VISIONI / THE OTOLITH GROUP. LA FORMA DEL PENSIERO


di The Otolith Group, a cura di Chus Martinez e Monia Trombetta /

Fondazione MaXXI, Roma, 7 ottobre 2011 - 5 febbraio 2012


Memorie del futuro

di Beatrice Ferrara

 


“The mindlessness of power sometimes creates
a memory from what was meant to be amnesia”

Chris Marker


 

“Datemi una piccola pietra e vi disorienterò il mondo”. Così, forse – con un po’ di leggerezza – si potrebbe provare a sintetizzare lo spirito che attraversa il lavoro di The Otolith Group, “creatura” nata a Londra nel 2002 dall’incontro di Kodwo Eshun (teorico e saggista) e Anjalika Sagar (antropologa). The Otolith Group è un duo di artisti, registi, curatori e teorici la cui intera attività si nutre di collaborazioni trasversali e del rimando, la ripresa e la riattivazione degli archivi mediatici del XX e XXI secolo.

Otolith, pur essendo formalmente un duo, ama definirsi “collettivo” – termine tradizionalmente impiegato per gruppi dalle tre unità in su. Anche questo è un rimando ad un archivio mediatico del recente passato: quello dei collettivi artistici sperimentali del Regno Unito degli anni Ottanta, come il Black Audio Film Collective ed il Sankofa Collective, e alla loro ricerca di nuove espressioni e linguaggi per costruire una nuova cultura cinematografica che desse forma al divenire delle soggettività queer, caraibico-britanniche, indiane-britanniche, africane-britanniche. L’impronta di quella pratica artistica “integrata” (“integrated practice”: Mercer, 1994) – fatta di regia e scrittura, ma anche di attività formative, di esperimenti seminariali, di tavole rotonde, di tentativi di costruzione di un nuovo pubblico e nuovi circuiti di distribuzione – è infatti forte nel lavoro di The Otolith Group.

Che questo duo sia ben più della somma delle sue parti lo racconta però meglio il nome del collettivo stesso di qualunque tentativo di ricostruzione biografica. L’oscuro rimando agli “otoliti” – le piccole pietre (o, per la precisione, le minuscole concrezioni di carbonato di calcio) contenute nell’orecchio interno il cui spostamento è responsabile della trasmissione delle sensazioni di staticità ed equilibrio – toglie infatti terreno ad ogni tentativo totalizzante di biografia. Come Eshun stesso afferma nel breve video realizzato nel 2010 dal Tate Channel dell’omonima galleria d’arte londinese in occasione della nomina del gruppo al premio d’arte britannico Turner Prize, questo strano nome è garanzia di una certa facelessness – una “mancanza di un viso riconoscibile” e quindi di una chiara identificazione. Passato infatti in secondo piano l’interesse per chi o cosa sia The Otolith Group, prioritario diventa in effetti provare a scoprire in che senso il collettivo artistico scelga di descriversi attraverso la così singolare figurazione di una “piccola pietra”. Primo passo verso quello che il gruppo, recuperando e piegando un concetto utilizzato da Marshall McLuhan, descrive come un tentativo di induzione ad un effetto di participation mystique (ovvero caduta della separazione fra soggetto ed oggetto, accompagnata da un carattere affettivo simile a quello di una iniziazione mistica), l’uso della non immediata figurazione dell’otolite come cifra per il lavoro del collettivo artistico è infatti un modo per catturare chi si trovi a gravitare nella sfera di attrazione del duo britannico all’interno dello strano universo di cui essi si fanno emissari. L’otolite è cioè una sorta di “biglietto da visita”, che fornisce già un indizio sul nucleo concettuale dei progetti del duo: un lavoro sull’equilibrio, e più ancora il disequilibrio; sull’orientamento, e ancor più la perdita di esso (The Otolith Group, 2011).

