di Adolfo Fattori
La narrativa di spionaggio conserva il suo appeal, anzi forse
ne guadagna, vista l’uscita recente nelle sale
cinematografiche della riduzione per il grande schermo, dopo la
versione per la Tv del 1979 con Alec Guinness, de La talpa il
romanzo di John Le Carré (2001) pubblicato nel 1974, con la
regia di Tomas Alfredson (2011), e le nuove serie
televisive Pan Am (2012) e Homeland (2012).
Intanto, diretto da Sam Mendes, è atteso per ottobre un
nuovo film con James Bond, l’agente 007 al servizio di Sua
Maestà Britannica: Skyfall.
I
generi narrativi – specie da quando esistono le Tv series,
che puntuali e quotidiane fanno da spia e traino alle strategie del
mercato dell’immaginazione – hanno i loro cicli
circadiani, sono interpretazioni delle correnti profonde del mutamento
sociale che si inseriscono sulle tendenze dell’immaginario e
si intrecciano con le istanze del gusto. Così, se da Sex
and the City della Hbo in poi la
narrativa Tv ha ripreso e scandito gli anni della liberazione del sesso
e del linguaggio – e dell’emersione o riemersione
dei temi dell’interiorità e del sentimento
– declinati oltre che con la commedia anche attraverso il
poliziesco, il fantascientifico, il sentimentale, sembra che la
contingenza attuale “riscopra” la spy-story, forse
come modo per performare il bisogno di cominciare a elaborare il trauma
dell’11 settembre 2001, a lungo appartenuto al rimosso
dell’immaginario e alle censure dei produttori e dei
broadcaster. Solo David Foster Wallace (2006), infatti, e Stephen King
(2008) vi si erano dedicati con un racconto ciascuno, ben mimetizzati
dentro proprie antologie. Ma si sa, si tratta si voci eccentriche nel
panorama della letteratura.
Si è dovuto
aspettare FlashForward della Fox (2010)
perché la diabolica icona dell’11 settembre, gli
aerei che impattano contro le Twin Towers, venisse replicata in Tv,
evocata da un elicottero che, fuori controllo, nelle apocalittiche
scene iniziali del serial, sbatte per poi esplodere contro un
grattacielo di Los Angeles.
Il focus profondo della spy
fiction, ancor più che del poliziesco, è nella
sfera dell’indefinito: un luogo dove niente è come
appare, tutto è doppio, bifronte, ambiguo, “The
Big Game”, “il grande gioco”, come
dicevano le spie di una volta, colorando di romanticismo il loro
lavoro, dove la violenza e l’omicidio spesso erano
chirurgici, silenti, praticati con sobrietà e misura, di
nascosto, senza che i media e l’opinione pubblica ne
venissero al corrente. Si preferiva il ricatto, il doppio gioco,
l’arruolamento forzato – così almeno
nella spy story classica, quella di Eric Ambler, Ian Fleming, Le
Carré, e nella realtà.
Questa
narrativa è cambiata: oggi c’è il
terrorismo. Che usa le stesse procedure, ma per scatenare esplosioni di
violenza catastrofiche – o almeno così ci si
aspetta. Come se, parafrasando un vecchio modo di dire, fosse
“la continuazione dello spionaggio con altri
mezzi”. Anche nella narrativa, qualsiasi medium la
ospiti.
Ma c’è un legame, fra
la vecchia storia di spie e la sua forma attuale: il ritorno al
passato. Nel caso della nuova, le Twin Towers su tutto, come sorgente e
memento; nel caso della classica, la guerra fredda, gli scambi di
agenti fattisi scoprire attraverso confini nel buio di notti gelide o
su ponti immersi nella nebbia; ma anche gli omicidi eccellenti che
ferirono gli Usa negli anni Sessanta: i fratelli Kennedy, Martin Luther
King, tanto che negli Stati Uniti cresce la riflessione estetica su
quegli anni – quelli che accompagnarono la disgraziata
avventura vietnamita.
