LETTURE / SONIC BODIES
di Julian Henriques / Continuum, London & New York NY, 2011 / pp. 392, £ 17,99
Attrazione sonora
di Beatrice Ferrara
The one good thing about music
When it hits, you feel no pain
Bob Marley, Trenchtown Rock
La storia che questo articolo vorrà raccontare è quella di una potente attrazione tra un uomo e una macchina. Lui è Julian Henriques – regista e ricercatore britannico di origini giamaicane, docente di Media and Communications a Londra (Goldsmiths University). La macchina è un apparato fonografico, ovvero un sistema per la riproduzione di un suono registrato: è il sound system, cioè quella sorta di colossale “discoteca mobile” nata intorno alla metà degli anni Quaranta in Giamaica – in principio usata come curiosa strategia di marketing per attirare presso un esercizio commerciale una folla affamata di musica ma spesso impossibilitata ad avere un proprio mobile-radio, e poi diventata sempre più un’istituzione centrale nella vita, nella politica e nella cultura dell’isola caraibica (Bradley, 2008).
Se la lunga, complessa e affascinante storia della nascita e delle trasformazioni del sound system – dalla Giamaica al Regno Unito e oltre, lungo le rotte multiple di una cultura transnazionale, diasporica, mobile e in divenire – è stata scritta già da ben altre mani (Bradley, 2008; Hebdige, 1987, 2008; Veal, 2007), quello che questo articolo vorrà raccontare è la particolare declinazione del sound system nelle visioni e nel pensiero artistico e teorico di Henriques. Si tratterà, raccontando quel particolare assemblaggio concettuale che è la forte attrazione tra Henriques e la cultura dei sound systems, quasi di operare un ritaglio in quella storia più grande, che non si può raccontare qui, che lega il sound system ad un’idea delle culture – quella nera e non soltanto quella nera – come entità fluide perennemente in transito e in traduzione (Gilroy, 2003). Un ritaglio, però, che da quella storia più grande non potrà prescindere nemmeno per un istante; quasi come se ogni singola storia legata al sound system fosse inevitabilmente attirata verso la storia più ampia, di cui non ci si può dimenticare, con la forza con cui un grande magnete attira un piccolo frammento di ferro.
La metafora del magnete non è qui usata a caso. Essa stessa rimanda all’idea dell’attrazione con cui abbiamo aperto, impiegandola tanto in riferimento al fenomeno fisico quanto come figurazione concettuale. Un doppio livello questo – microfisico e macrofisico, micropolitico e macropolitico, come vedremo – lungo cui si dispiega tutta la passione di Henriques per i sound systems, dai primi film realizzati negli anni Novanta per il britannico Channel Four fino all’ultimissimo studio Sonic Bodies. Raccontare questa duplice attrazione è quindi lo scopo di questo articolo. Ma da dove partire? Forse, meglio, non dal cuore delle cose, ma attraverso un giro più ampio: da un altro piccolo frammento di una storia di attrazione sonora…
Una fotografia in bianco e nero. Estate 1974, Brockwell Park, Brixton, sud di Londra. Lo scatto è di Chris Steele-Perkins, fotografo che, lungo tutti gli anni Settanta e Ottanta, avrebbe raccontato per immagini la propria personale visione del processo di erosione della rigida e contraddittoria facciata ufficiale del Regno Unito. Su uno dei più forti fattori di quel processo di erosione avrebbe scritto bellissime pagine, nel 1979, Dick Hebdige, parlando di “sottoculture”. Sulla superficie della quotidianità – affermava Hebdige – si svolgeva tutto il profondo lavorìo del corpo a corpo mai pacificato che è la cultura, la politica, l’etica; su quella superficie le sottoculture – gli stili ‘minori’ e non ufficiali – praticavano buchi, operavano rotture, squarciavano interruzioni: “lo stile […] e le sue trasformazioni sono «contro natura», interrompono il processo di «normalizzazione». Come tali, sono gesti, mossi verso una parola che offende la «maggioranza silenziosa», che sfida il principio di unità e di coesione, che contraddice il mito del consenso” (Hebdige, 2008).
