LETTURE / COMPAGNO STRAWINSKY
di Massimo Mila / Bur Rizzoli Milano, 2012 / pp. 258, € 12,90
Il modernista che ritornò al Parnaso
di Roberto Pacifico
Ristampati a distanza di quasi trent'anni dalla prima pubblicazione per Einaudi (1983), gli scritti di Massimo Mila (1910-1988) raccolti in Compagno Strawinsky* commentano alcune delle composizioni più significative di mezzo secolo della carriera artistica di Igor Stravinskij (Orianenbaum, Pietroburgo 1882-New York 1971), da Petrushka (1912) e Le Sacre du Printemps (1913), fino ad Abramo e Isacco e alle Elegie per Kennedy (1962), passando attraverso le antichità russiche de Les Noces (1923), l'anticonvenzionale e jazzistica Histoire du Soldat (1918), e le opere della lunga fase neoclassica (Oedipus Rex, Orpheus, The Rake's Progress), per arrivare allo Stravinskij religioso di Sinfonia di Salmi e La Messa, e a quello dodecafonico del Settimino, dei Threni, di The Flood, le ultime due ispirate a motivi del Vecchio Testamento.
Stravinskij è forse il compositore russo più famoso al mondo: prima di lui, e dei suoi contemporanei Sergej Sergeevič Prokof'ev e Dmitrij Šostakovič, la musica classica russa s'identificava per l'ascoltatore medio europeo in Pëtr Il'ic Čajkovskij, Modest Petrovič Musorgskij e Nikolaij Andreevič Rimskij-Korsakov, di cui Stravinskij fu allievo privato. Stravinskij ha sdoganato a livello internazionale la musica russa, conservandone lo spirito. Ha padroneggiato i più disparati indirizzi musicali e stilistici, pur nell'ambito della tradizione diatonico/tonale. Nonostante molti critici e musicologi riconoscano l'originalità solo a una parte della sua produzione, quella che precede la svolta neoclassica, Stravinskij rimane uno dei massimi compositori del Novecento: lavorò moltissimo per il teatro, quasi sempre per commissione, collaborando con una rete di artisti e intellettuali di primo piano, da Sergej Djagilev – impresario dei Balletti Russi, che fu suo primo sostenitore e committente, oltre che amico – a Pablo Picasso, Charles Ferdinand Ramuz, Jean Cocteau, e Wystan H. Auden che scrisse il libretto di The Rake’s Progress.
A 28 anni aveva già realizzato per i Balletti Russi di Djagilev tre composizioni, Oiseaux de Feu, Petrushka, e Le Sacre du Printemps, che, lo si voglia o no, erano già, e sono tuttora, l'Everest della sua creatività, e il punto apicale del suo contributo all'innovazione musicale del Novecento. Con il Sacre (sottotitolo: Quadri della Russia pagana) ridestò la potenza dell'orchestra, creando effetti e soluzioni armoniche, ritmiche e timbriche che faranno scuola: “Mastodontica e singolare orchestra dai timbri puri e opachi, senza fremiti, senza vibrazioni, che non fanno appello a nessun compiacimento sensuale, ma al contrario determinano e condizionano la natura dei temi. Gli archi sono relegati a un modesto ruolo ai piedi della partitura, spesso in funzione meramente ritmica, mentre la fascia dei fiati, soprattutto dei legni, si espande in una mai vista larghezza, con tutte le varietà possibili di fiati, di clarinetti, di corni inglesi, e con la formidabile massa sonora di otto corni inglesi. «J'ai mis au premier plan les bois – spiega Strawinsky – plus secs, plus nets, moins riches d'expression facile, et par cela même plus émouvants à mon gré». (Mila, 2012).
Fino allo scoppio della prima guerra mondiale la sua esistenza si può dividere in due grandi fasi corrispondenti ad altrettanti periodi musicali: quello delle radici russe (1882-1913) a cui si ricollegano capolavori come Oiseau de feu, Petrushka, Le Sacre du Printemps, Le Rossignol; e il soggiorno svizzero (1910-1920) durante il quale scrisse, oltre a composizioni ancora a sfondo russo come Renard, Les Noces, anche l'Histoire du Soldat che rappresenta un turning point nella sua evoluzione musicale ed espressiva.
