LETTURE / DALLA TRAMA AL PERSONAGGIO
di Giovanni de Leva / Liguori, Napoli, 2010 / pagine 132, € 15,50
Filippo Rubè,
o il protagonista via negationis
di Livio Santoro
Friedrich Nietzsche affermava, già alla fine dell’Ottocento, che uno dei difetti dell’uomo moderno consiste nell’ipertrofia del senso storico, e nella sua conseguente incapacità nella remissione del peccato della scienza: ridurre l’uomo esclusivamente a essere storico e successivamente ridurre la storia ad ancella dello spirito scientifico, sono due processi che hanno ingenerato una serie di fallimenti che, a dire del filosofo di Röcken hanno portato fino all’insostenibile sublimazione dell’epigonismo di un’epoca estesa. Ecco, l’uomo moderno, quello a cui guardava Nietzsche (soprattutto nella sua Germania invigliacchita) subiva con troppa subordinazione il fascino di una visione teleologica che andava secolarizzandosi acquisendo tuttavia nella scienza gli stessi tratti propri dello spirito religioso: la tensione verso il fine, speculare correlato del simulacro dell’origine. L’uomo troppo storico si sente così epigono,
frutto tardivo di uno sviluppo necessitante che non può portargli altro che un’autoinvestitura ontologica superlativa: essere depositario del giusto, dell’oggettivo, del vero.
Ne consegue, semplificando forse troppo questo discorso, una contrapposizione aspra tra due diverse versioni ontologiche dell’uomo, del soggetto. Proprio al margine di queste due versioni (quella nietzscheana e quella teleologico-finalistica dell’ipertrofia del senso storico) se ne sviluppa una terza, quella che sarà la più classica formulazione della modernità, come si suole dire per racchiudere in un’unica parola un oggetto storico dal profilo spesso troppo opaco. Seguendo una certa idea della storia, diciamo qui, questa terza versione della soggettività vien fuori qualche decennio più tardi rispetto alle formulazioni di Nietzsche, formulazioni
inattuali, a detta del filosofo stesso.
Ma si vada con ordine.
Nietzsche, come detto, individua nell’ipertrofia del senso storico il male dell’uomo a lui contemporaneo, un male che sopravvivrà, suo malgrado, alla morte dello stesso Nietzsche. Questa ipertrofia riguarda i tre modi di pensare la storia, i tre tipi del senso storico: la storia monumentale, quella antiquaria e quella critica. Non bisogna peccare nell’uno o nell’altro senso, sostiene Nietzsche, né assolutizzare uno dei tre modi a discapito degli altri, pena la caduta nell’errore già discusso dell’ipertrofia. Si prenda il primo dei tre tipi di senso storico descritti da Nietzsche, quello adatto a colui che pensa “che la grandezza, la quale un giorno esistette, fu comunque una volta possibile, e perciò anche sarà possibile un’altra volta; egli percorre più coraggiosamente la sua strada, poiché ora il dubbio che lo assale nelle ore di debolezza, di volere forse l’impossibile, è spazzato via” (Nietzsche, 2001, p. 19). È lo spirito di un certo fiacco vitalismo della prassi, si direbbe. Un vitalismo della prassi che si avvizzisce su se stesso, non riconoscendo la sua inattualità, affannandosi a rivolgere il proprio sguardo alle meraviglie del passato provando inutilmente a renderle ancora attuali. Coloro che peccano di monumentalismo, in sostanza, “agiscono in ogni caso come se il loro motto fosse: lasciate che i morti seppelliscano i vivi” (ibidem, p. 23). In questo senso, la prima versione della soggettività, quella teleologico-finalistica, assume le sembianze di una bizzarra escatologia incompiuta, correlato speculare di quell’epigonismo di cui sopra s’è detto.