La foto di Steele-Perkins – questa foto del recente passato che oggi ancora ci rapisce – cattura un instante del lavorìo che opera su quella profondissima superficie. Si tratta di un istante della vita dei partecipanti al festival reggae locale di questo quartiere del sud-est della capitale britannica. Una folla di donne ed uomini di varie età, parte della comunità nera di Londra, è ritratta mentre è all’ascolto. La definizione dei volti nella parte bassa della foto – vicini e che interpellano, più direttamente, con il loro sguardo, quello di chi li guarda – appare quasi trasfigurata, fortemente concentrata. Una nitidezza ed una compressione altamente plastica e fisica, questa, che sfuma all’orizzonte in un molto meno definito oceano di teste. E lì, su quell’orizzonte, in mezzo al mare di teste, si staglia, poco sotto il taglio dell’inquadratura, il contorno di una ziggurat di casse audio impilate per file ed in altezza: un sound system.
Non appena l’occhio ne coglie il profilo – e potrebbe non accadere subito, l’imponente massa del sound system essendo ridotta a piccola figurina dal gioco della prospettiva – dallo sfondo il grande magnete sonoro pare proiettarsi al centro della scena: la foto – frammento di tempo – evoca infatti, ad un tratto, tutto un percorso più ampio e chiede che si tenga conto, al contempo, non solo del significato che esso ha in questa scena, ma della centralità di più ampia portata che ha nella Londra del 1974. Concentrazione e partecipazione di quanti sono ritratti riuniti e all’ascolto appaiono infatti orientate proprio intorno a quel motore sonoro al fondo della scena, dove l’ascolto nulla ha di passivo ma si fa performance attiva di un gioco delle identità mai del tutto concluso.
Ancora Hebdige, in Sottocultura, avrebbe scritto molto di questa centralità, evidenziandone appunto il forte carattere politico così attentamente codificato negli stili della musica reggae e della cultura dei sound systems nel Regno Unito degli anni Settanta. Sottocultura veniva dato alle stampe cinque anni più tardi rispetto al momento in cui Steele-Perkins catturava lo scatto nel Brockwell Park. Non è dato sapere se Hebdige avesse mai visto la foto di Steele-Perkins; certo è che quella intensità d’ascolto catturata nella fotografia sarebbe stata il cuore del lavoro di Hebdige: in Sottocultura si sottolineava infatti l’enorme importanza delle discoteche mobili di origine giamaicana in quanto segno e corpo dell’intricata matassa delle relazioni di egemonia e contro-egemonia, cioè delle varie tensioni lungo le linee dei dispositivi di potere legate alla classe, così come alla razza e al genere, e all’età. Scriveva l’autore: “per una comunità circondata da ogni parte da discriminazioni, ostilità, sospetto e vacua incomprensione, il sound system arrivò a rappresentare, in modo particolare per i giovani, un prezioso rifugio interno […]. Il potere qui era di casa, a portata di mano. Era nell’aria – invisibile, elettrico – trasmesso da un’apparecchiatura di altoparlanti fatta artigianalmente”.
Un anno dopo Sottocultura, il potere “invisibile ed elettrico” del magnifico attrattore sonoro sarebbe stato consacrato dalla pubblicazione dell’album-manifesto della cultura nera dei tardi anni Settanta nel Regno Unito, ovvero Bass Culture di Linton Kwesi Johnson (1995). Il titolo dell’album – che gioca sull’omofonia tra i termini inglesi bass e base (“base”) – stava ad indicare tanto una cultura dal basso (dalle fasce di popolazione più escluse delle città britanniche) quanto una cultura del basso (inteso come il tratto sonoro fisico più caratterizzante la musica dei sound systems). E se il lavoro di Hebdige si era occupato di raccontare così bene quel primo aspetto apertamente politico della bass culture che legava il suono alle rappresentazioni dell’identità, chi e come avrebbe, in futuro, raccontato l’altra dimensione della “cultura del basso” – in cui il tessuto materiale del suono pareva offuscare il livello delle rappresentazioni e dell’identità?
Un’immagine – come amava suggerire con il suo lavoro il regista Chris Marker – molto spesso può avere il potere di mostrare il passato ma anche, al contempo, di decifrare il futuro. Ed è questa un po’ la sorte della fotografia di Steele-Perkins, guardata dall’obliqua prospettiva del 2012. Quella foto infatti, se ad un primo sguardo pare il perfetto scatto-simbolo per il lato più dichiaratamente (macro)politico della bass culture, in realtà assolve soltanto in parte a questa funzione. Lo studioso Paul Gilroy riprende questa fotografia in un suo saggio del 2003 e invita chi la guarda a prestare attenzione ad un aspetto: “questo ritratto di una comunità, di una folla di persone legate insieme da un umore collettivo e condiviso […] è disturbante perché, sebbene la fotografia suggerisca che questo pubblico è tenuto insieme da un sentire unanime, i volti non si guardano l’un l’altro. […] Tutti guardano in avanti […] tra il punto in cui il fotografo è posizionato e il punto da cui diparte il suono: il punto che comanda e cattura la loro attenzione” (Gilroy, 2006; T.d.A.).