Foto di famiglia che ritraggono una delegazione di donne della National Federation of Indian Women in visita in Cina durante gli anni dell’amicizia socialista (Communists Like Us); immagini di un recente passato in cui un’architettura intrisa di utopia immaginava di dare una possibile forma al futuro dei centri urbani (Otolith II); le opere cinematografiche emerse nell’alveo dei movimenti di resistenza negli anni della decolonizzazione in Africa (The Militant Image); le culture artistiche dell’Inghilterra negli anni Ottanta, tra cinema e televisione (The Ghosts of Songs e Inner Time of Television); la fantascienza nera degli anni Novanta (Hydra Decapita); la sceneggiatura di un film mai realizzato, intitolato The Alien e progettato dal regista bengalese Satyajit Ray nel 1967 (Otolith III); i piani di lavoro del 1968 di Pierpaolo Pasolini per il mai realizzato Appunti per un film sull’India (nel lavoro in preparazione The Corvus Dialogues); l’ormai introvabile serie televisiva in tredici episodi L’Héritage de la chouette, realizzata nel 1991 dal regista francese Chris Marker per i canali ARTE e Channel 4. Questi sono solo alcuni dei materiali di lavoro di The Otolith Group; ed è dalla prospettiva di questi frammenti di memoria mediatica del passato che il presente viene posto in disequilibrio, dislocato e reso irriconoscibile.

Nell’allestimento della prima personale italiana di The Otolith Group, ospitata presso la fondazione MaXXI di Roma tra novembre del 2011 e marzo del 2012 (Italiano, 2011), le immagini esposte lungo le pareti della sala si ritrovano, in un diverso concatenamento, nei film proiettati nelle salette interne. Le salette sono a loro volta ricavate nel cavo di un parallelepipedo centrale alla sala dell’esposizione, lungo le cui pareti corre una scritta (Timeline): una linea temporale riporta una serie di eventi internazionali che partono dagli anni della Guerra Fredda e si spingono molto oltre il nostro presente, fra cui sono indicati, confusi tra gli eventi “veri”, eventi che i lavori del gruppo raccontano o creano attraverso il dialogo interno fra i materiali d’archivio e le immagini e i disegni realizzati per i film. Lungo il perimetro esterno del parallelepipedo centrale, tredici schermi trasmettono ciascuno, in simultanea, un differente episodio della serie di Marker.

Fortemente “inattuali” – nel senso in cui questo si può dire degli archivi dalla lezione di Michel Foucault sull’archivio come ciò che guarda al passato per operare nel presente (Foucault, 2006) – gli archivi mediatici di The Otolith Group mettono in gioco un continuo distanziamento dalla, e spiazzamento della, contemporaneità. Comune a tutti i materiali così eterogenei su cui The Otolith Group lavora è infatti la loro tensione verso il futuro. Ciascuno di essi racconta di un atto – estetico, politico, etico – di immaginazione e pratica del futuro (cioè del presente contemporaneo): dall’amicizia socialista al femminismo tricontinentale; dai progetti architettonici per Chandighar di Le Corbusier in India al cinema delle “nuove etnicità” (Hall, 2006), dalla fantascienza afrofuturista alla militanza di resistenza per la liberazione da ogni forma di giogo coloniale, al progetto di una televisione pubblica resistente, alternativa e di alta qualità prima del narrowcasting, e così via.

Di ciascuno di questi potenziali futuri ormai passati, il nostro presente non ha conservato traccia. Tutt’al più, in alcuni casi, ne presenta il sinistro riflesso capovolto e distorto, in cui l’utopia del futuro si confonde con la distopia del presente (o viceversa?). Nella distanza che separa il presente da queste aspirazioni e questi investimenti di desiderio per il futuro che appartengono al passato, le certezze su cui il presente stesso fonda la propria riconoscibilità sono minate. Il tentativo è che, nelle fratture di questa distanza e nell’intervallo di questo smarcamento dal contemporaneo, si produca la possibilità di pensare di nuovo (o di pensare del nuovo) attraverso questi sogni di futuro mai realizzatisi, ma la forza delle cui aspirazioni più istillare nuova linfa in un presente bloccato. Quali nuove relazioni fra storia e attualità venivano enunciate e rese visibili in quei lavori? E quali prossimità di campi problematici hanno viaggiato da un momento nel tempo all’altro? Quanto queste memorie del futuro ci distanziano dal presente, invitandoci a chiederci cosa ne è stato di quei futuri potenziali?

