LETTURE / UN'ARIA DA DYLAN
di Enrique Vila-Matas / Feltrinelli, Milano, 2012 / pp. 302, € 19,00
Il trionfo dell'incompiutezza
di Gianfranco Pecchinenda
Ma l’arte è anche sfuggire a ciò
che gli altri credono che tu sia
o da ciò che si attendono da te
Enrique Vila-Matas
Qualunque sia l’argomento, per quanto siano numerosi i temi trattati, o complessi gli intrecci delle trame proposte, quando si legge un libro di Enrique Vila-Matas si può essere ben certi di aver aperto una porta che potrebbe condurre verso la vita vera: quella dell’immaginazione.
Con Un’aria da Dylan, l’ultimo lavoro dello scrittore catalano, ci troviamo di fronte ad una nuova dimostrazione della sua straordinaria capacità di consegnare, ad ogni lettore, il suo lasciapassare per quel mondo altro, quel mondo genuino che chiamiamo Letteratura. Sì, signori, questa è Letteratura: bisogna mollare gli ormeggi, diffidare di ogni certezza, dimenticare ogni nozione di logica cartesiana, e benvenuti a bordo. La letteratura, come direbbe Louis Ferdinand Céline, è dall’altra parte della vita; tutto è inventato, “tutto è un romanzo, nient’altro che una storia fittizia”. Quello che ci attende, insomma, quando ci si appresta ad entrare nel mondo descritto da Vila-Matas, non è il consueto futuro, quello a cui ci avviciniamo in genere con l’ordinaria greve noia dei fatti, ma un eterno presente, quello descritto dalle grandi narrazioni, dalle mitologie, dalla poesia e dalla letteratura più vera. Solo dopo questa premessa, e solo accettando fino in fondo tale assunto – che la Letteratura è dall’altra parte della vita – è possibile provare a tradurre in qualche modo le emozioni e le sensazioni prodotte dall’ultimo capolavoro di Vila-Matas in un discorso che prenda in considerazione questioni di tipo più analitico. Ci consentiremo allora il privilegio di prelevare una serie di ingredienti (certamente ne tralasceremo alcuni) che sono emersi dalla nostra personale lettura, rimescolarli, e presentarne (certamente in una pietanza solo parzialmente gustosa) i possibili significati. Cominciamo dai protagonisti principali del romanzo: il giovane Vilnius Lancastre, figlio del defunto Juan Lancastre, scrittore di una certa fama. Una delle caratteristiche fisiche più rilevanti di Vilnius è quella di somigliare molto al mitico Bob Dylan; tra le altre qualità distintive connesse al suo stile comportamentale, c’è quella di essere una persona pigra, svogliata, senza pretese, abulica, indolente: insomma un tipico Oblomov. Il suo unico interesse sembra essere quello di portare avanti un progetto per la costituzione di un “Archivio Generale del Fallimento”, idea nella quale investe quelle poche energie che avanzano dal suo modo di fare eminentemente passivo, al quale affianca quella che forse è la sua unica, vera passione: il cinema.
Per scrivere un romanzo – sostiene, com’è noto, Vila-Matas – è sufficiente un pretesto qualunque. In questo caso il pretesto viene dato proprio dall’organizzazione di un congresso accademico, in una università svizzera, sul tema del Fallimento, al quale partecipa anche il protagonista del romanzo, Vilnius Lancastre.
Il motore delle vicende che fanno girare in modo molto originale il romanzo, nel più perfetto e inimitabile stile vilasmatiano, può essere invece a nostro avviso ridotto sostanzialmente a due questioni, peraltro magistralmente intrecciate tra loro: il difficile rapporto tra il Lancastre padre e il Lancastre figlio; e la ricerca dell’origine, della primogenitura, della paternità – appunto – di una celebre frase recitata in un film di Frank Borzage del 1938, I tre camerati. Per quanto riguarda il primo punto, la questione amletica viene sviscerata ripetutamente nel corso della storia, in particolare in quei momenti in cui si rende necessario caratterizzare gli atteggiamenti esistenziali del giovane Vilnius mettendoli in rapporto alle ferite mai completamente rimarginate correlate al suo legame con il defunto padre. E il carattere universale della problematica viene evidenziato brillantemente quando si afferma che non è tanto un problema di avere avuto un padre “famoso”, quello di Vilnius, ma quello di avere un padre con il quale, fin quando ancora era in vita, non aveva avuto occasione di chiudere i conti. “È vero – dice lo scrittore all’interno del romanzo – in realtà non importa quanto famoso nel mondo possa essere il proprio padre. È sufficiente infatti che sia semplicemente un poco famoso nel suo quartiere per costituire già un problema per suo figlio”.
