ASCOLTI / GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR


Concerto Sala Apolo, Barcellona, 29 gennaio 2011


L'Apocalisse, finché siamo vivi,
non avrà mai fine

di Livio Santoro


Quattro album (1994, 1997/1998, 2000, 2002), un Ep (1999) e una collaborazione con i Fly Pan Am (1998) tra il 1994 e il 2002 e poi molto silenzio. Fino al ritorno tra il 2010 e l’inizio del 2011, a riprendere confidenza con i palchi d’America e d’Europa. Godspeed You! Black Emperor, monaci di una nera devozione, silenziosi cantori dell’apocalisse. Tra il 2003 e il 2010, in questi sette anni di diaspora dei nove (tanti sono i componenti dell’attuale line-up) e più membri del gruppo canadese, nascono e si consolidano progetti paralleli, su tutti la Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra. Apocalittici nell’uno come nell’altro caso, i musicisti di Montreal sono sempre d’accordo con se stessi su un punto: le parole servono a poco, al limite possono introdurre, ma per dimostrare l’essenza cancerosa del capitalismo e delle propaggini più cupe del nuovo imperialismo (che poi nient’altro rappresenterebbero che l’essenza marcescibile dell’uomo contemporaneo nella sua più intima disposizione) bastano le note e gli strumenti.

Ci si deve umanamente gestire ascoltando i lunghi brani della setta canadese dei Godspeed You!, ci si deve destreggiare tra le note di una pura solitudine e quelle di un annichilimento onnicentrico; come se si cominciasse a camminare in un’alba di fuliggine, al margine di qualche periferia fredda del Nord industriale, per arrivare, quando s’è fatto crepuscolo, fino al centro di una città infuocata da una risacca nucleare che fagocita l’altezza dei palazzi nel suo ultimo, torbido abbraccio. È una costante apocalisse urbana, quella dei Godspeed You!, forse perché è nell’immagine cittadina che si condensa per coalescenza l’essenza del sudicio. È un’apocalisse che si ripete in ogni istante toccando le corde dello stomaco fino a salire in un urlo che non potendo uscire, perché attorno non c’è che vuoto sidereo, si rompe in gola, salvo poi ritornare frammentato nei visceri dell’anima. Agli ascoltatori, i Godspeed You! richiedono quella pazienza che non trova albergo nella vita del nostro quotidiano cittadino: attendersi nelle rifrazioni tonali di un violino senza provare ad avere consolazione; affogarsi nella dimensione fluida di un arpeggio crudele con se stesso; straziarsi nella luminescenza di un crescendo che sottrae, più che aggiungere, che vive della negazione.

Non c’è esclusivo bisogno del fracasso per aderire alla classica discordia del noise, e non c’è nemmeno esclusivo bisogno della dissonanza costante del post rock, se entrambi gli elementi restano sottilmente alla base dell’armonico, facendosi concetto oltre che flusso di suoni e di rumori. Quando questo avviene, allora, ti è impedito di ripiegare sullo strazio, sul motivo del terribile e sull’idiosincratico senso dell’umano contemporaneo alle prese con il mondo. Come a dire che adesso è così, punto e basta, ci piaccia o meno. Tanto vale cantare le requie di questo mondo urbano.

Perché se da quella periferia fredda e fuligginosa si sale verso la vertigine della city che arde di se stessa, nulla toglie che si possa continuare a camminare in solitaria, a ritroso tra le macerie, sotto una pioggia post-apocalittica di coriandoli neri, aderendo di continuo alla mascherata che ci ha portato a vivere in quegli spazi indecenti che sono le nostre città, le periferie, che sono le nostre industrie, i nostri ascensori, le soprelevate tangenziali di colonne cementate, i giardini pensili di un vetro che riluce nella foschia, le strade guardate a testa bassa nel loro fondo bituminoso, gli svincoli addobbati di grigio, i carri che recitano la loro processione carnascialesca ricolmi di gente sudata nonostante il freddo. Gasolio, bandiere lacere che sventolano nel fumo, raffiche e pale di elicotteri, riverberi lasciati e abbandonati nella lontananza. Un fossile carnevale a cui mancano i colori.

E non ci sono né l’estate né l’autunno, nelle note dei Godspeed You!, nessuno spazio per le stagioni, per il riformarsi delle cose, per la rinascita primaverile e per la morte temporanea dell’inverno. È tutto fermo nell’attimo: il tempo scorre solo cambiando angolatura a partire dallo stesso istante. È così che ci si ritrova a percorrere gli stessi svincoli, a seguire le stesse processioni, ad assistere agli stessi schianti.

La città è un labirinto: non in quanto luogo tentacolare, ma in quanto luogo in cui vivono esseri testardi, assuefatti al loro stesso autismo. E come il labirinto dei melanconici (Rella, 1984) questa città ha migliaia di uscite. Tuttavia ognuna di esse, in naturale contraddizione con il suo semplice nome, porta di nuovo dentro la città. Ogni uscita si protende nei suoi stessi visceri, di nuovo da quelle periferie fuligginose fin dentro la city che avvampa del colore del crepuscolo. E poi ancora una volta a ritrovare il limite esterno, che inderogabilmente riporta il viaggiatore dentro, a misurarsi con la sua stessa solitudine.

Tutto vive in un’enorme contraddizione, a girare per questa città con migliaia di uscite cieche, al modo di orfani originariamente tali, ossia orfani prima ancora del proprio concepimento, come figli di una solitudine di fondamento. L’uomo, quell’uomo, quell’inconsistente viaggiatore urbano per cui i Godspeed You! suonano la loro serenata (che è contemporaneamente requiem), è esattamente così. Vive dell’apocalisse che non finisce, vive in una città fatta prima di un gotico suburbio, e poi di un fiammeggiante centro, e poi ancora dello stesso suburbio umbratile, e così all’infinito, fino a che i luoghi si confondono, e il centro si fa periferia e viceversa. E le fiamme è come se ardessero di metanolo, invisibili. Perché le narrazioni dei nove musicisti di Montreal sono racconti che salgono e che scendono sulle stesse note, che si danno al crescendo salvo poi accomodarsi nuovamente nel trionfalismo del silenzio, e poi ancora a salire, verso quei palazzi fiammeggianti, verso quel fuoco senza sostanza. A seguire con monastica costanza le processioni di un carnevale senza scherzi, in cui tutto è esattamente come sembra. Tutto disgraziatamente presente a noi stessi, tanto presente da essere invisibile, come le fiamme del metanolo che ardono, pur senza esposizione.

 


 

ASCOLTI

× Godspeed You! Black Emperor, All Lights Fucked on the Hairy Amp Drooling, (Mc), autoproduzione, 1994.

× Godspeed You! Black Emperor, f#a#∞, Constellation Records (2 Lp)/Kranky (3 Cd), 1997/1998.

× Godspeed You! Black Emperor, Slow Riot for New Zerø Kanada, Constellation Records (Ep), 1999.

× Godspeed You! Black Emperor, Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven, Constellation Records, 2000.

× Godspeed You! Black Emperor, Yanqui U.X.O., Constellation Records, 2002.

× Godspeed You! Black Emperor & Fly Pan Am, aMAZEine, Constellation Records (Split Album), 1998.

 

LETTURE

× Rella F., Metamorfosi. Immagini del pensiero, Feltrinelli, Milano, 1984.