La rivoluzione russa del 1917 gli impedì di rivedere la patria: vi ritornerà solo nel 1962. Dal 1920 al 1939 visse in Francia, dove lavorò ad opere fondamentali nella sua svolta neoclassica, come Oedipus Rex, Apollon Musagète, Le Baiser de la fée, Sinfonie di Salmi, Perséphone, Jeux de cartes, girando per tournée in Europa e negli Stati Uniti. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale si trasferì definitivamente negli Stati Uniti, a Hollywood, dal 1939 fino alla fine della sua vita.
Prima del libro di Mila, era uscito nel 1958 lo Strawinsky di Roman Vlad. A questo proposito, il musicologo torinese precisa nella breve nota introduttiva (Avvertenza) al Compagno Strawinsky: “Può sembrare presunzione, anzi, è senz'altro presunzione salvare questi documenti effimeri e affidarli a una casa editrice (appunto Einaudi, ndr) che ha nel suo catalogo il fondamentale libro di Roman Vlad su Strawinsky. Unica giustificazione, se una giustificazione è possibile, è che sono altra cosa” (ibidem, 2012). E in effetti il libro di Mila è un'altra cosa, ma non in senso diminutivo: più che una trattazione sistematica, di stampo musicologico, è una raccolta di scritti divulgativi (soprattutto articoli di giornale e recensioni), non per questo, però, meno puntuali e precisi sotto il profilo tecnico-musicale.
Il titolo, Compagno Strawinsky, allude a una definizione del compositore russo come Wegweiser, “compagno di strada per l'uomo moderno”, precisata da Mila nell'Avvertenza. Piero Gelli spiega la chiave di lettura del doppio senso insito nell'aggettivo “Compagno”, politicamente pregnante, data la non involontaria allusione alle implicazioni ideologico-partitiche-culturali evocate dal termine: “questi testi di varia natura coprono un arco di circa venticinque anni, e cioè dal 1947, data cui risale l'articolo che recensisce Chroniques de ma vie, al 1982 dei due saggi con cui si apre e chiude il libro, «Petrushka, primo amore» e «Compagno Strawinsky», che dà il titolo al volume: titolo indovinatissimo con la sua ironica provocatorietà... Mila sa bene che il sintagma «Compagno Strawinsky» è uno sberleffo per tutti coloro che reputano il compositore uno snob reazionario, per i tanti intellettuali gauchiste di muffa zdanoviana, per tutti quei musiciens ancorati all'ordine della Neue Musik timbrata Adorno, sordi alla libido della felicità o per lo meno del gioco per il gioco”. (ibidem, 2012).
Ad alimentare la nomea di uomo e compositore tradizionalista avevano contribuito due fattori, uno interno, l’altro esterno alla biografia di Stravinskij: la sua svolta, maturata già tra le due guerre, in direzione di scelte compositive e stilistiche guidate dall’esigenza di recuperare autori, generi e linguaggi della tradizione musicale, opportunamente filtrati attraverso il proprio gusto; e, nel secondo dopoguerra, l'antitesi di stampo adorniano, “manichea” come la definisce Mila, tra Stravinskij e Arnold Schönberg, antitesi che, precisa l'autore, “difficilmente troverebbe ancora credito”. Il libro di Mila uscì a circa un anno dal centenario della nascita del compositore russo, ricorrenza svoltasi senza eccessivi entusiasmi e nostalgie. “Quando Strawinsky morì, a quasi ottantanove anni, le azioni della sua fama si trovavano forse al punto più basso. Non dal punto di vista del successo, ben inteso, bensì da quello della quotazione critica da parte del mondo musicale. Trionfava l'offensiva dell'espressionismo, scatenata nel secondo dopoguerra, attribuendo a questa sola tendenza artistica ogni merito della sofferta resistenza alla degradazione nazista. Giocando sulle date e sulla contemporaneità dei fatti, il neoclassicismo strawinskiano venne quasi tacciato di fascismo, e in ogni caso di evasione”. (ibidem 2012).
Va da sé che Mila non accetta posizioni così drastiche, e già allora forse superate, dovute a un orientamento intellettuale necessariamente votato al dissenso nei confronti di un “rondismo” musicale vissuto come rappel à l’ordre obsoleto e anacronistico in un contesto di sofferto confronto con la realtà storica che esigeva risposte, sul piano dell'espressione artistica, ben diverse dal ritiro estetico in Arcadia, ossia dalla restaurazione e dalla parodia stravinskiana, parodia intesa come “travestimento a scopo di appropriazione, secondo una pratica ch'era stata ben nota alla musica religiosa del Medioevo, del Rinascimento, della Riforma e della Controriforma” (Mila, 1984).
