LETTURE / FANTASMAGONIA
di Michele Mari / Einaudi, Torino, 2012 / pp. 164, € 18,00
Fare una fantasma,
leggere attentamente le istruzioni
di
Francesco Zago
La letteratura è una scienza esatta. Almeno in materia di mostri. È quanto dimostra Fantasmagonia, il trattatello che chiude l’omonima raccolta di racconti di Michele Mari. “Per fare un fantasma occorrono una vita, un male, un luogo. Il luogo e il male devono segnare la vita, fino a renderla inimmaginabile senza di essi”. Da questo postulato si dipana con logica ferrea, organizzata in un “introibo” e diciannove paragrafi, la natura stessa del male e del fantasma che quel male rappresenta, a cavallo fra filosofia naturale, razionalismo leibniziano, alchimia, invenzione poetica. La progressiva identità di sostanza tra lo spettro e la sua casa richiama un tema già incontrato in Mari (cfr. Quaderni d'Altri Tempi n. 29): “La casa ha dunque ad essere chiusa […] Pertanto il recluso respirerà di se stessa, e sarà proprio questa autoinalazione a rendere possibile la sua sopravvivenza in forma di fantasma […] sarà in un certo modo diventato parte della casa egli stesso. Si spiega così l’indicibile angoscia che il recluso […] prova ogni volta che il suo sguardo cada su una parvenza qualsia della casa: anzi gli basta pensarla […] figgersi in quell’obbietto significa ormai per lui contemplare dall’interno un punto preciso della sua stessa mente”. Difficile non ripensare allo scantinato in cui si rinchiude irrimediabilmente Syd Barrett, figura della follia e della distanza incolmabile dal mondo (Mari, 2010a), o alle parole del piccolo Michele in Verderame: “Ma una casa è come una testa […] quando giravo per stanze e corridoi e mi spostavo da un piano all’altro, avevo davvero l’impressione di muovermi dentro la mia testa” (Mari, 2007). Non si dovrebbe ignorare come Mari faccia parlare con registri così lontani un bambino nella casa delle vacanze e l’oscuro redattore della Fantasmagonia, a sua volta, come rivela nelle ultime righe, vittima dell’incantesimo.
L’autore chiarisce che l’identificazione tra lo spettro e la sua casa si compie sì dopo la morte, ma si insinua lentamente come un orribile tumore già durante la vita: cioè, il fantasma è tale ancor prima di morire (di nuovo, chi meglio di Syd?). Questo fenomeno presenta sintomi precisi, di cui almeno due, si direbbe, patognomonici, cioè indici sicuri di malattia: l’attaccamento morboso agli oggetti della casa, e l’ossessiva inventariazione e catalogazione degli oggetti stessi. In questo secondo caso, non si tratta tuttavia di un furore tassonomico razionalistico, linneiano, tutt’altro: sono l’angoscia e la disperazione che inducono il fantasma a ripetere “infinite volte secondo una successione invariata che tenga della litania”. Lo spettro soffre, e cerca rifugio nell’elencazione e nella numerazione (si veda anche, a titolo di esempio non certo isolato, La morte, i numeri, la bicicletta, in Euridice aveva un cane), mormorando fra sé come se sgranasse un rosario, tentando vanamente di riafferrare una realtà sempre più sfuggente, quindi malinconica. “Borbottare, bisbigliare, sospirare, respirare, tutto è compreso nell’esattissimo verbo esalare”: la casa non è infestata, o maledetta, ma “infetta”.
Ecco allora, procedendo a ritroso nella raccolta (che forse così andrebbe letta?), la Ballata triste di una tromba, sorta di dialogo leopardiano in cui il protagonista, un “sospiratore”, un “uomo di struggimenti”, sostiene letteralmente una “poetica dell’oggettività”: sostituire i ricordi (e le fitte che li accompagnano) con gli oggetti del ricordo, esorcizzare il tempo nelle cose. Bulloni, tappi, minerali, una pompa di bicicletta (ancora), una spazzola (e i “giornalini” o gli Urania di altri racconti). Ma, aggiungiamo, rendendoli poesia, letteratura, racconto. Poi Le sere di Marcellino, in cui il piccolo protagonista “rubrica” ed enumera ogni oggetto e ogni gesto che dalla cena (“Tre. Uno il pane, due l’acqua, tre la pasta al sugo”) lo porta fin al letto (“Bacino della buonanotte, ventisette”).
