VISIONI / IN TIME
di Andrew Niccol / Medusa, 2012
I nuovi apartheid della fantascienza
di Roberto Paura
La distopia è un sotto-genere della fantascienza che non passa mai di moda. Da Metropolis a oggi, la fantascienza cinematografica ha saputo proporre sempre nuovi, originali scenari da incubo. Anzi, nella postmodernità gli scenari distopici della science-fiction hanno imboccato strade nuove, affrancandosi dall’ormai superata riproposizione della distopia socialista di Fritz Lang. Dopo che Francis Fukuyama ha sancito la fine della Storia, il futuro non sarà più scandito dalle nette dicotomie politiche, come quelle proposte da Ursula Le Guin (Le Guin, 2002) nel suo capolavoro letterario I reietti dell’altro pianeta (Urras e Anarres, i due mondi della storia, come riflesso dello scontro capitalismo-comunismo) che a loro volta risalgono al classico di Jules Verne I cinquecento milioni della Bégum datato 1879 (Verne, 1971), che metteva in scena il conflitto franco-prussiano attraverso lo scontro tra due città antitetiche, una guerrafondaia e l’altra pacifista.
Piuttosto, i nuovi apartheid della fantascienza suggeriscono un futuro fondato su differenze oggi impensabili, lontane anni luce da quelle fino a oggi sperimentate. È il caso di In Time, in cui Andrew Niccol, da sempre interessato a indagare le estreme conseguenze della speculative-fiction, immagina un’America futu-retrò in cui la società è divisa tra coloro che possiedono il tempo, al punto da aver accumulato milioni di anni di vita, garantendosi l’immortalità e l’eterna giovinezza, e quelli che invece vivono alla giornata, con appena pochi giorni o a volte addirittura poche ore di vita. Il tempo è la nuova moneta e sulle braccia di ciascuno s’imprime con un assillante count-down, versione futuristica del Marchio della Bestia. Dopo i 25 anni, nessuno invecchia più. Ma per evitare un mondo di giovanissimi Matusalemmi, tutti debbono darsi da fare per guadagnare tempo, senza il quale sono condannati alla morte. In una versione inedita degli squilibri e delle disuguaglianze del capitalismo, “per l’immortalità di pochi la maggioranza deve morire”, come certifica inappellabilmente il villain del film.
Il soggetto del film non è in realtà nuovissimo. La storia appare infatti molto simile a un racconto di Harlan Ellison, “Pentiti, Arlecchino!” disse l’Uomo del Tic-Tac (Ellison, 1978), al punto che lo stesso Ellison ha intentato causa al regista Andrew Niccol, soprattutto in considerazione del fatto che era già in lavorazione una trasposizione cinematografica di quel racconto, vincitore di un premio Hugo. Il curioso titolo fa riferimento ai due protagonisti della storia: il primo, l’Uomo del Tic-Tac, è un custode del tempo, esattamente come il segugio di In Time, che ricorda molto il Javert dei Miserabili per testardaggine e rispetto di una legge sostanzialmente ingiusta; il secondo, Arlecchino, è il giustiziere che intende far crollare un sistema fondato sulla schiavitù del tempo. Nella società distopica descritta da Ellison, il ritardo non è ammesso. Chi arriva in ritardo viene sanzionato perdendo punti, finiti i quali è destinato alla morte. Una società accelerata, insomma, dove il tempo è contratto. È il prestissimo, il tempo della modernità profetizzato da Friedrich Nietzsche. Lo stesso che costringe il protagonista di In Time a correre continuamente, perché il count-down scorre inesorabile, e ogni minuto sprecato è un minuto che avvicina l’esistenza all’istante-zero, quello della morte. Contro questo sistema dove il capitalismo raggiunge l’estremo parossistico, in cui al plus-valore del denaro si sostituisce il plus-valore del tempo, anch’esso sottratto a chi lo produce da parte di chi detiene le leve del potere in un processo futuristico di alienazione del capitale, si scagliano gli eroi di In Time e di “Pentiti, Arlecchino”: nessuno di loro vuole arricchirsi alle spalle degli altri, il sogno non è quello di entrare nell’Olimpo degli immortali, dimenticando i compagni di sventura. Il loro intento è quello di rivoltarsi, come i giustizieri di V per Vendetta (McTeigue, 2011), un altro film che mette in scena la rivolta contro un ordine sociale da incubo.