A differenza di molte altre immagini cioè – suggerisce lo studioso – questa esprime una concentrazione che pare – tanto nella contrazione nell’ascolto dipinta dai volti in primo piano, quanto nel senso di massiccia partecipazione suggerito dall’oceano di teste che sfila all’orizzonte – non soltanto imporre a chi la guarda la necessità di iscrivervi i significati del più ampio contesto politico della Londra dei tardi anni Settanta (le identità, le rappresentazioni). Essa effonde anche una forte tensione verso una dimensione più perturbante legata al suono in quanto tale e alla sua capacità di colpire i corpi prima ancora della codificazione in identità e rappresentazioni, come una strana attrazione che ha tutti i tratti dell’“abduzione sonora” (Eshun 1998). La fotografia, cioè, nell’espressione dei volti e nella postura dei corpi – dominati dall’alto e dal centro, sullo sfondo, dalle casse del sound system e concentrati in questo patto voluto di prigionia piacevole nel muro del suono – evoca tutto il potere del suono stesso, in quanto forza fisica, di operare una cattura a livello della materia, delle sensazioni, degli affetti. Un potere, anche questo, totalmente politico, in cui la microfisica del suono – le vibrazioni del basso del sound system, la sua capacità di delimitare un’area dello spazio con il muro sonoro e di richiamarvi e stringervi, all’interno, dei corpi che ascoltano e che possono danzare – è politica in sé: essa lega, aggrega, attrae, prima ancora che ogni significato possa venire espresso. Racconta, cioè, di un “essere insieme”, come massa che al contempo percepisce e comprende – che oggi più che mai è attuale, così legato ai flussi informatici che insidiano le rappresentazioni dell’identità: l’essere insieme come “pubblico”.
Guardando la foto ancora una volta, la piccola figura sullo sfondo allora non balza soltanto al centro della nostra scena; ci ricordiamo anche infatti che un sound system suona, e allo stesso tempo che il suono vibra: è nelle nostre teste, è nel pavimento, sale su per le nostre gambe, batte nel petto, agita il contenuto del bicchiere che stringiamo tra le mani, passa da corpo a corpo… colpisce e non fa male.
La prima volta che abbiamo avuto modo di incontrare la fotografia di Steele-Perkins e di apprezzarne la capacità di narrare – nel piccolo spazio di un’immagine – la duplice natura del sound system come attrattore sonoro legata alle due facce della bass culture (quella della mediazione sociale delle rappresentazioni, e quella fisica, immediata, materiale del basso), il nostro pensiero è corso immediatamente al lavoro di Julian Henriques. Quello dell’autore britannico è un lungo percorso artistico e teorico, in cui il lavoro sul livello delle rappresentazioni non è mai separato dallo studio della materialità del suono e dall’impatto che questa ha avuto, più recentemente, sulla politica della rappresentazione stessa. Il rapporto fra queste due dimensioni, piuttosto, si dipana in maniera avversa ad ogni logica binaria ed anzi critica, originale ed interessante.
