VISIONI / HUGO CABRET
di Martin Scorsese / Paramount Pictures, 2012
La persistenza dell'immaginario
di Lorenzo Fattori
A prima vista, sarebbe scontato definire Hugo Cabret, l’ultima opera di Martin Scorsese, come una favola moderna. Anzi, sarebbe fin troppo facile, tanto da essere imperdonabilmente riduttivo; potrebbe essere molto più opportuno, invece, parlare di Modernità sotto forma di favola, perché proprio del racconto della Modernità si tratta. Una breve sintesi della trama permetterà di riconoscere gli elementi più significativi presenti in questo film.
Hugo Cabret è un ragazzino che all’inizio degli anni Trenta, da quando è rimasto orfano, vive nei cunicoli sotto le volte della Gare Montparnasse (una delle principali stazioni ferroviarie di Parigi) come Quasimodo viveva fra le guglie della Notre Dame de Paris di Victor Hugo (2002), e si occupa del funzionamento degli enormi orologi dell’edificio; il suo più grande sogno, però, è quello di riuscire a riparare un automa rimastogli come ultimo ricordo del padre, sperando che esso conservi un messaggio di quest’ultimo. Una volta riparato, però, l’automa svelerà un imprevedibile legame con l’anziano proprietario del chiosco di giocattoli presente nella stazione; questi si rivelerà essere George Méliès, il primo dei padri fondatori del cinema di finzione, che si era nascosto nell’anonimato, lasciando che tutti credessero fosse morto durante la I guerra mondiale.
Méliès è un personaggio realmente esistito: nato nel 1861, iniziò la sua carriera come illusionista, salvo poi restare folgorato dall’invenzione dei fratelli Lumière, alla quale troverà modo di applicare la sua esperienza di uomo di spettacolo. Georges Méliès, considerato il padre degli “effetti speciali”, fu il primo ad utilizzare il colore, dipingendo a mano direttamente sulla pellicola, e, soprattutto, inventò il montaggio, che resta a tutt’oggi il vero e proprio fulcro generatore del linguaggio cinematografico.
Con le opere di Méliès, per la prima volta il cinema diventa immaginazione: a differenza di quanto veniva proiettato dai fratelli Lumière, ovvero riprese di scene di vita comune, i film del cineasta francese erano veri e propri racconti, che pescavano in tutto l’immaginario narrativo europeo di quegli anni, a partire ovviamente dalle opere di Jules Verne, come è evidente in Le voyage dans la Lune (2009), il suo film più celebre.
Il regista produsse e diresse oltre 1.500 film (di cui ne sono sopravvissuti circa cinquecento, la maggior parte dei quali sotto forma di frammenti e spezzoni) fino al 1914 quando, a causa della guerra e della bancarotta della sua casa di produzione, si ritirò dalla produzione cinematografica.
Durante gli anni Venti si occupò davvero di un chiosco all’interno della Gare Montparnasse, mentre, all’inizio degli anni Trenta la sua opera fu riscoperta, soprattutto per merito dei surrealisti, e gli fu consegnata la Legion d’Onore da Louis Lumière in persona. Morì nel 1938.
In Hugo Cabret, l’incontro tra il protagonista e il grande autore avviene proprio davanti al chiosco dei giocattoli a molla, che attraggono magneticamente l’attenzione del ragazzino figlio di un orologiaio, nella grande stazione parigina.
Se da un lato il film è davvero una grande favola, con tanto di agnizione finale, dall’altro la vera protagonista, recondita, dell’opera è la Modernità: che, così come noi la identifichiamo in termini di contesti spazio/temporali e culturali, è insieme l’ambientazione, il palcoscenico ed il motore di Hugo Cabret.