Andrew Niccol, che aveva già messo in scena come sceneggiatore uno dei film più importanti degli ultimi trent’anni, The Truman Show, non è nuovo a questi mondi chiusi, prodotti delle paure più oscure della nostra società. Difatti The Truman Show è distopia, perché il mondo ovattato in cui vive Truman è semplicemente falso ed egli non ha possibilità di uscirne. Ma lo è ancora di più Gattaca (Niccol, 2008), film del 1997, di cui In Time è la semplice riproposizione sotto un altro punto di vista. Il mondo di Gattaca descritto da Niccol non è apparentemente distopico, nonostante sia piuttosto retrò (un altro ‘vezzo’ del regista, una firma che si ritrova in tutti i suoi film). Sembra che ci sia libertà per tutti, ma in realtà non è vero. I personaggi di In Time sono liberi di fare quel che vogliono, ma il conto alla rovescia ricorda sempre loro la catena invisibile a cui sono legati. Analogamente, in Gattaca il Marchio della Bestia è una goccia di sangue, dalla cui analisi si evince se una persona è Valida o Non-Valida (un aggettivo che ricorda ovviamente gli invalidi, vittime di una apartheid contemporanea). I primi sono il prodotto dell’ingegneria eugenetica, figli perfetti della provetta, destinati al successo. I secondi sono i “figli di Dio”, coloro che sono nati secondo natura, condannati dalle loro tare fisiche a ricoprire solo i posti più bassi della catena sociale. Come osserva Vincent Freeman, il protagonista del film, “appartenevo a una nuova sottoclasse, non più determinata dal livello sociale o dal colore della pelle; no, ora la discriminazione è elevata a sistema”. Ecco un nuovo tipo di apartheid suggerita dalla fantascienza. Gattaca recupera il vecchio tema del mutante, un leit-motiv della fantascienza, trattato in alcuni importanti romanzi. Per esempio, Mendicanti in Spagna di Nancy Kress (Kress, 2005), racconto vincitore di un premio Hugo poi trasformato in romanzo, mette in scena un’analoga discriminazione, ma al contrario: da un lato la gente comune, dall’altra una minoranza di privilegiati che godono dell’invidiabile dono – garantito loro dall’ingegneria genetica – di non dover dormire. Ciò permette loro di diventare autentici super-uomini, ma di subire anche la discriminazione dei normali. La Kress s’ispirava a sua volta a un classico della fantascienza, Slan (1973), di Alfred Elton van Vogt, nel quale il protagonista apparteneva a una razza di antichi dominatori della Terra, dotati di poteri telepatici, ma poi ostracizzati dalla maggioranza che ne determinò la caduta e l’esilio. In entrambi i casi, gli esseri geneticamente superiori costituiscono la minoranza discriminata, e quindi le vittime in cui il lettore tende a riconoscersi. In Gattaca accade il contrario, è la maggioranza a essere discriminata: il che ricorda più da vicino la realtà dell’apartheid sudafricano, unico caso in cui la discriminazione non colpisce una minoranza in un paese (ebrei, ortodossi, zingari, omosessuali o che dir si voglia), ma la sua maggioranza, ad opera di una minoranza organizzata.
I temi di Gattaca ritornano nel film Non lasciarmi (Romanek, 2011) tratto dall’omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro (Ishiguro, 2007). Anche qui siamo di fronte a un apartheid reso possibile dall’ingegneria genetica, nei confronti di una minoranza vittima del desiderio di immortalità di una maggioranza simile all’élite di In Time. Qui l’immortalità, o comunque una significativa estensione della speranza di vita, viene ottenuta allevando, nel vero senso della parola, dei cloni il cui unico scopo è donare i propri organi ad altri esseri umani (non cloni), per garantire la loro sopravvivenza. Ogni clone è destinato a fornire tre organi prima di completare la propria missione, ossia morire. Per evidenti esigenze mediche, la donazione viene effettuata in una fascia di tempo che va dalla fine dell’adolescenza alla prima maturità, quando i cloni sono ancora giovani ma ormai già completamente formati.