Una così grande attenzione per il futuro, nel lavoro di The Otolith Group, va esplorata più nel dettaglio. Come ricordava Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia (2006), se la questione della storia è fondamentale nel pensiero critico, questo è perché la storia è sempre attraversata da linee di potere. La domanda che anima il lavoro di The Otolith Group – ovvero “Cosa accade se un’immagine del passato giunge dal futuro a destabilizzare il presente?” – è quindi una domanda politica, poiché essa riguarda il tentativo di intervenire in una cronologia. Ancor più, essa riguarda un preciso diagramma di potere in corso, orientato non tanto e non soltanto alla dissimulazione dell’archivio del passato, quanto alla modulazione del futuro. The Otolith Group dimostra infatti grande attenzione per gli studi critici su quello che, da più parti, si definisce ormai “potere preventivo” (Massumi, 2010), a sottolineare la necessità di includere la forza del tempo – e dimensioni ad esso collegate della memoria e del futuro – tra i dispositivi di potere nel neoliberalismo contemporaneo. Qui il futuro – meglio definito come futurity – indica la capacità della dimensione del virtuale, del potenziale, del non ancora vissuto, dello speculativo di materializzarsi e agire nel presente come una sorta di “memoria del futuro”.

Le memorie del futuro non riguardano una concezione lineare e cronologica del tempo, ma una serie di processi per cui il futuro erode dall’interno il presente – come quando un evento critico futuro non è semplicemente previsto o predetto, ma piuttosto anticipato e precipitato nel presente per mezzo di una serie di sensazioni di anticipazione, o presentimenti. Ciò che distingue questo nuovo diagramma di potere è infatti essenzialmente il suo carattere affettivo (Massumi, 2002; Clough, 2007).

Nella prospettiva di The Otolith Group – suggestivamente messa in immagini nel film-saggio Otolith I, realizzato dal collettivo britannico nel 2003 (e parte di una trilogia che comprende anche un Otolith II e un III) – il presente sarebbe occupato da memorie del futuro negative e depotenzianti, da affetti tristi di impasse, impotenza, depressione ed ineluttabilità – generate e circolate anche all’interno degli archivi mediatici. In particolare, in Otolith I il riferimento è al 2003, e al senso di impotenza seguito alle marce internazionali per la pace che precedettero l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti senza riuscire ad impedire che l’attacco avvenisse. In questo senso, Otolith I rappresenta una sorta di “esorcismo” a mezzo di immagini di quel momento di depressione ed impotenza – un esorcismo ottenuto intervenendo sulla cronologia e “esiliando” il 2003 nel futuro. Il film, infatti, guarda al 2003 come ad una collezione di immagini audio-visive che vengono esplorate da un ricercatore nel 2013, e dunque riviste da una potenziale prospettiva futura. Da questa prospettiva vengono esplorate le tracce – immagini, suoni, diari, riviste – di quella mobilitazione internazionale durante la quale affetti di “un altro mondo possibile” si erano fatti sentire, prima di essere assorbiti dalla violenza della storia ufficiale. Qui, utilizzando il genere della fantascienza in una chiave molto vicina alla malinconica fantascienza politica del Chris Marker di La jetée (1962), le immagini delle marce del 2003 sono “rivissute”, e in fondo “riattualizzate” dal narratore del film, che da 2013 (ri)vive quei momenti attraverso i ricordi del memoir della sua ava (una nostra contemporanea).

