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di Gennaro Fucile

 

Un ordine è un ordine e quello che Bond riceve dall’ammiraglio Miles Messervy, alias M, è di quelli che non si discutono: sostituire la Beretta calibro 6.35 con una Walther PPK calibro 7.65. Accade in Dr. No, nel romanzo e nel film. Se poi imporre una sostituzione del genere funziona bene anche per introdurre un personaggio/pilastro, un amico dal fare paterno e talvolta borbottante come il maggiore Boothroyd, Q d’ora in avanti, allora siamo di fronte a un ordine perfetto. In questo modo, infatti, sin dal suo esordio cinematografico, l’agente segreto 007 entrò in azione attrezzato come s’impone a un doppio zero, sigla che designa chi “ha licenza di uccidere, non di essere ucciso”. Q è un personaggio chiave del mondo Bond, alla pari del Martini e delle girls che l’agente segreto più famoso del mondo colleziona in giro per il mondo. 
Q esordì con il volto di Peter Burton in Dr. No, ma poi per ben diciassette episodi (da From Russia With Love del 1963 a The World Is Not Enough del 1999) assunse le sembianze di Desmond Llewelyn, che affiancò ben cinque agenti doppio zero prima del passaggio di consegne a John Cleese dei Monty Python. Anche Q ha una doppia identità, anzi multipla. In apparenza è l’uomo della sezione dedicata alla ricerca e sviluppo di armi/marchingegni per difendersi e offendere. Per smascherare Q, però, occorre recarsi in un punto immaginario dove si incrociano e si confondono la vera Ricerca e Sviluppo industriale – che da oltre mezzo secolo alimenta la civiltà dei consumi – e la narrativa d’anticipazione scientifica, meglio nota come fantascienza, che, a sua volta, da oltre un secolo ne immagina le meraviglie, oltre che alcuni devastanti effetti collaterali. Q, insomma, è un personaggio chiave perché rappresenta l’anello di congiunzione tra i folli inventori della prima fantascienza e la reale Ricerca & Sviluppo industriale. 
Qualsiasi sia la data di nascita della fantascienza, la sua origine si incarna in uno scienziato/inventore (spesso anche un po’ folle). Frankenstein o il Ralph di Hugo Gernsback, la sostanza di cui sono fatti i sogni della science fiction sono sempre segnati dal novum tecnologico. Non sono da meno gli altri grandi padri fondatori del genere: Jules Verne e Herbert G. Wells. Nemo, il dottor Moreau, il viaggiatore nel tempo (che inventa la macchina per spostarsi tra le ere), sono tutti in possesso della capacità d’inventare strumenti in grado di servire per avventure altrimenti destinate al fallimento, di macchine e oggetti al servizio di imprese eroiche o progetti malvagi, poco importa in questa sede. In questi armamentari è sempre incorporata una quota elevata del fattore effetto speciale, in grado di stupire, meravigliare e sedurre il lettore. Metà armi/metà gadget. Per circa un secolo non è cambiato granché, occhi sgranati, felicità, le metamorfosi letterarie di Thomas Alva Edison, le nuove fiabe per adolescenti e per adulti funzioneranno così per un centinaio d’anni, lasciando a bocca aperta. Le meraviglie del possibile si intitolava la storica antologia curata da Carlo Fruttero e Franco Lucentini per Einaudi che sdoganò dal ghetto della letteratura di classe inferiore la fantascienza in Italia. Sense of wonder lo avevano già battezzato gli anglosassoni. Sono oggetti mirabolanti, ad un certo punto senzienti, vagamente antropomorfi, sarà Karel Čapek ad abbozzarli, sono i robot (androidi da adulti), prima semplici lavoranti, ma poi nel 1956, sul pianeta Altair IV, una spedizione alla ricerca dell’astronave Bellerofonte si imbatte in un perfetto incrocio tra un’arma e un gadget. Il film è noto in Italia come Il pianeta proibito e l’ibrido si chiama Robby, un robot ancora goffo, certo, ma in grado di offendere e di produrre beni di consumo smodatamente. Infatti, su richiesta produrrà litri e litri di whisky, un ordine personalizzato, anni… luce prima che si iniziasse a parlare di marketing one-to-one, di prodotti taylor made, che il marketing desse un criterio alla produzione di masse di beni di ogni tipo, ipotizzando un’utopica soddisfazione dei bisogni su misura non solo per ciascun consumatore, ma per ogni particolare momento della sua giornata. Robby appare sugli schermi di tutto il mondo come un’anticipazione di Q, ne prefigura la sostanza.