Soprattutto a partire dal soggiorno francese (1920-1939) Stravinskij percorre con decisione la strada del neoclassicismo: anche se vi è ancora molto di russo nell'opera buffa Mavra (1921) “intessuta di arie, duetti e recitativi, nello stile di una vecchia opera settecentesca, fin dal 1919 con la suite Pulcinella, su motivi di [Giovan Battista] Pergolesi, e poi con l'oratorio latino Oedipus Rex (1927), coi balletti Apollon Musagète e Le Baiser de la fée (1928), ricalcanti a volta a volta forme e aspetti delle più illustri tradizioni musicali del passato, Stravinskij parve aver esaurito il ciclo della sua creazione originale e cominciò a compiacersi dei cosiddetti «ritorni», cioè ricreazioni stilistiche delle forme musicali di artisti e momenti particolarmente grandi e caratteristici del passato. [Johann Sebastian] Bach, [Wolfgang Amadeus] Mozart, [Gioacchino] Rossini, [Charles] Gounod, [Pëtr Il'ic] Čajkovskij, l'opera buffa del Settecento, il virtuosismo concertistico (Concerto per violino, 1930), il brillante colorito pianistico di [Karl Maria von] Weber e [Felix] Mendelssohn-Bartholdy (Capriccio per pianoforte e orchestra, 1929), sono stati a volta a volta presi di mira, tra lo scandalo di buona parte del mondo musicale” (ibidem).
È nel corso di questa fase che Stravinskij si allontana dal grande pubblico, che ancora oggi lo associa a L'Oiseau de Feu, a Petrushka, al Sacre du Printemps, composizioni che, pur nella diversità di concezione, di atmosfera e riferimenti tematici, di scrittura, di effetti orchestrali e timbrici, rappresentano per molti fedeli ascoltatori “the real” Stravinskji. Visto da una prospettiva panoramica, il percorso musicale stravinskiano sembra procedere in controtendenza, o controtempo, per usare un’espressione musicale, rispetto ai grandi movimenti del Novecento. Chiusa la non breve parentesi neoclassica con l'opera in tre atti The Rake's Progress (La carriera del libertino, 1951), alla quale Mila dedica il saggio più lungo e approfondito, Stravinskij recupererà il metodo di composizione dodecafonico, al quale era stato introdotto da Robert Craft, dapprima parzialmente, poi apertamente con Threni (1959), Movimenti per pianoforte e orchestra (1960), e la piccola opera biblica The Flood (1962). Conversione “sbalorditiva, se si pensa che per trent'anni Schönberg e Stravinskij erano stati giustamente considerati come le due vie divergenti, i due poli opposti della musica contemporanea” (ibidem).
Ma già prima del 1935, anno in cui Stravinskij pubblica in Francia lo scritto autobiografico Chroniques de ma vie, il presentimento che l'evoluzione stilistica intrapresa dal compositore di Petrushka e il Sacre fossero vissute dal pubblico come cambi di rotta troppo audaci, doveva pur albergare nello stesso Stravinskij: “Nella prima parte della mia carriera di compositore sono stato viziato moltissimo dal pubblico. Quelle stesse opere che dapprima avevano incontrato un’accoglienza ostile, poco dopo sono state applaudite. Ma ho la precisa sensazione che, nelle mie composizioni scritte durante gli ultimi quindici anni, mi sono piuttosto allontanato dalla grande massa dei miei ascoltatori. Essi si aspettavano qualcos'altro da me. Amano la musica dell'Oiseau de Feu, di Petruška, del Sacre e delle Noces, e si sono avvezzati al linguaggio di queste opere: perciò si meravigliano molto di sentire che oggi ne parlo un altro” (Stravinskij, 1979).