Questo percorso di dislocazione prosegue in Otolith II, che nell’intreccio delle voci del narratore-ricercatore del futuro e della sua ava nostra contemporanea, ripercorre la storia delle speculazioni sull’edilizia popolare in India e l’esplosione del pianeta degli slum: indagando quella particolare memoria del futuro che è appunto la speculazione edilizia, con la sua fame di “convertire le case in mercato immobiliare” e “trasformare le vite in moneta, una moneta da poter esser essere scambiata sul mercato per ottenere spazio edificato”, il film-saggio ripercorre la repressione dello sciopero degli operai tessili in India negli anni Ottanta, l’abbandono delle fabbriche riconvertite in centri commerciali e set per l’industria cinematografica, il trasformarsi della “fabbrica” che si traveste in altro solo per sopravvivere alla sua rovina e il triste gioco di dadi degli speculatori fatto sulle speranze – e quindi sul futuro – dei poveri. Qui emerge con forza il presente globale – dislocato, in bilico – mentre le immagini e suoni costruiscono, dal “futuro”, una mappa che attraversa il tempo e lo spazio e che disegna il contorno di quest’epoca presente…

 

È l’era del capitale umano, un’era di sacrificio.

Trecento anni fa, un Terraneo sedeva a questa scrivania e scrisse: Il tempo è tutto, l’uomo è niente: egli è, al massimo, la carcassa del tempo. […]

Toccato dalla vecchia luce del sole di un’altra epoca, cerco i punti critici che annunciano ciò che eravamo e ciò che siamo. Regolo il telaio del micrografo e fluttuo su verso il visore.

Rimetto a fuoco i punti di riferimento. […]

Scorro le coordinate finché i contorni di Capitale cominciano ad emergere.

Capitale, per quello che ne sappiamo, non è mai stato vivo.

Come si è riprodotto?

Come si è replicato?

Ha usato pelle umana?

Controllava i loro occhi?

E, anche adesso, dopo tutto questo tempo, muove le mie dita?

Parla attraverso questa povera bocca?

Utilizza la mia ricerca come fosse un ponte fra il suo mondo antico e il mio?

Se voglio imparare i suoi metodi, devo diventare il suo paziente o il suo discepolo?

Posso ricostruire le crudeltà del divenire mettendo insieme frammenti del suo progetto?

(Otolith II)

 

Ancora, in una delle più recenti opere del collettivo, Hydra Decapita (2011), al cuore dell’esposizione romana, ad essere indagata è una memoria del futuro drammaticamente attuale: quella legata al peso biopolitico del credo della “necessità economica” in gioco nella crisi globale del debito, con il suo “diritto di prelazione […] sul futuro di ognuno e sull’avvenire della società nel suo complesso. La strana sensazione di vivere in una società senza tempo, senza possibilità, senza una rottura immaginabile” (Lazzarato, 2012).