È in gioco infatti, nel lavoro di Henriques, un’oscillazione fra due tendenze che, prendendo in prestito ancora una volta dei termini dal bagaglio concettuale degli Studi Culturali, abbiamo appunto definito nei termini di una tendenza verso lo studio delle rappresentazioni ed una verso le dinamiche degli affetti. “Rappresentazione” ed “affetto” sono concetti dalla lunga storia e dalle alterne fortune, ai quali una sommaria trattazione non rende merito – ma che pure proveremo qui a riprendere per necessità di chiarezza. Se la “rappresentazione”, infatti, come abbiamo visto, si riferisce alla forma di espressione (mediazione ideologica) in corso tra un evento e il suo significato sociale e riconduce quindi un evento al campo di tensione delle e fra le identità, l’«affetto» – concetto tratto dal pensiero di Baruch Spinoza (2007) e ripreso e rielaborato nella filosofia di Gilles Deleuze (1998) e nella teoria critica contemporanea da autori come Brian Massumi (2002) – è un momento di intensità che emerge dal contatto fra due “corpi” (dove tutto è inteso come “corpo”), ovvero una reazione autonoma del corpo/nel corpo a livello della materia, che eccede il linguaggio e il gioco dei significati sociali. Nel lavoro di Henriques – e nella sua trattazione dei corpi che danzano, ascoltano, performano, legati al corpo del suono e a quello della macchina “sound systems” come in un complesso assemblaggio – queste due dimensioni non vengono a trovarsi in contraddizione: il sound system, magnete sonoro, opera in questo complesso assemblaggio tanto come generatore e veicolo di significati sociali, quanto come generatore e veicolo di affetti.
La storia dell’attrazione fra Henriques ed i sound systems, che oscilla fra questi due poli e costruisce, fra essi, trame assai interessanti, prende le mosse, piuttosto naturalmente, dall’atto pratico dell’ascoltare. L’autore lo racconta così: “Il suono mi ha rapito da sempre. Non sono un musicista, non sono un ingegnere del suono; ma sono sempre stato un ascoltatore. Ed è lì che tutto ha avuto inizio: dalla musica che amo ascoltare, che è quella che viene dalla Giamaica, il posto da cui proviene la mia famiglia. Questa musica mi ha ispirato nei primi esperimenti visuali, nei temi e nei linguaggi dei miei primi film sulla musica giamaicana in Giamaica e nel Regno Unito” (in Ferrara, in corso di pubblicazione).
Henriques si riferisce qui ai lavori realizzati negli anni Novanta, come il film per la TV We the Ragamuffin (1992) e il lungometraggio (un musical!) Babymother (1998), in cui il reggae è indagine sulle relazioni di classe e genere nella Londra del periodo. Questi lavori guardano alle culture del sound system ponendo l’accento più marcatamente sul livello della rappresentazione (la cultura dal basso). Nel primo dei due lavori, il setting è Peckham, quartiere afro-caraibico del sud-est londinese, nei primi anni Novanta tra i quartieri più complessi della capitale britannica. Il film introduce il setting con la significativa nota iniziale “A molti Peckham potrebbe sembrare una sorta di lontanissima terra straniera” (T.d.A.), ad evocare il lavorìo ideologico intorno al crollo della distinzione tra centro e periferia e la permanenza di sacche di disparità – ereditate dal colonialismo e rinnovate da una nuova biopolitica della segmentazione sociale – all’interno delle capitali europee. Allo stesso tempo, è nel suono e nei ritmi ragamuffin, attorno a cui ruotano le vicende raccontate dal film, che questo ripiegamento della periferia nel centro (e del centro nella periferia) prende corpo come traccia pulsante di un campo di relazioni aperto in cui la cultura è arena dei significati. Analogamente, Babymother mette il suono – questa volta si tratta di dancehall – al centro della vita di Anita, “ragazza madre” della comunità caraibica di Harlesden, nord-est di Londra, facendo correre lungo le linee del basso l’intricata trama delle relazioni di classe, di razza e soprattutto di genere. Sebbene molto focalizzati sulla questione delle identità, tuttavia questi primi progetti rivelano già i tratti di quello che sarà, successivamente, l’interesse di Henriques per il tipo di relazionalità che tiene insieme le mutate possibilità occorse sul piano materiale delle tecniche di manipolazioni dei suoni (e delle immagini) e le possibilità di analisi nello studio della cultura in relazione alla politica delle identità.
Gli anni Novanta sono infatti quelli che vedono emergere, nelle tecnologie del suono, tutto un ventaglio di possibilità di manipolazione dello stesso che portano in primo piano le caratteristiche materiali del tessuto sonoro (si pensi agli sviluppi della tecnica del cut ‘n’ mix, certo, ma anche a quel lavoro sulla trama sonora già iniziato negli anni Settanta proprio dal dub giamaicano), rendendo più difficile assegnare un dato suono ad una data identità sociale. Queste stesse possibilità, dunque, insidiano la rappresentazione della razza, così come del genere. Allo stesso modo, infatti, questi sono gli anni in cui il concetto stesso dell’identità è scalzato dall’attenzione alle sue sfumature molteplici attraverso la categoria dell’etnicità, ma anche da una rinnovata attenzione per una dimensione culturale fortemente influenzata dalle dinamiche dell’informazione, che resiste ad una analisi come quella che Hebdige aveva brillantemente testato in Sottocultura.