Per quanto riguarda la seconda questione, la frase-motore è la seguente: “Quando fa buio abbiamo sempre bisogno di qualcuno” e viene da Vilnius attribuita in un primo momento a Francis Scott Fitzgerald, sceneggiatore del film. Successivamente, però, Vilnius scoprirà che gli sceneggiatori erano stati addirittura otto (e che inoltre c’era probabilmente stato anche un intervento del produttore stesso). In sostanza si tratterà di un ulteriore fallimento: è impossibile risalire alla paternità di quella frase, così come sarebbe comunque impossibile risalire alla vera origine di una qualunque produzione artistica.
La storia prende avvio, come dicevamo, da un congresso di scrittori dove Vilnius incontra un altro grande protagonista del romanzo, l’io narrante, che lo accompagnerà poi fino al termine della storia. Si tratta di uno scrittore che in passato aveva conosciuto suo padre. Uno scrittore pentito, come egli stesso confessa, addirittura “quasi addolorato” per tutti i libri che aveva pubblicato nel corso della sua vita. Il giovane Vilnius lo convince a recedere dalla sua decisione di non voler più scrivere alcun libro, e gli propone di redigere una biografia di suo padre: “la storia di come un lutto può generare una nuova famiglia a un defunto; la storia, anche di giovani poetici e malati, Oblomov paventati, persi nel vuoto culturale della loro terra e con tendenza ad essere, fino a limiti insospettabili, sfaticati e refrattari allo sforzo; una storia di lutto e abisso”. In pratica un’autobiografia falsa di uno scrittore morto. Ed è proprio dal riferimento ad alcuni momenti di questa biografia che emerge un altro personaggio che si può dire svolga un ruolo chiave nelle vicende narrate da Vila-Matas: si tratta della madre del protagonista, presentata come il prototipo della cattiva madre, un vero e proprio mostro, su cui pende peraltro il sospetto di aver complottato, in accordo con il suo amante, l’assassinio del padre di Vilnius.
Al di là dell’intricato dispiegarsi delle vicende, e delle caratteristiche specifiche di questi personaggi principali, attraversano la storia altre importanti e più o meno fugaci figure, le quali finiscono per provocare nel lettore una serie continua di accattivanti suggestioni che richiamano alla mente alcuni momenti, a tratti anche esilaranti, della storia della letteratura, del teatro, del cinema, nonché della musica: oltre agli ovvi richiami ad Amleto ed Oblomov, ci sono ad esempio Bob Dylan e Agatha Christie, Woody Guthrie, Philip Marlowe e Marcel Duchamp, nonché il ricorrente richiamo al motivo musicale di Underneath the Mango Tree.
E sono proprio questi i momenti in cui la genialità di Vila-Matas raggiunge le vette più elevate. Sono quei periodi della storia in cui lo scrittore mette in qualche modo in scena se stesso, con tutti i suoi irrisolti e irrisolvibili dubbi che finiscono per interrogare il lettore sensibile ai rinnovati problemi della grande letteratura; momenti in cui lo scrittore si rivolge a quel lettore indefinito, che però immagina in qualche modo essere simile a se stesso. Ovvero qualcuno che non si lasci necessariamente trascinare dalla miriade di spettacolari eventi mediatici che ossessivamente ci vengono quotidianamente riproposti attraverso i mezzi di comunicazione di massa; qualcuno che cerca di resistere a quelli che sembrano essere i nuovi doveri di un tipo di cultura che cerca di imporre la necessità di soffermarsi a commentare gli atteggiamenti dell’attore di moda, i pensieri dell’assassino seriale di turno, l’aumento dello spread, le conseguenze di terremoti e di alluvioni devastanti, le rivolte nei paesi arabi, le bizze della moglie del calciatore famoso. Insomma uno scrittore che conservi la pretesa di poter dialogare con un lettore ancora interessato a compiere il grande sforzo – spesso da coltivare silenziosamente e di nascosto – di cercare di fare un po’ di ordine nella sempre più confusa coscienza dell’uomo contemporaneo.
Un grande atto di fede, a ben pensarci, nel potere dell’arte e della letteratura. Ma anche una visione del mondo, quella che Vila-Matas ci presenta attraverso questo romanzo, in cui traspare con molta chiarezza l’idea della necessaria incompiutezza dell’esistenza; un’esistenza come rappresentazione teatrale, in cui ognuno recita un ruolo e in cui talvolta, quando si cerca di sfuggire alla sceneggiatura o al personaggio previsto, ci si rende conto che non c’è alternativa, che al di fuori della messinscena non ci sono altri ruoli da interpretare e neppure, dunque, altre possibili vie d’uscita. In tal senso, forse, l’ipotesi del Fallimento potrebbe far emergere l’idea secondo cui, nella vita, non sarebbe poi tanto indispensabile trionfare; che la strada della competitività a tutti i costi, in fondo, non necessariamente produce vantaggi di tipo assoluto; che a volte si può vivere bene anche nella penombra, con leggerezza e assecondando e accettando i vuoti e i timori racchiusi nei silenzi.
Insomma, come dicevamo, un libro vero e anche – volendo rispettare quanto detto in premessa – sincero. Perché, come direbbe Emmanuel Bove, “non c’è sincerità possibile se ci si accontenta di imitare la natura”.