Nella trilogia Otolith, così come in molti degli altri lavori del collettivo, il ricorso alla fantascienza è dunque più che l’esplorazione di un registro stilistico. Si tratta, infatti – nella tradizione del movimento dell’Afrofuturismo di cui Kodwo Eshun è stato, nel Regno Unito, il teorico di punta – di un vero e proprio metodo, poiché essa non predice il futuro, ma piuttosto agisce intempestivamente sul presente e su come esso viene percepito. Di fronte ad un potere che si è fatto esso stesso “fantascientifico” (Fisher, 2001) – laddove appunto il termine sta ad indicare una non-linearità fra passato presente e futuro come quella in gioco nel concetto di “memoria del futuro” – la fantascienza artistica di The Otolith Group prova a rispondere mettendo in circolazione altre memorie del futuro, sotto forma di immagine – in un lavoro che è sempre, insieme, documento e fiction – affinché operino contro il senso di soffocamento ed ineluttabilità generato da un presente troppo somigliante ad una impasse. In questo senso, il materiale artistico di The Otolith Group si inserisce nell’alveo di quelle ricerche artistiche che cercano di indagare e scardinare la relazione fra immagini e potere preventivo in gioco nella modulazione affettiva di quello che molti autori, come Mark Fisher (2007) e Franco Berardi (aka Bifo, 2010) hanno descritto come il tempo del no future: lo stato affettivo di incertezza che accompagna la nostra percezione del momento presente. Indagando come le immagini operino all’interno dei processi per cui un simile stato affettivo viene convertito in un senso di ineluttabile impotenza che finisce spesso per prevenire la possibilità di intervento attivo, pre-assorbendola in una condivisa credenza nella “inevitabilità storica” del presente critico contemporaneo, The Otolith Group non abbandona la presa sull’immagine. Piuttosto, il tentativo è quello di rivoltare il potere di soggezione dell’immagine contro l’immagine stessa, per aumentare la consapevolezza di come la soggettivazione stessa operi anche tramite gli affetti.

Si potrebbe infatti estendere al lavoro di The Otolith Group, una definizione dell’immagine usata, pur se in altro contesto, dal filosofo e sociologo Maurizio Lazzarato (2004), secondo cui i segni hanno una vita futura, sono “mondi possibili”. Nell’epoca della dominante affettiva è infatti impossibile ridurre le immagini (ed ogni altro evento semiotico) ad un mero simulacro, come vorrebbe invece una lettura riduttiva ed eccessivamente semplificata del postmoderno. Piuttosto, la dominante affettiva pone l’accento sulla necessità di riaffermare la forza produttiva delle immagini e delle pratiche culturali, e la loro potenzialità di diventare parte attiva nell’articolazione di un concatenamento collettivo di enunciazione. Il duo britannico prova infatti a rendere percettibile, attraverso l’arte, una condizione che non è principalmente artistica, ovvero a far vedere qualcosa che non è immediatamente visibile. Non semplicemente alla fantascienza classica ed ai suoi temi e motivi si rifanno Eshun e Sagar, ma piuttosto ad un cinema e ad un’arte estremamente concettuali, alieni in quanto fortemente astratti e, ancora una volta, “spiazzanti”, come in La Région Centrale di Michael Snow (1971).

Il riferimento a precedenti come Snow, John Akomfrah (Black Audio Film Collective), Marker e Jean-Luc Godard (esplicitato anche nell’uso del genere del “film-saggio”) suggerisce anche una ulteriore riflessione sulla cronologia; riflessione che questo articolo avanza qui, nelle conclusioni, in forma di domanda, come ipotesi di ricerca e di lavoro futuri su un progetto artistico – quello di The Otolith Group appunto – che promette di dare ancora tanto da scrivere e discutere. Se il rimando a queste tradizioni cinematografiche dalla forte vocazione “pedagogica” – nel senso militante che questo termine assumeva all’interno dei percorsi di “pratica integrata” – non è mero sfoggio di erudizione, bensì, come è certo, un omaggio al passato in direzione del futuro, verso quale futuro guarda il film-saggio di The Otolith Group? Ritrovare il film-saggio e la sua pedagogia militante all’interno di una galleria d’arte e di un museo stabilisce infatti un dialogo fatto di continuità e discontinuità con altri luoghi (canali della produzione e distribuzione) della cultura: la televisione, il cinema, … C’è, forse, in The Otolith Group, il tentativo di credere che la galleria e il museo possano essere luoghi in cui ricreare le condizioni di una attenzione attiva e di una pratica condivisa – non rapida e distratta, discontinua e fugace – in cui rivivano, operando contro le passioni tristi del presente, le aspirazioni di quelle culture militanti cinematografiche e televisive pubbliche, comuni e condivise e le loro memorie del futuro?

 


 

LETTURE

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VISIONI

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