Tutto sta a dimostrare dunque che la letteratura è l’unica via, l’unica scienza davvero esatta di fronte alla mostruosità della vita. Tra il mostro esistenziale (gli orchi dell’infanzia, prima di tutto) e il mostro retorico e letterario sembra sussistere un nesso necessario. Per questo i grandi della letteratura del passato diventano a loro volta personaggi, in una sorta di mitologia che spieghi l’origine delle loro fulminanti intuizioni. In effetti, solo loro possono illuminarci sulle radici più profonde della creazione. Ma fantasiosamente, e forse proprio per questo con il fascino che è solo dei grandi. William Shakespeare ricava dai “racconti della buonanotte” della madre gli intrecci più truculenti, trasfigurati sui palcoscenici di tutto il mondo ed entrati nella storia del dramma e della lingua moderna; il successo di Jakob e Wilhelm Grimm andrebbe ascritto al genio di un terzo fratello, Ludwig, a sua volta geloso custode del proprio “segreto professionale”; Charles Dodgson, alias Lewis Carroll, riesce a sconfiggere la balbuzie (e a conquistare la “tranquillità d’animo”) trasfigurando il mondo in una filastrocca, unendo logica matematica e precisione retorica a un “trionfo onirico e fantastico”, non senza l’aiuto di “Alice Moore, la bambina più bella”; Jorge Luis Borges e Omero assistono insieme alla finale dei mondiali di calcio Grecia-Argentina, proverbialmente ciechi e in carrozzina, a loro volta impegnati in una gara di modestia sulla inarrivabilità del rispettivo genio. E poi ci sono Franz Kafka, Cecco Angiolieri, Piero di Cosimo, le “vite parallele” di Napoleone e dell’oscuro Gaspard Pommardieu, Antoine de Saint-Exupéry, Lord Byron e i coniugi Shelley.
Ma l’ambientazione più suggestiva, come altrove nei libri di Mari, è un’altra: le coperte rimboccate di un bambino. Di Marcellino come di William. Forse è proprio da lì che nascono tutte le storie, dai racconti della buonanotte, linfa vitale di ogni racconto a venire. Come a dire: la vita è un racconto (doloroso, angosciante, mostruoso), ma senza racconto non c’è vita. E quel letto, quelle lenzuola tirate fin sopra la testa per sfuggire al buio e ai mostri orribili che lo infestano sono, non a caso, il confine preciso verso il mondo del sogno. È là che tutto si compie, nei sogni dell’infanzia “sanguinosa”, perché ancora così difficili da distinguere dalla realtà, dai libri, dalle avventure “solo” immaginate eppure così palpabili. A sua volta la letteratura è il gesto disperato con cui cerchiamo di trattenere quei brividi, di non lasciarceli sfuggire.
La potenza creativa non solo deriva dal sogno, anzi, è l’atto stesso del sognare. È l’«antecedente» – imperscrutabile, indecente, incorporeo – di cui parlava anche un grande compositore come Franco Donatoni, indagando sulle origini oscure della scrittura musicale, fin dal primo dei suoi tableaux vivants: “X si trova alle spalle della Creatura Mostruosa che lo sovrasta…” (Donatoni, 1980). E così pure Mari esordisce nella Conversazione notturna con il mostro: “Aprii gli occhi nel buio. Non vedevo nulla, ma sapevo che ai piedi del mio letto c’era qualcuno”. Entrambi, in contesti molto diversi, celebrano il macabro e il pauroso più ancestrali, i “babau”, gli orchi e le creature “nascoste sotto il letto” dell’infanzia e delle fiabe.
La letteratura e la finzione (e l’arte tutta, quindi) cercano di esorcizzare, dominare il mostruoso, ma al tempo stesso non possono fare a meno di nutrirsene, di subirne il fascino. Scopriamo allora che Lord Byron è un insaziabile vampiro – “d’altronde tutti i veri artisti succhiano la vita degli altri” spiega John William Polidori, segretario del poeta, in Villa Diodati – e Percy Bisshe Shelley un osceno patchwork suturato con lo spago e fissato da bulloni sinistramente ottagonali. Mary Wollestonecraft, sua moglie, non si è inventata proprio nulla, a parte dare un nome al proprio mostro letterario, “un’invenzione così sconvolgente, un mostro che filosofeggia, un essere abominevole e insieme sublime… una bestemmia vivente, lo stigma dell’empietà nelle carni…”.
