La Morte è l’unico territorio
dell’esperienza umana – forse insieme al suo
compagno/rivale di sempre, l’Amore – a rimanere
refrattario ad una qualsiasi riduzione conoscitiva convincente, almeno
per noi moderni. I tentativi di colonizzarne i paesaggi, di ridurla a
un qualsiasi “ordine del discorso” sono il riflesso
di un’immensa presunzione, e sono inevitabilmente destinati
al fallimento. Forse è anche per questo che la Signora con
la falce è ospite fissa dei media. Vicende criminali,
disastri naturali, conflitti armati ne sono il veicolo, il medium, se
si vuole, perché i mezzi di comunicazione ne sgranino
imperterriti e meticolosi la contabilità generale.
Contabilità
di cui vengono messi in evidenza poi, volta per volta, i vari libri
mastri “accesi” alle singole filiere di cui si
nutre.
Le morti sul lavoro, ad esempio, che però
– come nota Ilvo Diamanti sulla Repubblica del
14 maggio scorso – vanno in scena col dovuto rilievo solo
quando sono “di massa”, come nel caso della
Thyssen-Krupp di Torino, dimenticando spesso – come fossero
fondi “in nero” – la falcidie quotidiana
che si compie nei cantieri, nelle fabbriche, dovunque alligna il
lavoro, questo sì, “nero”, come appunto,
il mantello della Morte. Uno stillicidio che presenta un saldo
impressionante. E che forse prima o poi verrà ad esigere il
suo credito a chi ne è, in un modo o nell’altro,
responsabile. Va da sé che un addensarsi di suicidi in uno
stretto periodo di tempo – più apparente che
reale, dicono però gli istituti di ricerca –
risvegli l’interesse della comunicazione mediale. Proprio
perché sono suicidi, tanto più se riguardano una
categoria specifica, quella degli imprenditori. Morti legate al lavoro
anche queste, quindi. Ma non inaspettate (anzi, progettate),
bensì cercate (anche se, forse, indesiderate).
Scelta
impenetrabile, il suicidio, come ineffabile ne è
l’esito. Uno dei luoghi su cui si sospendono il pensiero e la
parola. Tranne che nel giudizio dei moralisti e dei religiosi. E nei
tentativi di analisi dei sociologi. Anzi, proprio uno dei padri della
sociologia, Émile Durkheim, scrisse uno dei saggi di
riferimento – oltre che uno dei classici della sociologia
– sull’argomento, e sul suo statuto nella
condizione moderna. E con lui, romanzieri come Emanuel Bove, con il suo
La coalizione, recentemente pubblicato in italiano:
la vicenda di un uomo che da un’agiatezza ampiamente
immeritata scivola lento nel bisogno, poi in un’indigenza
sempre più assoluta, fino a decidere di affidarsi
– di concedersi – alle acque della Senna. Vergogna?
Senso di colpa? Né l’uno né
l’altro. Piuttosto inconsistenza, infantilismo,
deresponsabilizzazione. Molto “moderna” come
condizione: uno sguardo sul futuro dell’uomo occidentale.
Più o meno nei decenni fra il saggio di Durkheim e
il romanzo di Bove altri scrittori sentivano la crisi del soggetto
contemporaneo, ma, a differenza del personaggio di Bove, ne traevano
altri frutti. Thomas Mann, Hermann Broch ce l’hanno
raccontata nei loro romanzi. E – non è casuale
– erano ambedue figli di imprenditori, e impegnati
nell’intrapresa di famiglia loro stessi, a subire in pieno la
lacerazione che si creò fra loro e la propria impresa sotto
i colpi della specializzazione e della separazione dalla direzione del
proprio compito – di una parte di se stessi – per
l’aumento della complessità del lavoro: alienazione,
proprio come per i loro operai. Pur essendo ebrei, e non protestanti,
condividevano con questi ultimi, in qualche misura, la dimensione del Beruf.
Niente
sensi di colpa, niente vergogna, nella consapevolezza della crisi.
Narrazione di sé, attraverso i propri personaggi –
e creazione di opere che ancora ci parlano, di loro e di noi stessi, a
distanza di quasi un secolo. Come, ne siamo sicuri, né colpa
né vergogna hanno provato i sucidi di questi mesi. Forse, un
senso di impotenza, soverchiati e schiacciati dalle conseguenze della
crisi economica e dalla solitudine: dalla mancanza di sostegno da parte
delle istituzioni (politiche, finanziarie, per qualcuno religiose) che
pure li avevano illusi con le loro promesse. E senso di
responsabilità impossibile da placare, nei confronti delle
famiglie, dei dipendenti… Ormai questi nostri simili hanno
attraversato una soglia assoluta, inesorabile, esito definitivo della
nostra fragilità. Non possiamo, per ora,
rivolgergli domande – né vogliamo farlo.
Rispettiamone il silenzio. Tanto è un discorso
soltanto sospeso.