LETTURE / SCROFOLE E RE
di Ciro Tarantino / Rubettino, Soveria Mannelli, 2012 / pp. 202, € 15,00
Ubique scorie quotidiane
di Adolfo Fattori
“Un’economia della rovina, dove la scoria si dà come sua condizione d’esistenza elementare […] Napoli, l’economia della rovina esibita a pieno regime, per restare in Italia.” (Fattori, Fucile, 1988). Un po’ come le scrofole del titolo del libro del sociologo Ciro Tarantino, quelle che i re di Francia guarivano con l’imposizione delle mani, ma che pare nessun leader sia in grado di eliminare. Rifiuti irriducibili, resistenti ad ogni tentativo di riciclaggio.
Il lettore e l’autore del libro di cui scriviamo ci perdoneranno se qui sopra citiamo noi stessi, ma leggendo gli scritti di Tarantino raccolti in Scrofole e re sono apparsi come lampanti due elementi: la difficoltà di scrivere di Napoli – per coloro che la conoscono, la abitano, ne sono andati via, vi sono venuti in visita – evitando il rischio di farsi contagiare dall’immaginario fermentato negli ultimi secoli attorno alla città, e la riuscita – invece – dell’esperimento tentato dal ricercatore in questa direzione.
In effetti, il riferimento a quel testo di ormai più di venti anni fa per chi scrive è una conferma di questa difficoltà (poco più di un accenno a Napoli, nell’ambito di un altro discorso), ma del desiderio di provare comunque a scriverne – e di un'altra intenzione, cui lì si riusciva soltanto ad alludere: quella di trovare il modo di ragionare su Napoli come se fosse un qualsiasi altro luogo sul pianeta, un’altra delle tante città di cui sono metafore, iperboli, proiezioni le “città invisibili” di Italo Calvino (1972), consegna che invece Tarantino rispetta completamente.
Estrarre quindi Napoli da quell’immagine – in parte narrativa, in parte cronachistica, melodrammatica quanto nostalgica, dolciastra e repulsiva insieme, comunque compiaciuta – da cui è nascosta e con cui è confusa. Lo scrisse in altri termini, una ventina di anni fa Raffaele La Capria, criticando il vezzo di certi napoletani, una volta fuori città, di “fare i napoletani”, di comportarsi cioè come ci si immaginava che gli ospiti del momento si aspettassero che i napoletani si comportano, realizzando un circolo vizioso autoreferenziale e truistico.
Vizio, però, condiviso anche da comunicatori locali, fertili nutrici di una certa visione – falsa, ma coerente con le rappresentazioni all’esterno della città – che non esitano a scrivere sciocchezze perché plausibili, anzi “più vere del vero”, per non creare forse episodi di “dissonanza cognitiva” nei propri lettori.
Come quel giornalista (Picone, 2005) che, scrivendo del “Progetto Chance”, un esperimento di recupero dei ragazzini a rischio di dispersione scolastica, ne colloca una delle sedi a Scampia dove non è mai stato praticato: un progetto del genere non può mancare da Scampia, ipostasi del degrado, della violenza, del disordine sociale e umano, diamine! Tanto, quale lettore va poi a controllare? È il frutto di un’equazione plausibile, anzi, necessaria!
E così si alimenta il mito di un luogo speciale, di fatto fuori del tempo e dello spazio contemporanei, imparagonabile, incommensurabile con qualsiasi altro luogo: in sostanza, l’universo patafisico di soluzioni scontate perché immaginarie – quindi credibili, così da non smentire l’immagine di una fetta di quel “mondo-dato-per-garantito”, di cui scriveva Alfred Schütz a proposito della dimensione sociale della conoscenza – anche se in questo caso, le certezze su quel pezzo di mondo sociale che è la città partenopea sono il frutto dell’incrocio fra un sistema di stereotipi radicati da decenni incrociato con l’immagine che i media (tutti, anche i libri) trasmettono, tanto da contribuire a definire anche le percezioni degli osservatori diretti dei fenomeni. Ritradurla da “luogo dell’anima”, quindi della finzione affettiva e del luogo comune, a ambiente di corpi, di conflitti, di miserie ordinarie, come tutte le altre città della tarda modernità, forse laboratorio sperimentale del futuro che è già di tutte o attende tutte le metropoli del pianeta.
E Ciro Tarantino, prendendo ad esempio alcuni dei fenomeni o degli eventi che in questi ultimi anni hanno costituito il materiale grezzo dell’attenzione su Napoli, mette in evidenza le strategie con cui tragicità consuete di vario genere – come la morte per freddo di un neonato rom in uno dei “campi” in cui sono confinati i suoi familiari – diventi una delle innumerevoli, abituali manifestazioni dell’unicità della situazione napoletana, laddove in altri luoghi viene gestita appunto come un fatto straordinario, un’eventualità eccezionale.