Appunto, “essere abominevole e insieme sublime”: qui sta la mostruosità stessa dell’uomo, spirito, genio, elevazione, e al tempo stesso ammasso di carne pulsante, sanguinolenta, mossa dagli impulsi più bassi. Ascesi e putrefazione, genio e deformità, meticolosità linguistica e trivialità convivono e si sostengono a vicenda. Esemplare di questa bassezza connaturale all’uomo è la deiezione, in tutte le sue varianti linguistiche e culturali, racchiuse in una visione che dall’ingenuità dell’infante si spinge a visione del cosmo e dell’aldilà: l’esilarante Sogno del fecaloma, come in una nota filologica, ripercorre connotazioni, usi e significati di popò, pupù, cacca, merda, feci, “infine, insusandoci nella scienza, l’escremento, la deiezione, i vari rami della coprolalia, Gadda che descrive una merda spiraliforme come una cupola del Borromini e Manganelli che fa della coprologia una forma di teologia…”, fino a una cosmologia dal sapore dantesco (“E se si alza lo sguardo in alto, si vedono le stelle fisse dell’escremento, e tutt’intorno il cielo della deiezione, talmente rarefatto da superare le capacità del nostro intelletto. E oltre quel cielo, soltanto intuibile per rapimento estatico, il grande cerchio, l’anello immobile, il primum da cui ogni cosa è gloriosamente evacuata”). Il corpo dell’uomo è pure ricettacolo di miasmi e ogni genere di repellente suppurazione. Mari chiama in causa Giorgio Vasari per delineare la figura del pittore Piero di Cosimo, “uomo salvatico e astratto, di ingegno smoderato e difforme”, in grado di trarre ispirazione per le sue opere da un “certo muro” dall’Ospedal della Reparata: qui contempla “muchi catarrosi e sanguigni”, “tutti gli sputi antichi e recenti”, “certe scaglie di flegma ormai secco”, “una grande guazza di catarro glauco nel cui bagnato riluceano alcuni spruzzi di sangue”… (Su questo tema dell’“incrocio tra l’umano e il bestiale” si veda l’affascinante saggio Il Cinquecento del dottor Caligari, Mari, 2010b).
Ma la nostalgia è pur sempre il mood dominante. Un piccolo capolavoro è L’ultimo buscadero, che unisce il demone dell’esattezza diaristica e oggettivante (“Erano, per l’esattezza, le undici e dieci del 9 settembre 1972…”) con l’imperscrutabile dividersi dei “sentieri che si biforcano”: il pranzo domenicale dai nonni, le partite a sette e mezzo, la rievocazione di lontane glorie televisive (“… a quel tempo Novantesimo minuto incominciava letteralmente al novantesimo minuto…”). Ma la nostalgia è perfino “preventiva”, pregressa, per ciò che ancora non è accaduto, ma di cui si percepisce già la fine, antidoto alla follia del tempo (l’Annomachia, dove ritorna il tema della “merda metafisica”: “l’immagine della materia fecale prodotta da tutte le creature animali nel corso dell’intero anno esercitava su di lui una suggestione irresistibile. Quella mostruosa mole di escrementi sembrava sfidare le più alte vette del pianeta, eppure, rubricata sotto l’anno 1975, era già stata computata fino all’ultimo grammo. Non un grammo di meno non un grammo di più, era tutto già scritto, come dire che era tutto già evacuato, immaginarlo era farsene sommergere”).
Nella Piega, Gilles Deleuze mostra come “per Leibniz […] il chiaro esce dall’oscuro e non smette di tornarvi” (Deleuze, 2004). In questo senso Mari conferma una volta di più il ruolo della letteratura: dare forma al buio, sconfiggere le paure passandosi attraverso, ossia stendendole apollineamente sulla pagina, entro margini, righe, corpi, caratteri, numeri. D’altronde, di quel buio non possiamo non nutrirci, non possiamo non spingervi lo sguardo. Se l’ispirazione è spesso gotica, la trama linguistica è barocca, perché multiforme, cangiante, “ripiegata infinitamente su se stessa”, direbbe Deleuze, sempre sul confine tra luce e ombra, certezza e illusione, invenzione e cruda realtà. Ma se in passato Mari ha toccato vertici di furore linguistico vicini al parossismo di Gadda (Di bestia in bestia, Rondini sul filo, per fare solo due esempi), in questi racconti la scrittura è estremamente misurata, pacata, il ricorso ad arcaismi e vocaboli desueti più parsimonioso, meno barocco. Ma il risultato non è meno tagliente e toccante.
LETTURE
— Deleuze Gilles, La piega, Einaudi, Torino, 2004.
— Donatoni Franco, Antecedente X, Adelphi, Milano, 1980.
— Mari Michele, Verderame, Einaudi, Torino, 2007.
— Mari Michele, Rosso Floyd, Einaudi, Torino, 2010a.
— Mari Michele, I demoni e la pasta sfoglia, Cavallo di Ferro, Roma, 2010b.