LETTURE / TEORIA DELL'ORRORE. TUTTI GLI SCRITTI CRITICI


di Howard Phillips Lovecraft / Bietti, Milano, 2011 / pagine 556, € 24,00


Fenomenologo dell'orrore cosmico

di Adolfo Fattori


“Il più antico e intenso sentimento umano è la paura, e il genere di paura più antico e potente è il terrore dell’ignoto.”

Questo l’incipit, fulminante, di uno degli scritti più famosi sulla narrativa dell’orrore – scritto fatidicamente da uno dei suoi maestri assoluti, Howard Phillips Lovecraft, “il solitario di Providence”: L’orrore sovrannaturale nella letteratura.

Il saggio, in una nuova traduzione di Massimo Berruti e Claudio De Nardi, è contenuto nel volume curato da Gianfranco de Turris che raccoglie tutti gli scritti saggistici dello scrittore, e si aggiunge a quello tradotto da Alda Carrer nel 1973, pubblicato dalla SugarCo. Una dichiarazione che in due frasi sintetiche e referenziali dispiega, in pratica, l’intera poetica di Lovecraft, definendone il nucleo fondativo. È a partire da questa constatazione, puramente referenziale, che il maestro dell’orrore in letteratura costruirà le sue cosmogonie deliranti e perfette, affascinanti e spaventose insieme.

Il tono autorevole, definitivo, dell’affermazione dello scrittore di Providence è più che legittimo: è uno degli indiscussi pilastri della narrativa di cui scrive, e – a dispetto di quanto potrebbe pensare chi ha letto solo i suoi racconti – è il tono dello studioso. Uno studioso che “applica il metodo scientifico”, per citare Max Weber, fra l’altro, visti il suo positivismo e il suo materialismo radicali, come possiamo leggere nei primi interventi raccolti in Teoria dell’orrore, dedicati alla polemica con coloro che avversavano i suoi punti di vista laici (pp. 75-143).

Potrebbe sembrare paradossale, che un così meticoloso e generoso creatore di inferni immaginari e di mostruosità occulte sia stato un convinto materialista, ma forse è proprio in questo la forza delle sue architetture fantastiche: alla conoscenza del materiale su cui lavorava (si veda Sulle fate, pp. 171 e segg., o Osservazioni sulla narrativa fantastica, pp. 197 e segg.), poté unire il distacco che deriva dalla mancanza di remore per i temi affrontati: l’universo del sacro – che non sempre è benevolo e rassicurante. Anzi, può essere maligno e allucinante. Ed è questa la declinazione del soprannaturale che Lovecraft sceglie di esplorare. Ribadendo in tutte le occasioni possibili che si tratta di territori dell’immaginazione. Di disegnare le immaginarie “mappe dell’inferno” che emergono dalle oscure profondità dell’inconscio (Lovecraft conosceva i lavori di Sigmund Freud, fra l’altro, come conosceva – e condivideva – le teorie di Charles Darwin…)

E quindi lo scrittore americano per prima cosa “storicizza” e relativizza la sfera del sacro – quindi del soprannaturale – ragionando quasi da antropologo, e attribuendo a “… un certo stadio di sviluppo primitivo” degli uomini (2011, p. 120) l’illusione dell’esistenza di Dio e poi quella dell’immortalità. Addirittura – e sembra di leggere un testo di sociologia della conoscenza di approccio fenomenologico: “Sarebbe impossibile non cadere nell’animismo da parte di qualsiasi mentalità ignorante che abbia dimestichezza coi sogni, e la nozione d’immortalità costituisce il passo successivo, una volta ammessa una duplice esistenza. Il selvaggio, per quanto rammenta, ha sempre vissuto: di conseguenza non sa immaginarsi una condizione di non esistenza.” (cit., p. 121, corsivo nostro). È a partire dall’esperienza concreta, dalle percezioni, che costruiamo il mondo e cerchiamo di spiegarlo, di dare nomi alle cose. E di costruire universi simbolici (Berger, Luckmann, 1969).

Il che significa – proseguendo noi nel ragionamento – che se gli uomini costruiscono narrazioni che spieghino il mondo, fino ad articolare le complesse cosmogonie che conosciamo dalla storia delle religioni, queste non si rendano disponibili per diventare la sostanza del racconto contemporaneo – pur sapendo che si tratta di prodotti dell’immaginazione applicata alla creazione artistica.