Il film di Mark Romanek e ancora di più il romanzo di Ishiguro diventa così la triste parodia del romanzo di formazione: ai protagonisti, giovani cloni, viene concessa l’opportunità di formarsi in prestigiosi college, coltivando le proprie aspirazioni, finché non arriva il momento in cui, cresciuti “al punto giusto”, debbono sacrificarsi per la sopravvivenza dell’élite – che rappresenta l’indifferente e insensibile maggioranza dell’umanità. Anzi, per dimenticare che la sua sopravvivenza dipende da quest’aberrazione, l’umanità ricorre alle stesse retoriche utilizzate dalla Chiesa nei primi tempi della conquista delle Americhe, quando gli Indios venivano bollati come esseri senz’anima, come tali non umani nel vero senso della parola. Solo tardivamente la Chiesa riconoscerà il vantaggio di una conquista delle anime alla causa della Vera Croce. Analogamente, i cloni sono considerati privi di vere e autentiche passioni, che invece possiedono e coltivano, come cerca di dimostrare una coraggiosa ma inascoltata mecenate, Madame, che finanzia il prestigioso college di Hailsham in cambio delle opere d’arte realizzate dagli allievi, che dimostrano che anche loro, dopotutto, hanno un’anima. Sì, ma che anima? La leggenda nera diffusa in Non lasciarmi vuole che le “matrici” dei cloni siano reietti dell’umanità: prostitute, tossicomani, criminali incalliti, malati mentali. Cosicché, se anche i cloni avessero un’anima, sarebbe pur sempre un’anima dannata, incorreggibile.
Il tema è curiosamente identico a quello di The Island (2006) di Michael Bay, uscito in America lo stesso anno del romanzo di Ishiguro. L’isola eponima è abitata da cloni, gli “agnati”, nati per donare i propri originali alle loro matrici. Ma due di loro s’innamoreranno rivelando che anche i cloni hanno un’anima. C’è però una differenza non da poco: e cioè che in The Island i cloni sono inconsapevoli, mentre in Non lasciarmi sanno perfettamente qual è il loro destino, e lo accettano perché tutto il percorso formativo è volto a inculcare loro l’“etica della donazione”, per cui donare i propri organi vuol dire adempiere a un compito sociale. Il livello di raffinatezza raggiunge l’apice, come nell’orwelliano 1984 (Orwell, 2002), dove alla fine anche Winston scopre di amare il Grande Fratello; analogamente a quei neri che, per interesse o quieto vivere, accettarono la logica dello sviluppo separato sudafricano auto-relegandosi nei Bantustan, gli “Stati-giocattolo” inventati dall’apartheid per far baloccare anche i neri con la politica e il governo.
A questo apartheid storico, quello “originale”, si rifà un film sudafricano nell’essenza, che è District 9 di Neill Blomkamp (Blomkamp, 2010). I reietti vengono in questo caso davvero da un altro pianeta, come titolava Ursula Le Guin: non sappiamo quale, ma le fattezze dei nuovi immigrati non lasciano spazio a molti dubbi. Sono extraterrestri, naufragati sulla Terra, per la precisione in Sudafrica, dove sono stati accolti con sospetto e fastidio, in modo analogo alla nostra Guardia Costiera quando intercetta barconi carichi di clandestini. Gli alieni sono infatti gli ennesimi clandestini che affollano un Sudafrica non ancora uscito dall’apartheid storico, dato che il film è al tempo stesso ucronico, ambientato negli anni Ottanta, all’apice del regime di segregazione razziale. Per gli afrikaner, allora, che cosa importa se i nuovi clandestini sono neri, indiani, coloured o extraterrestri? Quello che importa è che non sono bianchi. Come sintetizza Adolfo Fattori (Fattori, 2010): “Immaginiamo l’arrivo di una astronave aliena: non porta messaggi – di pace o guerra; non aggredisce, non chiede aiuto. Non ci si sorprende. Non è un avvenimento straordinario. Solo un altro sbarco di pezzenti”. Il ghetto di District 9 dove sono affastellati è ovviamente la parodia del tristemente noto District Six di Cape Town da cui i non-bianchi vennero espulsi in una barbara operazione di pulizia etnica.