Il centro di gravità di tutta l’opera è sicuramente la stazione, inscindibilmente connessa al concetto di metropoli, vero e proprio habitat della modernità; Wolfgang Schivelbusch, in Storia dei viaggi in ferrovia (1988), scrive che “la trasformazione della città europea […] è il risultato della rivoluzione industriale in generale, e di quella dei trasporti operata dalla ferrovia in particolare”. La stazione ferroviaria è il punto di passaggio tra il dentro ed il fuori, e soprattutto è il luogo d’ingresso di tutto ciò che è necessario al sostentamento della metropoli: cibo, beni, materie prime e, inevitabilmente, persone. “Da un lato, nel suo classicheggiante atrio in muratura, è parte della città, dall’altro, nella costruzione in ferro della tettoia, è in tutto e per tutto funzione dell’ambito «industriale» della ferrovia” (ibidem). Ed è in questa doppia natura della stazione che comprendiamo la significatività di uno degli oggetti più in vista dell’opera di Scorsese: l’orologio. Simbolo dell’“«essere in orario» dell’attività industriale” (Bifulco, 2007), l’orologio domina la fabbrica, “luogo archetipico della modernità” (ibidem), così come la stazione. Sin dalle prime scene di Hugo Cabret appaiono orologio, stazione e metropoli: tre elementi collegati, impensabili l’uno senza gli altri, che formano l’intelaiatura di ciò che noi, a tutt’oggi, definiamo Modernità.
Viene spontaneo dunque pensare alle modalità con cui percepiamo il tempo e al suo rapporto con lo sviluppo della ferrovia, perché è quest’ultima a determinare la moderna percezione dello spazio.
Questo tema fu affrontato già nel 1924 da Thomas Mann ne La montagna magica (2010): tutta l’opera è un interrogarsi sul senso del tempo, ma in particolare un lungo dialogo tra il protagonista (Hans Castorp, in visita al cugino Joachim in una casa di cura sulle Alpi svizzere) ed il cugino affronta direttamente il tema della nostra percezione del tempo. Quando Joachim, infatti, ad una domanda di Hans, risponde dicendo che “un minuto dura tanto quanto impiega la lancetta dei secondi a compiere il suo giro”, Hans ribatte che “Noi misuriamo dunque il tempo con lo spazio. Ma è come se volessimo misurare lo spazio con il tempo […]. Da Amburgo a Davos ci vogliono venti ore … già, con la ferrovia. Ma a piedi quanto ci vuole? E col pensiero? Nemmeno un secondo!” (ibidem).
La montagna magica, ambientata subito prima della Grande Guerra, ribalta, probabilmente in modo intenzionale, la concezione del tempo dominante proprio nel momento in cui si scatenò quella barbarie: anche lo storico della cultura Stephen Kern ne Il tempo e lo spazio sottolinea come le differenti scelte strategiche dei governi europei, nel luglio 1914, significavano tempi di mobilitazione diversi per gli eserciti, e che a sua volta questo implicava un diverso numero di chilometri di territorio nazionale e di vite umane persi. Dunque, “nel luglio 1914, il tempo era identificato con la vita e con lo spazio” (Kern, 1988).
La percezione del tempo, dunque, si incrocia con la percezione dello spazio, e ciò è dovuto in maniera sostanziale allo sviluppo del trasporto ferroviario; come osserva Schivelbusch, infatti, “la ferrovia non conosce che un punto di partenza e uno di arrivo” (1988). Dunque, coloro che intraprendono un viaggio “non sono più viaggiatori, ma […] pacchi umani che si spediscono da sé per ferrovia ai rispettivi luoghi di destinazione, dove arrivano così come avevano lasciato Parigi, non toccati dallo spazio percorso” (ibidem).
L’implicazione e la conseguenza necessarie di queste riflessioni conducono a ipotizzare una correlazione forte tra ferrovia e cinema, anche se a livello puramente analogico, a partire dal linguaggio tipico della cinematografia: potremmo infatti osservare che l’esperienza sensibile del viaggio in ferrovia è molto simile all’esperienza dello spettatore a cinema: l’effetto del montaggio.
Non è in questo caso il montaggio di immagini che corrono sullo schermo, ma è un montaggio tra luoghi senza contiguità fisica che vengono, nell’esperienza sensibile del viaggiatore, bruscamente avvicinati tra di loro.