 

03_capNon è tutto, quando Q entra in scena, prima sulla carta poi sul grande schermo, le cose cominciavano a non stare più come una volta nella letteratura di fantascienza; nel dopoguerra erano subentrati terrori reali all’ombra dei funghi atomici che per prova, ma non per finta, iniziavano a spuntare qua e là sul pianeta e contemporaneamente, passando la frontiera degli States, nugoli di gadget, di piccoli e grandi elettrodomestici, di televisori, di stereo, di prodotti alimentari industriali, confezionati, cominciavano a sfidare le leggi della stagionalità, piccoli grandi miracoli della tecnologia applicata alla vita quotidiana. La rigogliosa società dei consumi prese così il largo. Non tutto d’un botto, certo, ma sempre più a grandi falcate, accelerando come le automobili e le moto di cilindrata variabile che iniziarono a sfrecciare anche sulle autostrade europee. I Cinquanta e i Sessanta, saranno due decenni di sviluppo impetuoso. Negli appartamenti della gente comune, nei luoghi di lavoro, faranno il loro ingresso fotocopiatrici, rasoi elettrici senza fili, pentole con rivestimento antiaderente, impianti stereofonici; gli oggetti offrono non solo funzionalità un tempo impensabili, ma anche forme seducenti, ammiccanti, sinuose, un esercito di manufatti che danno il via alla conquista del mondo da parte del design. La modernità diventa adulta e il pubblico della fantascienza anche, arrivano gli schizo-universi paralleli di Philip K. Dick, le personalità paranoiche di James Ballard, le sperimentazioni linguistiche sulla falsariga delle avanguardie del Primo Novecento, un cimento che a turno impegna un po’ tutte le firme che contano e conteranno nel genere, da Michael Moorcock a Brian Aldiss, da Thomas Disch a Samuel Delany. Si chiamerà new wave per comodità, ma di ondate ce ne saranno diverse e le soluzioni adottate, gli stili presi a prestito, non si contano. Basti guardare dentro tre antologie curate da scrittori di sf allora emergenti: Visioni pericolose, curata da Harlan Ellison, Domani andrà meglio, compilata da Disch e Cristalli di futuro allestita da Norman Spinrad. Una sfolgorante carrellata di racconti scritti nel segno di Franz Kafka, di William Burroughs e via di questo passo. In tutto questo ribollire di esperimenti, di novità che inondano la vita di tutti i giorni e una fantascienza che al cinema è ben lontana dal separarsi da mostri extralarge, insetti modificati da radiazioni varie e scadenti riprese della Guerra dei mondi, nel secondo episodio, Dalla Russia con amore, Q espone i risultati di un’epoca: la fantascienza che bussa alla porta del quotidiano, l’ossequio alla tradizione (del genere sf) che nelle armi ha il suo fiore all’occhiello in materia d’invenzioni, la centralità del gadget e dell’effetto speciale che assurgono al ruolo di co-protagonisti e la domesticità della tecnologia che pervade gli oggetti del tempo libero e di quello della vita casalinga, della macchina fotografica per tutte le tasche e del surgelato per tutti i gusti.

 