O la lunghissima questione dello smaltimento dei rifiuti, delle discariche tossiche illegali, dei cumuli di spazzatura, il luogo elettivo, forse, in cui in questi anni si sono intrecciate politica, criminalità, economia, salute, che diventa un medium per comunicare altro ed esercitare le proprie istanze di potere, i diritti di prelazione sulle istituzioni, le opzioni sui futures elettorali, fino a chiedersi “Se l’emergenza del rifiuto fosse la prima esposizione universale della prossima modernità?”; un’emergenza, insomma, del futuro che attende tutti, non solo gli abitanti della Campania… La questione rifiuti diventa l’occasione per indagare le modalità di governo di “individui e spazi marginali (…) meccanismi diversi, dispersi e minuti che, lentamente, sembrano ricomporsi in una nuova tecnologia (…) Questi dispositivi hanno una linea di emergenza lungo la quale si disseminano segni del sistema della loro evidenza. È un’emergenza che si annuncia nei luoghi più diversi dell’interazione simbolica: nell’impensato di una parola, in un manifesto, in una certa organizzazione del discorso…”.
La centralità delle strategie di comunicazione, delle semantiche elaborate, i detti e i non detti costituiscono per il sociologo un’occasione privilegiata di osservazione di come si organizza il discorso del potere – forse, del potere nel futuro globalizzato che ci si prospetta.
Diventa esemplare l’analisi che Tarantino sviluppa su un fatto di cronaca che agitò le acque della quotidianità napoletana nell’ottobre del 2005, quando un “comitato” di “cittadini” del Vomero, uno dei quartieri “alti” – nel senso di collinari, ma anche in quello di prestigiosi – zona di shopping e di professionisti, di nuova borghesia di una volta e di classe media del boom – chiese la chiusura in certi orari e in certi giorni (il sabato e la domenica sera, in particolare) delle stazioni della metropolitana collinare, fiore all’occhiello degli anni del primo Bassolino e dei finanziamenti del Fondo Sociale Europeo, dal Vomero a Scampia, per evitare le scorribande degli adolescenti dei quartieri a nord della città che calavano in massa dalle loro periferie per molestare, rapinare, insultare i passanti.
Senza entrare nel merito dei torti e delle ragioni, Tarantino si concentra sui flussi comunicativi generati dal fenomeno, i manifesti attacchinati per le strade del quartiere, l’attenzione doverosa della stampa, gli interventi dei politici locali… e la sostanziale ambiguità, obliquità dei toni degli organizzatori della protesta, compromissori, morbidi, double face, buoni per ogni interpretazione ed ogni sviluppo successivo – e per ogni trasformismo.
E se è vero che – come nota il sociologo – le pratiche messe in opera hanno il profumo delle vecchie nottate in sezione, a preparare acqua e colla e a arrotolare manifesti, ricordano anche altro, seppure in versione farsesca, da avanspettacolo: le bande di vigilantes che si organizzavano nel West americano per ramazzare i cowboys ubriachi, o per “mettere al loro posto i negri” – e gli operai sindacalizzati – e poi per fornire la bassa manovalanza in appoggio alle strategie di esclusione esercitate dalle istituzioni, sfruttando i sentimenti gastrici della “ggente”, come ci ha abituato a dire una certa Tv-melodramma decisamente trasversale.
Ecco, nell’analisi delle strategie comunicative messe in opera dai promotori di questa “pulizia etnica” da piazzola spartitraffico – dall’uso dei manifesti, alla loro redazione, alle giustificazioni fornite – si intravede, secondo Tarantino, quella dimensione comunicativa che appoggiandosi ad una certa tradizione politica italiana (da “periferia dell’impero”, come scriveva Umberto Eco qualche decennio fa: oggi, quella di un Cetto Laqualunque, potremmo immaginare) si ripropone in forme (semi)nuove, ma non è diversa né da quelle dei lobbisti di Washington né, possiamo lucidamente temere, da quelle che ci potremo aspettare – generalizzate – in futuro.
Così, nell’episodio che sembra il più locale, marginale, secondario di tutti fra quelli accaduti nella Napoli degli ultimi anni, ritroviamo un tratto che omologa la città al resto del mondo, estraendola da quella dimensione unica, mitica, finzionale in cui finora ha galleggiato per restituirla al suo stato di magazzino, come le altre metropoli contemporanee, di scorie.
LETTURE
— Calvino Italo, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972.
— Brancato Sergio, Iannucci Fulvio, Videoculture Strategie dei linguaggi elettronici, Napoli, 1988.
— Fattori Adolfo, Fucile Gennaro, Passaggi di stato, in Brancato Sergio, Iannucci Fulvio (a cura di), 1988.
— Picone Generoso, I napoletani, Laterza, Roma Bari, 2005.