L’artista secondo Stravinskij si rivela compiutamente nella perfetta padronanza dei mezzi tecnici: è nel dominio della propria arte, attraverso il mestiere, che un artista si riconosce e si giudica, non dalle scelte stilistiche e tematiche del momento né dai dettami ideologici imperanti. Un artista preparato si muove a suo agio in tutti i campi del linguaggio e dello stile nei quali decide di produrre: sa innovare e stupire (o sconvolgere) quando è necessario, riprendere e imitare la tradizione classica, fare suoi i criteri più moderni della composizione. È quello che ha fatto Stravinskij: con Petrushka e il Sacre ha dimostrato di essere il più moderno e innovativo dei musicisti classici; nella fase dei “ritorni” ha saputo padroneggiare e rivivere da par suo la tradizione dal Barocco a Čajkovskij; e con le composizioni seriali del dopoguerra ha metabolizzato con disinvoltura la complessa pratica dodecafonica. L'onnivoro desiderio di confrontarsi con uno spettro quanto mai eterogeneo e multiforme di esperienze, stili e materiali artistici accomuna il compositore russo a Picasso, che Stravinskij incontrò nel 1917 a Roma: in un’ottica quasi plutarchea di parallelismo biografico, entrambi vengono spesso paragonati per l'attitudine a lavorare al di fuori di scuole o partiti presi accademici o ideologici, muovendosi con disinvolto moto pendolare tra innovazione e tradizione.
E a proposito della capacità del primo Stravinskij di filtrare, in una sintesi coerente e personale, i più diversi materiali musicali, nobili e plebei, classici e popolari, giova citare un brano di Mila dall'articolo su Petrushka che apre il libro: “E di Petrushka, il non plus ultra del «moderno» ci pareva quel passo del primo quadro dove flauto e clarinetto, imitando il suono di un organetto sopra il rintocco tintinnante del triangolo, intonavano la melodia sgangherata di una canzonaccia da strada: Elle avait une jambe de bois... (In realtà era una canzonetta di cabaret, che un organetto strimpellava tutte le mattine sotto l'albergo di Strawinsky a Beaulieu, sulla Costa Azzurra, e anche lui la credeva adespota. Invece aveva tanto d'autore, un certo Maurice Delage, buon musicista, allievo di Ravel, che dopo il successo di Petrushka non tardò a farsi vivo per riscuotere la sua parte di diritti d'autore).
Lo sberleffo di quella citazione – continua Mila – ci entusiasmava come un gesto di rivolta, uno schiaffo assestato in pieno volto allo Stile Classico, un affronto deliberato alla Tradizione di cui allora, spiace dirlo ma è così, ne avevamo piene le tasche... Elle avait une jambe de bois accolto nella nobile cornice dell'orchestra sinfonica ci faceva lo stesso effetto eccitante che producevano i primi collage di materie vili – turaccioli, pezzi di giornale, scatole di fiammiferi, pizzi e mutandine da donna – nelle nature morte di Picasso, di [Georges] Braque e di Juan Gris... Ecco perché andavamo matti per Elle avait une jambe de bois e ce ne facevamo il manifesto di una nuova poetica: la Musica doveva essere tirata giù dal Parnaso e scendere in strada a conversare con gli uomini, a divertirli, a giocare con noi tra i baracconi e le giostre di carnevale” (Mila, 2012).
Riconducibile allo stesso spirito di personale confronto con le moderne tendenze musicali è la rielaborazione di motivi jazz nell'Histoire du Soldat e nel Rag-Time, entrambi del 1918. La Storia del Soldato viene considerato da molti come un punto di rottura nella carriera di Stravinskij: “Non volendo servirsi del pianoforte per non cadere nello scoglio d'una scrittura virtuosistica, e pertanto convenzionale, Strawinsky s'era servito di un complesso in cui fossero rappresentati gli esemplari più significativi, uno acuto e uno grave, delle principali famiglie di strumenti: violino e contrabbasso, clarinetto e fagotto, cornetta a pistoni e trombone, più una nutrita, vivacissima batteria, sull'esempio di quelle prime musiche di jazz che cominciavano a penetrare in Europa al seguito delle truppe americane, di cui [il direttore d'orchestra Ernest] Ansermet aveva portato una provvista di ritorno dagli Stati Uniti” (ibidem).