La validità di questa correlazione è evidente in Hugo Cabret, dove il cinema ha un peso preponderante; ed è opportuno che sia così perché, come ogni civiltà, anche la moderna società occidentale racconta se stessa, e lo fa con due strumenti diversi, uno dei quali è il cinema, e l’altro è la sociologia, alla cui base c’è fra l’altro lo studio dell’individuo nel suo collocarsi all’interno di un continuum spazio-temporale specifico.
La nascita del cinema è legata in modo talmente stretto con la ferrovia e con Parigi che una loro assenza dall’opera di Scorsese ne avrebbe certamente ridotto la portata: come spiega Sergio Brancato, infatti, “le riprese originarie dei Lumière, realizzate per le strade di Lione e di Parigi, tra fabbriche e stazioni ferroviarie, i luoghi più tipici della modernità industriale, registrano sul flessibile supporto della pellicola le immagini della vita quotidiana alla fine del secolo XIX, ampliando l’attrezzatura sensibile del corpo umano” (Brancato, 2010).
E, pensando al corpo umano, non si può non notare la presenza fondamentale, in Hugo Cabret, dell’automa, chiave di volta di tutta la trama. Vera e propria macchina con sembianze umanoidi, rimanda a uno dei temi fondamentali della narrativa moderna e post-moderna: la creatura creata dall’uomo, presenza costante nella nostra cultura, dal Golem al robot passando, tra i tanti, per la creatura del Dottor Frankenstein (Shelley, 2002) ed i replicanti di Blade Runner (Scott, 2007), le due icone che marcano l’apertura e la chiusura della Modernità industriale (Moretti, 1978; Brancato, 2010). Forte è anche l’analogia con i robot di Isaac Asimov (che, a partire da Io, robot del 1950, saranno presenti in tutte le maggiori opere dell’autore russo/americano), macchine create per aiutare l’uomo, una delle quali, nel corso del Ciclo delle fondazioni (2003b), si rivelerà una vera e propria guida per l’umanità.
Tornando al film, la grande abilità e l’esperienza di Scorsese gli permettono di far percepire la correlazione tra ferrovia, orologio e cinema, senza però mai essere didascalico; infatti, noi abbiamo evidenziato e descritto le relazioni tra questi tre elementi, ma in Hugo Cabret questi rapporti sono puramente accennati, eppure emergono con grandissima forza evocativa ad ogni visione del film.
È proprio questa forza evocativa a caratterizzare quest’opera, che va considerata uno straordinario tributo ad un’epoca oramai passata, ma della quale noi siamo ancora debitori e che ha ancora moltissimo da rivelarci.
LETTURE
— Asimov Isaac, Io, robot, Mondadori, Milano, 2003a.
— Asimov Isaac, Il ciclo delle fondazioni, Mondadori, Milano, 2003b.
— Bifulco Luca, I tempi della modernità, Ipermedium, Napoli, 2007.
— Brancato Sergio, La forma fluida del mondo, Ipermedium, Napoli, 2010.
— Hugo Victor, Notre Dame de Paris, Feltrinelli, Milano, 2002.
— Kern Stephen, Il tempo e lo spazio, Il Mulino, Bologna, 1988.
— Mann Thomas, La montagna magica, Mondadori, Milano, 2010.
— Moretti Franco, Dialettica della paura, in “Calibano” n. 2, Il nuovo e il sempre uguale. Sulle forme letterarie di massa, Savelli, Roma, 1978.
— Schivelbusch Wolfgang, Storia dei viaggi in ferrovia, Einaudi, Milano, 1988.
— Wollstonecraft Shelley Mary, Frankenstein, Mondadori, Milano, 2002.
VISIONI
— Méliès Georges, Le voyage dans la Lune, in L’illusionista - Le origini del cinema (1896-1903), Medusa Home Video, 2009.
— Scott Ridley, Blade Runner, Warner Bros, 2007.