali di realtà nella finzione e viceversa.

Una diversa e altrettanto radicale opera di ri-composizione è, come si è detto, quella messa in scena da Philip José Farmer, che ha sempre operato all’interno dei territori della fantascienza facendo leva sulla voracità del genere (il blob è la sua natura) che ben si addiceva al suo pantagruelico appetito di lettore.

La fantascienza in Farmer non ricopre il mondo, non invade gli altri generi, ma è ricoperta dal reale, invasa dagli altri generi. Se negli altri autori citati il genere si svuota e implode, in Farmer si riempie ed esplode. Processi convergenti che conducono la fantascienza all’estinzione.

Eppure, sebbene tutta la sua produzione altro non è che la geniale serializzazione del codice narrativo di Assurdo Universo, Farmer non ha mai citato esplicitamente il romanzo di Brown. In generale Farmer non cita mai scrittori di fs perché è più propenso condurre dentro la sf l’altra letteratura. Ecco perché non cita Brown e nessun altro ad esclusione di Burroughs.

La stessa logica che porterà anni dopo i creatori di un altro mondo su misura tipicamente farmeriano a non citare Farmer.

Anche qui abbiamo dei risorti ai quali si offre una seconda possibilità che viene donata in una cornice altrettanto esotica, un’isola nel Pacifico, centro di energia (il Mondo del Fiume come si scoprirà si fonda sulla trasformazione dell’energia sprigionata dal nucleo del pianeta in materia) che non ha uguali al mondo, e tutti sono personaggi di una quest che irradia domande su domande sul destino e sull’identità via via che si dipana quella che è anche un’avventura: Lost. La serie è implicitamente ispirata al ciclo farmeriano, ne preleva lo spirito e gli spiriti, ne adatta la cornice e ne attualizza la forma, lasciando che sia la fantascienza a essere materia di citazione (si pensi all’introduzione nella storia dei viaggi nel tempo). Tutt’altro dalle due ignobili versioni televisive del Mondo del Fiume proposte dal canale SyFy nel 2003 (quando si chiamava Sci Fi Channel) e nel 2010.

Anche Lost a ben vedere fallisce, non tanto per il finale che lascia perplessi (e sotto sotto simile a quello del Mondo del Fiume), quanto per disposizione genetica dell’idea che c’è dietro, un dispositivo inesauribile e dunque condannato a non chiudersi mai, pena l’inevitabile incompiutezza. D’altra parte le cose non cambiano quando ci si cimenta nell’esegesi di opere di tal fatta e il diluvio di parole che ha accompagnato Lost in rete risulta eloquente. Figuriamoci se poteva evitare di fallire anche questo tentativo di commentare Farmer. Avremo una Seconda Possibilità?

 


 

LETTURE

Farmer Philip Josè, Gli avventurieri di Riverworld, Nord, Milano, 1994.