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Il confine impalpabile tra la ricerca militare e le applicazioni successive in campo civile è riproposto quasi senza mediazioni negli attrezzi che Q mette a disposizione di Bond. Metà armi/metà gadget – meglio ripeterlo – specchio della conquista dello spazio e del presidio della Terra, sono oggetti inimmaginabili di cui solo la scienza e la tecnica possono consentire la produzione.
Per designare questa svolta storica gli basta un po’ di mercanzia di giornata che la ricerca e sviluppo da lui diretta ha appena messo a punto: una cinepresa Rolleiflex con dispositivo di registrazione, un identificatore di microfoni per intercettazioni ambientali, un cercapersone e un telefono a bordo della Bentley e la classica ventiquattrore farcita di ogni ben di dio. Q non spiega Bond, ma il substrato del suo successo di massa. Q eredita dai padri della fantascienza la propensione all’invenzione, a quella che stupisce, anche se sono pacchiane edisonate, offrendo per primo la visione di oggetti/macchine che trascendono se stesse, che fanno tendenzialmente tutto, non solo quello per cui sono pensati: la carta di credito apri-serrature, il portasigarette con decifratore di combinazioni, la macchina fotografica con contatore Geiger, oggetti multifunzione, o iperspecializzati ma montati su veicoli che risultano super accessoriati. Si parte senza esagerare con la Bentley Continental in From Russia With Love, poi in Goldfinger entra in scena la Aston Martin DB5. Tra le diavolerie che incorpora, memorabili sono almeno lo scomparto segreto per una Colt 45, il seggiolino del passeggero eiettabile, uno speciale scudo antiproiettile a protezione del lunotto posteriore, i paraurti corazzati, gli pneumatici rinforzati e anti-sdrucciolo, i mozzi delle ruote telescopici a rostro, le mitragliatrici nei fanalini di posizione anteriori, la tripla targa ruotante, i tubi posteriori lancia-olio, il dispositivo per cortina fumogena e il radar. Un’automobile, ma non solo, anche lo status symbol per lungo tempo inarrivabile. Decenni dopo avremo un telefono che non è solo un telefono, tecnologia altrettanto distintiva anche se in parte nel segno dell’understatement. Ecco, la DB5 è un mondo di app ante litteram ed è per questo che allora Q stupiva, sorprendeva tutti tranne il disincantato Bond, che non ha mai fatto una piega di fronte alle micidiali armi di difesa, di prevenzione e di attacco che Q gli propina, proprio come un moderno consumatore posto di fronte alle innumerevole varianti che le tecnologie smart gli propongono. Una coppia di precursori che il tempo ha però segnato. Molti, troppi, innumerevoli prodotti sono stati lanciati sul mercato da allora, decina di migliaia all’anno. Radicale è stato il taglio con il passato che il digitale ha imposto anche al cinema d’avventura, gli effetti speciali, i ritmi mozzafiato delle piccole narrazioni di massa, come ad esempio i clip musicali, i video virali, ecc. Irreversibile la violazione dello spazio, l’allunaggio, la fine dell’incanto e anche quello della sua incarnazione ultima nelle tecnologie e nelle fantasie scientifiche, il sense of wonder si è ritirato e un coltello con Gps come quello che Q affida a Bond in Die Another Day lascia indifferenti già nel 2002. 
Q segue le sorti del genere fantascientifico, non esiste più, quindi è ovunque. Non può neanche evitare di lasciarci indifferenti come spettatori, causa assuefazione alla novità, così come da consumatori non siamo più incantati dall’offerta dei mercati dei beni di massa, anch’essi incapaci di autentica innovazione tranne che per alcune memorabili eccezioni. Il sapere di Q (suo?, non sarà il general intellect di marxiana memoria?) la Ricerca e Sviluppo è infatti ovunque nelle ultime avventure di Bond, nelle riprese mirabolanti, nei montaggi sincopati fino allo spasimo, in ogni inquadratura che sfida l’umano vedere. Q resta al servizio di sua maestà lo spettatore, mentre il suo personaggio, quasi un alibi di realtà per dirla con Jean Baudrillard, vela il dietro le scene, quelle sì mai invecchiate, misteriose: i laboratori di cui si concede la parziale visione film dopo film. Da sempre ne intravvediamo giusto qualche angolo, per poi essere distratti da test, esperimenti perennemente in corso da quelle parti e che spesso registrano un comico fallimento. Nei locali della sezione Q siamo ancora dentro un antro che con pudore non si mostra del tutto, sfidando il moderno sentire, tutto teso alla pornografia generalizzata, alla coazione a vedere e a mostrare che impera nei domini dell’intrattenimento. È una fortuna che sia così, perché ci lascia immaginare qualche sorpresa ancora in serbo per noi che viviamo nell’epoca che si è chiamata delle passioni tristi. Chissà, magari davvero il domani non muore mai.

 


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