District 9 è un’opera di fantascienza, ma rappresenta al tempo stesso la più penetrante riflessione sull’apartheid compiuta negli anni successivi alla fine del regime sudafricano, perché porta in scena fino alle estreme conseguenze quella “ricostruzione del corpo smembrato” di cui parla una studiosa di letteratura post-coloniale quale Itala Vivan (Vivan, 2005). Il colonialismo bianco prolungato con l’apartheid realizzò infatti una vera e propria dominazione sui corpi stessi dei soggetti discriminati; il recupero di questi corpi, la loro liberazione, rappresenta un modo – per i sudafricani – di riappropriarsi della propria identità. Così Neil Blomkamp, novello Franz Kafka, immagina questo processo alla rovescia: il protagonista, un membro di basso rango dell’establishment afrikaner, si trasforma lentamente nell’alieno, nell’altro che fino a poco prima non esitava a seviziare. Vorrebbe recuperare il suo vecchio corpo, ma non può, e quest’incubo che vive è la rappresentazione più efficace della dominazione dei corpi effettuata dal regime bianco. Il nuovo apartheid di District 9, quello operato dagli uomini nei confronti degli alieni, non è allora diversa in nulla dal vecchio apartheid. Ne è solo la trasfigurazione, nel vero senso della parola.
La distanza da In Time è solo apparente. District 9 recupera una concezione più classica di discriminazione, quella su base “etnica”, solo proiettata in una dimensione fantascientifica. Ma cos’è d’altronde la discriminazione etnica se non la sovrastruttura di una differenza connaturata nel sistema? Lo diceva del resto già Franz Fanon (2000) negli anni Sessanta:”Si è ricchi perché bianchi, si è bianchi perché ricchi”. Tutto torna: in In Time non ci sono bianchi e neri, solo ricchi e poveri, eppure i grandi quartieri dell’élite restano “for whites only”, come ai tempi del Sudafrica. In Time suggerisce che le nuove distopie saranno più sfuggenti, meno nette, paradossalmente meno “grossolane” delle distopie huxleyane o orwelliane, dove la sensazione di vivere in una gabbia è continuamente avvertibile. Piuttosto, la sensazione sarà quella di essere liberi e, come in The Truman Show, il ‘banco di prova’ di Niccol, solo scavando in profondità sarà possibile scoprire le catene che ci tengono prigionieri.
LETTURE
— Ellison Harlan, “Pentiti, Arlecchino!” disse l’Uomo del Tic-Tac, in I Premi Hugo 1955-1975 , Editrice Nord, Milano, 1978.
— Fanon Franz, I dannati della terra, Einaudi, Torino, 2000.
— Fattori Adolfo, Quando gli alieni eravamo noi, in “Quaderni d’Altri Tempi” n. 25, 2010, https://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero25/bussole/q25_b06.htm.
— Ishiguro Kazuo, Non lasciarmi, Einaudi, Torino, 2007.
— Kress Nancy, Mendicanti in Spagna, Delos Books, Milano, 2005.
— Le Guin Ursula Kroeber, Quelli di Anarres (I reietti dell'altro pianeta), TEA, Milano, 2002.
— Orwell George, 1984, Mondadori, Milano, 2002.
— Van Vogt Alfred Elton, Slan, Nord, Milano, 1973.
— Verne Jules, I cinquecento milioni della Bégum, Mondadori, Milano, 1971.
— Vivan Itala, Corpi liberati in cerca di storia, di storie, Baldini & Castoldi, Milano, 2005.
VISIONI
— Bay Michael, The Island, Warner Home Video, 2006.
— Blomkamp Neill, District 9, Sony Pictures Home Entertainment, 2010.
— McTeigue James, V per Vendetta, Warner Home Video, 2011.
— Niccol Andrew, Gattaca, Sony Pictures Home Entertainment, 2008.
— Romanek Mark, Non lasciarmi, 20th Century Fox Home Entertainment, 2011.