Come già anticipavano i corpi suggestivi della foto di Steele-Perkins, ascoltare non è mai scisso dal sentire, cioè dal percepire il suono con il corpo – in particolare quando si tratta di un sound system. Nel suo recente percorso teorico, Henriques contribuisce in maniera assolutamente innovativa a raccontarci di questa seconda dimensione, legata proprio alle dinamiche fisiche del basso. Ed è a questo sviluppo che dedicheremo lo spazio che resta di questo articolo, attraversando la teoria del “dominio sonoro” – la sonic dominance – e i contenuti dell’originalissimo Sonic Bodies, corposo volume pubblicato appena pochi mesi fa.
La teoria del “dominio sonoro” indica “l’enorme forza fisica del suono: il suo volume, il suo peso e la sua massa, che sono estremi ed eccessivi […] ma, allo stesso tempo, anche morbidi e capaci di avvolgere come in un abbraccio, dando vita ad un’esperienza d’immersione assai intensa” (Henriques, 2006, T.d.A.). L’idea di un “dominio sonoro” rimanda al dominio della componente visuale – il potere dello sguardo e dell’occhio – nella cultura occidentale moderna, rievocandone anche il drammatico ruolo nelle vicende del potere coloniale. A questo dominio, Henriques affianca, in relazione critica, quello sonoro. Lo scopo non è, come potrebbe sembrare, quello di voler sostituire la dittatura di un senso (l’orecchio) a quella di un altro (l’occhio, appunto); si tratta, piuttosto, del tentativo di complicare la pretesa di dominio dell’altro e dell’altra, implicata nel potere di fissazione dello sguardo, attraverso la logica relazionale – di eco, rimandi, risonanze, così centrale nel carattere antifonico delle culture dell’Atlantico nero – evocata dalle possibilità del senso dell’udito.
Ancora più precisamente, prendendo spunto per questa intuizione teorica proprio dall’esperienza vissuta dell’esposizione al suono potente delle torri di amplificatori dei sound systems, in cui il suono è vibrazione, danza, contatto, il concetto di “dominio sonoro” è anche il tentativo di Henriques di proporre una scatola degli attrezzi concettuale capace di evocare quel tipo di esperienza viscerale multisensoriale che è tradizionalmente associata ai sound systems e che è anche, e sempre più, caratteristica peculiare della cultura dei nuovi media contemporanei. Si tratta di un’esperienza legata a flussi energetici che è assolutamente materiale, come è materiale la pressione esercitata sul corpo dalla forza magnetica del suono in una “session” (un evento) legato ai sound systems. In questo senso, il “dominio sonoro” di Henriques sembra proporsi come l’esempio concreto dell’avverarsi della profezia del teorico dei media Marshall McLuhan, sostenitore, negli anni Sessanta, del passaggio progressivo da uno spazio lineare e quantitativo di tipo “visuale” ad uno spazio intensivo di tipo “acustico”, corrispondente ad un appiattimento delle gerarchie sensoriali e capace di dischiudere un’altra logica che è dei corpi, dei loro movimenti, delle loro sensazioni e dei loro affetti.
In Sonic Bodies questa spinta concettuale è portata ancora oltre. Qui il suono dei sound systems è slegato dalla musica e considerato come un modello di analisi in sé dal punto di vista del suo essere un fenomeno fisico, cioè il movimento periodico di una vibrazione attraverso un medium. Questo fenomeno fisico è trattato, nel testo, lungo tre scale di analisi: il livello “meccanico” (il processo della propagazione di un’onda sonora); il livello “pratico” (questo processo in quanto base di tecniche sonore tipiche di una cultura come quella giamaicana); il livello “teorico” (in cui il suono è usato per porre domande di più ampio raggio sul rapporto fra percezione, corpo e conoscenza nella cultura dei media contemporanei). A ciascuna scala di vibrazione corrisponde, nella terminologia del libro, una “banda sonora”. La prima, definita “materiale”, è appunto quella legata al suono come fenomeno che si propaga attraverso il medium dell’aria, che è esplorata attraverso lo strumento usato per produrlo (il sound system stesso, ovvero il set) e il lavoro dell’ingegnere del suono, cioè quel membro della crew (dello “staff”, potremmo dire) di un sound system che si occupa di settare il set. La seconda banda sonora, quella “corporea”, è legata allo stretto rapporto che tiene insieme la crew e la crowd (il pubblico danzante), i quali si influenzano ed orientano l’un altro in un rapporto di retroazione continuo che prosegue per l’intera durata dell’evento musicale. La terza banda è quella “socioculturale”, in cui le vibrazioni sonore prendono il nome – tratto dal gergo del sound system – di vibes, che sta ad indicare la serie di significati sociali assunti da un particolare suono in un particolare momento.