E così uno scrittore schivo come Thomas Pynchon
scende in campo su quegli anni col noir Vizio di forma (2011),
un trip labirintico e lisergico ambientato nella California hippie dei
primi anni Settanta, King pubblica 22/11/’63 (2011;
cfr.
www.quadernidaltritempi numero36),
il massimo tentativo di esorcizzare la Dealey Plaza, e Pan Am
mescola il sex appeal delle hostess dell’aviazione
civile e il fascino dell’esotico con i traffici della CIA e
l’omicidio di John Kennedy. E così la nostalgia
per gli “anni d’oro” del secondo
dopoguerra, che rielabora anche la “guerra fredda”
e la paura della Bomba in termini avventurosi e romantici si presta a
fare da calco per le fiction come Homeland che ci
parlano del dopo 11 settembre. In questo gioco di sponda, tornano anche
lo George Smiley di Le Carré e il James Bond di Fleming. I
due alfieri dello spionaggio nella modernità. Loro vengono
prima della Conversazione di Francis Ford Coppola
del 1974 e dei Tre giorni del condor di Sidney
Pollack del 1975, li anticipano, per così dire, e ne
prefigurano le evoluzioni e le derive incernierate sull’uso
frenetico delle tecnologie elettroniche di controllo, voyerismo e
“analisi dei dati”. Ma lo Smiley della Talpa
e il Bond di Fleming, pur appartenendo alla stessa specie, non sono
uguali, anzi, sono agli antipodi. George Smiley sembra un piccolo
impiegato, un contabile di quel lavoro di decrittazione di
ciò che si svolge nell’ombra che fa la sostanza
dello spionaggio, un gregario del reclutamento e della conversione.
Sicuramente, molto più vicino ai veri agenti segreti di
quanto lo sia James Bond.
Pure, 007 dimostra una
longevità ed un fascino che Smiley non ha mai avuto. Solo
perché il personaggio di Le Carré – che
per molti di noi conserverà, grazie al suo immenso carisma,
il volto e i modi di Guinness – ha la natura
dell’impiegatuccio? Forse, ma non solo. La dimensione di Bond
come icona del secondo Novecento, insieme a Che Guevara, tanto per
dire, o a Marilyn Monroe, è nel suo sex appeal, certo,
specialmente fin quando è stato interpretato da Sean
Connery, ma anche all’universo in cui si muove. Che non
è quello delle cantine muffose, dei sottoscala umidi, dei
vicolacci fetidi – e delle scrivanie impolverate illuminate
da fioche lampadine – delle esecuzioni discrete, silenziose,
ma quello delle spiagge tropicali, dei circoli esclusivi, dei locali
alla moda, delle tecnologie futuristiche e iperboliche, e,
naturalmente, di bellissime donne. L’esotico, insomma,
dell’immaginario avventuroso nella rivisitazione novecentesca
del glamour e dell’immaginario sulle vacanze che stava per
esplodere. Un’altra delle facce del mito che si stava
sviluppando come “nostalgia del presente” (Jameson,
2007) attorno alla storia che si dipanava in quegli anni sotto gli
occhi degli occidentali. Sì, certo era in corso una guerra
non cruenta (almeno per gli abitanti delle metropoli del mondo, era una
cosa che riguardava solo le periferie…), che si consumava
appunto nei vicoli bui e sul filo del telefono; c’era il
rischio della catastrofe nucleare, i giovani cominciavano a sottrarsi
al dominio degli adulti – e rischiavano di farsi ammaliare
dal comunismo e dalle droghe – ma… ma era
possibile sognare: immense spiagge tropicali intatte ed esclusive,
cocktail esotici ed euforizzanti, decappottabili sportive, avventure
estemporanee, conquiste galanti. Il mondo era un contenitore di
promesse, per gli abitanti del mondo libero.
James Bond ne era uno degli araldi, molto più di
quanto potesse esserlo un George Smiley. Attorno all’agente
007 allora si aggruma l’immaginario della
modernità uscita dalle devastazioni della guerra, che
ricorda la guerra stessa, ma annuncia gli agi e le
opportunità del futuro che si prepara. E svolgendo un filo
che arriva fino ad oggi, diventa il riferimento profondo per una parte
della spy fiction attuale, che riflette e rifrange, ricombinandolo in
forme ibride, cross-seriali l’immaginario spionistico
dell’intero XX secolo attraverso remake e sequel, ma anche
prodotti originali. Che però non possono ignorarne la
tradizione. Una tradizione che diventa mito, nutrito dalla crescita di
Sean Connery, che da attore di secondo piano diventa un personaggio
carismatico, un “grande maestro”, come in L’ultimo
immortale di Russell Mulcahy del 1986 o in Indiana
Jones e l’ultima crociata, del 1989
di Steven Spielberg. Un destino, se si vuole, simile a quello di Clint
Eastwood, esploso con i film di Sergio Leone per diventare poi una
delle star di Hollywood e un regista di grande qualità
(Brancato, 2010). C’è un
meccanismo di fondo, che crediamo sia sempre in azione nel rapporto fra
spettatori e attori, nonostante l’era d’oro del
divismo hollywoodiano sia finita: gli attori rimangono connessi ai
personaggi che hanno “frequentato” di
più. Vale per la Tv, vale per il cinema. E vale a maggior
ragione per coloro che sono diventati icone della cultura di massa.