Ecco, qui HPL recupera la dimensione romantica – che in fondo è un’altra delle facce della modernità ottocentesca, parallela al meccanicismo positivista: rivendica lo statuto dell’autore auratico, estraneo al mercato, che scrive per il piacere di scrivere ciò che sente, e non per un qualsiasi pubblico (cfr, ad es., p. 134). È, insomma, un po’ al di fuori del tempo, al centro di una contraddizione – condivisa peraltro da molti degli intellettuali che furono presi nella tenaglia del lavoro intellettuale che diventa professione, per citare ancora Weber (1976)… È il discendente diretto di Edgar Allan Poe, e un ammiratore di Oscar Wilde e di Charles Baudelaire… tutti intellettuali che si confrontano con l’epoca della “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte (Benjamin, 1966). E oltre a cercare di definire se stesso, prova a classificare le opere di narrativa dividendole in tre categorie: “romantiche”, “realistiche” e “d’immaginazione” (ivi, pp. 77-78). Se la prima categoria punta ad emozionare e la seconda a mostrare “…le cose così come sono”, e tutte e due “… hanno il pregio di occuparsi quasi esclusivamente del mondo oggettivo”, le opere d’immaginazione sono le uniche a occuparsi di ciò che le cose evocano. Ed è in questo spazio che Lovecraft colloca il suo lavoro: scrivere di eventi, situazioni, personaggi, presenze che producono “meraviglia” nel lettore. E scrivere esclusivamente per il proprio piacere (ivi, pp. 101-102). E questo spiega l’apparente contraddizione fra il suo monolitico razionalismo e l’orgia di soprannaturale che propone ai suoi lettori…

In realtà, se si segue il ragionamento complessivo che lo scrittore conduce attraverso i vari articoli e saggi di cui è fatta la raccolta – la sua teoria dell’orrore narrativo – ci si rende conto che Lovecraft non si contraddice affatto: intanto, perché, in termini generali, un narratore non deve “credere” all’universo narrativo di cui scrive (come lui stesso sottolinea); ancora – e lui stesso ci permette di ragionare in questo senso, visto che dedica un saggio alla “narrativa interplanetaria” (ivi, pp. 313 e segg.), che altro non è che la science fiction – se decidiamo, come premessa implicita, che gli universi e gli esseri blasfemi e innominabili di cui scrive sono contigui al nostro, ma non trascendenti, non c’è più bisogno di evocare il sacro per accettarli come verosimili: sono i mondi e i loro abitanti cui noi, uomini della Terra, abbiamo attribuito nei millenni passati la natura del soprannaturale e del sacro, ispirandoci ai nostri incubi, alle nostre ossessioni, alla nostra follia. Prima, nelle comunità arcaiche, accogliendoli nei nostri rituali sacri, poi, nella modernità, facendone le figure con cui metaforizziamo le nostre pulsioni e paure più profonde, per poi sistematizzare il tutto nel lungo saggio – un caposaldo, per gli studiosi dell’immaginario, su L’orrore soprannaturale nella letteratura. Non solo: in due articoli successivi, Note su come scrivere racconti fantastici (pp. 189 e segg.) e Osservazioni sulla narrativa fantastica (pp. 197 e segg.), il “solitario di Providence fornisce una sorta di prontuario – sintetico ma sistematico e ineccepibile – del racconto dell’orrore. E, in pratica, sembra quasi che stia scrivendo un piccolo manuale di sceneggiatura. Il che conduce a diverse considerazioni.

Intanto, alla circostanza che la pratica del cinema in quegli anni diventa una scuola per chi voglia scrivere narrativa: la necessità produttiva di questo di operare come industria conduce allo sviluppo di strategie che permettano di ottimizzare il lavoro di ideazione e produzione, a partire dalla scrittura; poi, che questo lavorìo si espande rapidamente al di fuori del mondo del cinema, tanto da rivelarsi in circolo virtuoso in cui la letteratura rimedierà l’immagine in movimento laddove il cinema aveva già tratto ampia ispirazione, sin dalla sua nascita, dalla narrativa scritta; ancora, che Lovecraft – ben lungi dal rifiutare, pur ribadendo la sua piena libertà creativa, le grammatiche della narrazione – se ne impadronisce e le usa, ben sapendo di essere all’interno di un sistema di produzione/consumo che è ormai industria culturale di massa. E, ben consapevole delle leggi che governano l’immaginazione narrativa, può dare libero sfogo alle sue allucinazioni – che scrive a volte provenirgli dai suoi sogni – e regalarci dei veri e propri capolavori dell’orrore che, contrariamente all’ironica modestia con cui ne scrive, continuano ad affascinare ben più che un paio di lettori.

 


 

LETTURE

× Benjamin W., Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1934, trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966.

× Berger P. L., Luckmann T., The Social Construction of Reality, 1966, trad. it. La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1969.

× Lovecraft H. P., Opere complete, SugarCo, Milano, 1973.

× Weber M., Politik als Beruf, Wissenschaft als Beruf, trad. it. Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1973.