La strettissima triangolazione concettuale fra queste dimensioni – graficamente rappresentata dai molti diagrammi contenuti nel libro – è il modo che Henriques inventa per presentare il livello delle trasformazioni materiali, delle pratiche performative e dei significati sociali come un unico piano, in cui lo studio dell’uno non contraddice lo studio dell’altro, ma vi si lega anzi in maniera imprescindibile. Di questa base concettuale tridimensionale, ciascun capitolo del testo ingrandisce una dimensione.
Quello che viene fuori da questo interessantissimo studio, le cui implicazioni sull’analisi dei fenomeni culturali nell’età dei nuovi media non può essere riassunta qui, è certamente un ritrovato senso di vitalità nello studio tanto del suono in generale quanto del sound system nello specifico. La storia della lunga attrazione fra Henriques e le discoteche mobili, infatti, ci aiuta ad esplorare tanto la dimensione più nota – quella macro-politica, performativa e in un certo qual modo ‘militante’ – dei sound systems, ma aggiunge a questo piano anche un più originale contributo che guarda più da vicino alle questioni più attuali legate al ruolo del corpo e degli affetti nelle culture contemporanee. La scelta del suono come metodo, poi, è un gesto concettuale in cui Henriques pone leggerezza e rigore in pari misura, con grandissima delicatezza: l’accurato e scrupoloso studio delle dinamiche sonore non mortifica mai la dimensione più immediata e politicamente “aperta” del suono – ovvero la sua capacità di raggiungere e colpire tutti e tutte indistintamente. In questa fusione tra il piano della speculazione e quello del piacere corporeo – mai in contraddizione, ma in relazione – è la sfida e la bellezza del suo lavoro.
ASCOLTI
— Johnson Linton Kwesi, Bass Culture, Island, 1995.
— Marley Bob and the Wailers, Trenchtown Rock in African Herbsman, Sanctuary, 2003.
LETTURE
— Bradley Lloyd, Bass Culture. La musica dalla Giamaica: ska, rock steady, roots reggae, dub e dancehall, Shake, Milano, 2008.
— Deleuze Gilles, Spinoza. Filosofia pratica, 1970, Guerini e Associati, Milano, 1998.
— Eshun Kodwo, Abducted by Audio, 1998, http://virtualfutures.co.uk/archive/papers/abducted-by-audio/, 19/03/2012.
— Ferrara Beatrice, Un’immersione nel corpo del suono. Intervista a Julian Henriques in Il Manifesto, in corso di pubblicazione.
— Gilroy Paul, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Roma, 2003.
— Gilroy Paul, Between the Blues and the Blues Dance, in Bull, Michael e Back, Les (a cura di), The Auditory Culture Reader, Berg, Oxford e New York, 2006.
— Hebdige Dick, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa&Nolan, Genova, 2008.
— Hebdige Dick, Cut ‘n’ Mix. Culture, Identity and Caribbean Music, Methuen, London, 1987.
— Henriques Julian, Sonic Dominance and the Reggae Sound System Session in Bull, Michael e Back, Les (a cura di), The Auditory Culture Reader, Berg, Oxford & New York, 2006.
— Henriques Julian, Sound Bodies. Reggae Sound Systems, Performance Techniques, and Ways of Knowing, Continuum, London e New York, 2011.
— Massumi Brian, Parables for the Virtual. Movement, Affect, Sensation, Duke, Durham NC, 2002.
— Spinoza Baruch, Etica (dimostrata alla maniera geometrica), Bompiani, Milano, 2007.
— Veal Michael, Dub. Soundscapes and Shattered Songs in Jamaican Reggae, Wesleyan University Press, Middletown CN, 2007.
VISIONI
— Henriques Julian, We the Ragamuffin, Channel Four.