Così Connery sarà sempre legato a Bond, alla sua
natura. E quindi, il Ramirez che fa da maestro a Connor Mc Leod in Highlander
e il padre di Indiana Jones non possono non avere alle spalle
la storia dell’agente 007, un’esperienza della
guerra e del mondo arricchita dalla saggezza
del’età…
E
– obliquamente – ritroviamo l’atmosfera
vintage e seducente del Bond di Sean Connery più in Pan
Am, che per esempio nei film con James Craig, più
affini ai videogiochi che al cinema classico, mentre riconosciamo la
cifra paranoica e compulsiva degli “operatori”
free-lance della Conversazione, degli
“analisti” della Cia del Condor e
delle “talpe” di Le Carré in Homeland
– privata, però
dell’autoironia e dell’aplomb dello scrittore
inglese…
Ma la progenitura e il privilegio del Bond
classico, lo James Bond di Connery, rimangono intatti, intangibili, a
richiamare alla mente e alla memoria una sfera che mescola avventura
esotica, accenni di erotismo patinato, violenza mitigata dal fair play,
tecnologie avveniristiche che occhieggiano all’hardware della
science fiction, la nostalgia per un’epoca che si nutriva
ancora della speranza in un progresso che appariva inarrestabile,
l’orgoglio per un’illusoria libertà, lo
sguardo catturato dalle seduzioni di un loisir apparentemente a portata
di mano. Che prospererà nelle pubblicità dei
bagni schiuma con cavalcata sulla spiaggia (uno dei picchi
più vertiginosi dell’immaginario kitsch dei
piccolo-borghesi e dei parvenu New Age) e precipiterà nelle
pensioni “tutto-compreso” (anche di juke-box a
tutto volume in piena notte) delle vacanze di massa.
Dimenticando,
almeno per qualche settimana, l’incombere della possibile
terza catastrofe mondiale, quella definitiva, mentre
nell’ombra, in silenzio, nella routine delle stanze di
decrittazione e di intercettazione le “talpe”
dell’ordine mondiale lavoravano a contenere ma nello stesso
tempo conservare il conflitto, sempre sul filo del rasoio, come un
Tamagochi. Per non perdere il lavoro, e perché noi potessimo
goderci le avventure dell’agente 007 al servizio di Sua
Maestà Britannica e delle nostre fantasie.
LETTURE
— Brancato Sergio, La forma fluida del mondo, Ipermedium, S. Maria Capua Vetere, 2010.
— Foster Wallace David, La vista dalla casa della sig.ra Thompson, in Considera l’aragosta, Einaudi, Torino, 2006.
— Jameson Fredric, Postmodernismo La logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma, 2007.
— King Stephen, Pomeriggio del diploma, in Al crepuscolo, Sperling & Kupfer, Milano, 2008.
— King Stephen, 22/11/’63, Sperling & Kupfer, Milano, 2011.
— Le Carré John, La talpa, Mondadori, Milano, 2001.
— Pynchon Thomas, Vizio di forma, Einaudi, Torino, 2011.
VISIONI
— Alfredson Tomas, La talpa, Fr/ Uk, Indie Frame, 2011.
— Braga Brannon, Goyer David S., FlashForward, Usa, Buena Vista Home Entertainement, 2010.
— Coppola Francis Ford, La conversazione, Usa, Miramax, 2010.
— Irving John, La talpa, Uk, Bbc, 1979.
— Mendes Sam, Skyfall, Uk, MGM, Columbia, Sony Pictures, 2012.
— Mulcahy Russell, L’ultimo immortale, Usa, Universal Pictures, 2012.
— Orman Jack, Pan Am, Usa, Abc, 2012.
— Pollack Sidney, I tre giorni del condor, Usa, Stormovie, 2007.
— Raff Gideon, Homeland, Usa, Showtime, 2012.
— Spielberg Steven, Indiana Jones e l’ultima crociata, Usa, Universal Pictures, 2012.
— Star Darren, Sex and the City, Usa, Paramount, 2010.