Mila rispetta la poetica della musica “al quadrato”, come viene anche definita la filosofia compositiva di Stravinskij dal Pulcinella in avanti, ma non manca di evidenziare, criticamente, i limiti insiti non tanto nelle scelte stilistiche del russo, quanto in alcune prese di posizione a livello teorico, “alquanto discutibili”. Una di queste affermazioni opinabili era il ridimensionamento del ruolo dell’ispirazione a vantaggio del mestiere e della tecnica, che per Stravinskij spiegavano tutto nell’arte, e nella musica in particolare. Strettamente legata a queste convinzioni – e altrettanto fuorviante, se non erronea – l’idea che la musica non esprima nulla al di fuori di se stessa, si ponga, cioè, come sistema linguistico più simile alla matematica che alla lingua: “Poiché io considero la musica, a cagione della sua essenza, impotente a ‘esprimere’ alcunché: un sentimento, un'attitudine, uno stato psicologico, un fenomeno naturale, ecc... L’‘espressione’ non è mai stata la proprietà immanente della musica. La ragion d'essere di questa non è in alcun modo condizionata da quella. Se, come quasi sempre accade, la musica sembra esprimere qualcosa, si tratta di un'illusione e non di una realtà. È semplicemente un elemento addizionale che, per una convenzione tacita e inveterata, le abbiamo prestato, imposto, quasi un'etichetta, un protocollo, insomma un'esteriorità, e che, per abitudine e inconsistenza, abbiamo finito per confondere con la sua essenza... Il fenomeno della musica ci è dato al solo scopo di stabilire un ordine nelle cose, ivi compreso, e soprattutto, un ordine fra l’‘uomo’ e il ‘tempo’. Per essere realizzato esso esige pertanto necessariamente e unicamente una costruzione. Fatta la costruzione, raggiunto l'ordine, tutto è detto” (Stravinskij, 1979).
Il concetto della musica come linguaggio che in sé non esprime nulla si rifà all'estetica musicale neo-hanslickiana. Nel riproporlo, non si sa se intenzionalmente o meno, Stravinskij peccava un po’ di ingenuità: l’Oiseau de feu, Petrushka e il Sacre du Printemps sono un esempio di come la musica non nasce da uno sterile laboratorio dove si assemblano o compongono suoni e ritmi; alla base di quei tre capolavori, e di molti altri, come Stravinskij stesso racconta, vi sono suggestioni di natura letteraria, pittorica, plastica: che sia la visione di uno spettacolo pirotecnico (che ispirò a Stravinskij una delle sue prime composizioni, Feu d’artifice), o l’immagine di un burattino che sfida l’orchestra (Petrushka), o una danzatrice che balla fino allo sfinimento nel sacrificio propiziatorio della Primavera (Le Sacre du Printemps), o anche la parabola distruttiva e paradigmatica di un libertino ispirata ai quadri di William Hogarth (The Rake’s Progress), la creatività di Stravinskij non nasce da, e non consiste esclusivamente in, composizioni astratte. Per esempio, senza la sinergia con un ambiente, quello dei Balletti russi, ricco di spunti visivi, dinamici, plastici, letterari, pittorici, è probabile – ma questo Mila non lo scrive – che Stravinskij non avrebbe composto l’Oiseau de Feu, Petrushka, Le Sacre du Printemps. È anche vero che a un certo punto della sua vita, Stravinskij ha sentito l’urgenza di ridimensionare il suo passato musicale, soprattutto quello più modernista, barbaro, dissacratore, offrendo, così, la più evidente dimostrazione che spesso anche in arte si nasce incendiari e si muore vigili del fuoco.
* Sia nel libro di Mila sia nella monografia di Roman Vlad viene riportata la grafia inglese del compositore (Strawinsky), anziché quella tradizionale russo/europea (Stravinskij) che lo stesso Mila usa nella sua Breve storia della musica. La trascrizione omofona inglese di Stravinskij dovrebbe essere Stravinsky. Il compositore non ha d'altronde mai fatto grosse questioni sul modo di scrivere più o meno correttamente il suo cognome (ricordiamo che ottenne la cittadinanza americana nel 1935).
LETTURE
— Mila Massimo, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1984.
— Stravinskij Igor/Craft Robert, Ricordi e commenti, Adelphi, Milano, 2008.
— Stravinskij Igor, Cronache della mia vita, Feltrinelli, Milano, 1979.
— Vlad Roman, Vivere la musica, Einaudi, Torino, 2011.
— Vlad Roman, Strawinsky, Einaudi, Torino, 1958.
— White Eric Walter, Stravinskij, Mondadori, Milano, 1983.