Si resti dunque su questo modo d’intendere il soggetto, e ci si trasferisca altrove, in quel passaggio che la letteratura moderna, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, ha sopportato nella ridefinizione dei suoi stilemi, del suo impianto narrativo e del ritratto del suo eroe. In questo passaggio, seguendo quanto proposto da Giovanni de Leva, nel suo recente Dalla trama al personaggio, si prenda come caratteristica la figura di un eroe non troppo eroico della nostra letteratura, Rubé, di Giuseppe Antonio Borgese (1994). Filippo Rubé, protagonista di un romanzo additato come puro esercizio di stile, frutto della penna di un critico di mestiere, racchiude invece, secondo de Leva, la storia di un soggetto che segue le vicende interne della letteratura europea moderna, nella frattura che corrisponde alla fine della tradizione del romanzo di formazione (Buildungsroman), in cui fino alla fine dell’Ottocento si sono cimentati numerosi personaggi. Già l’inizio del romanzo, con la dichiarazione del modello napoleonico nella costruzione del personaggio di Filippo Rubé, serve a Borgese per definire il classico stilema del romanzo di formazione, stilema a cui il Rubé personaggio, stando alle parole di de Leva, non riuscirà mai ad adeguarsi. È infatti una narrazione sempre votata alla promozione del suo protagonista, quella del romanzo di Borgese, una narrazione in cui ogni evento serve all’autore, e secondariamente al personaggio, per definire l’impraticabilità della vecchia trama della formazione. E al vuoto lasciato da questa trama, subentra un elemento qualitativamente del tutto differente: il personaggio. Se, infatti, il romanzo di formazione dell’Ottocento vuole definire un percorso utile a strutturare un certo profilo, quindi utilizzare la trama per definire un personaggio che dalla trama è inevitabilmente soggiogato, Rubé di Borgese vuole offuscare la trama, oramai inadeguato parametro nella definizione della narrazione, per offrire la massima centralità possibile al profilo del personaggio, ossia di quel protagonista irrequieto che esce costantemente dalla trama di formazione.
Ecco, il fatto che Borgese intenda definire questa fuoriuscita, de Leva lo caratterizza fin da subito, sottolineando come il punto di partenza da cui si muove Filippo Rubé è lo stesso da cui si muovono i più canonici protagonisti del Buildungsroman: l’aspirazione al modello biografico napoleonico, in cui il giovane borghese si riferisce ad un passato monumentale, è infatti il più classico dei temi narrativi ottocenteschi. Tema che Rubé, come altri personaggi più famosi – su tutti l’Ulrich di Robert Musil (1996) e lo Zeno di Italo Svevo (1992) –, mostra nella sua chiara inattualità rispetto al primo Novecento. “Figlio di un modello narrativo e d’un genere letterario appartenenti entrambi all’Ottocento, Rubé sembra trovare il proprio epilogo nell’orizzonte modernista” (p. 18). Nient’altro che il palese dissolversi del modello monumentale della storia nietzscheana, diciamo noi. O anche nient’altro che il dissolversi di una sorta di darwinismo sociale che ipostatizza nel modello naturalista della scienza il suo ultimo passaggio. In questo modo si chiarisce il perché della nostra introduzione. Leggere le tappe fallite da Rubé rispetto alla trama del Buildungsroman attraverso un fallimento biografico del modello monumentale nel suo rivolgimento alla storia, attraverso, cioè, l’inadeguatezza delle sue funzioni, in un’attualità successiva di cinquant’anni, a quell’inattualità descritta da Friedrich Nietzsche.
Segue un rinnovato dibattito sulla natura della soggettività, tanto nella letteratura e nella definizione della trama, quanto nel mutamento paradigmatico delle scienze sociali in generale; quando a quel dissolvimento proprio dell’orizzonte della storia corrispondono altre e nuove apparizioni, altri compromessi disciplinari in cui si aprono palcoscenici nuovi, il cui assito deve essere percorso da soggetti altrettanto nuovi. È, in buona sostanza, quella recita a cui hanno partecipato, in qualità di sceneggiatori, autori come Sigmund Freud con il suo inconscio (1976) e la psicanalisi, Kurt Lewin con la sua strutturazione del campo (1965, 1972) e la psicologia della Gestalt, Edmund Husserl con la sua coscienza e la fenomenologia dell’intenzionalità (2005), per dirne solo tre. Tutti casi in cui si affaccia una versione nuova del soggetto: un soggetto che, come il protagonista del romanzo di Borgese, sembra volersi dimostrare inadeguato a una vecchia trama, quella che lo aveva fino ad allora visto come partecipe di un progetto naturalista (seppure in Freud la questione pare problematica, cfr. Binswanger, 1973a; 1973b), darwiniano, escatologico e necessitante, a cui in nessun modo, fino a poco tempo prima, sembrava ci si potesse sottrarre.
Ecco, si prenda la trama del romanzo ottocentesco, e la si giustapponga alla trama di una Weltanschauung naturalistica ed oggettivista, in cui il soggetto non ha che da adeguarsi alle disposizioni superne che gli provengono da un ordine a cui egli appartiene come parte inconsapevole di un tutto anonimo. Allo stesso modo si prenda la costituzione soggettiva del protagonista della modernità, e la si giustapponga al ritratto del personaggio che tenta in tutti i modi di evadere dalla sua vecchia trama. Le due coppie di profili, a ben vedere, sembrano chiaramente coincidere tra loro. In questo agone moderno si sviluppa il terzo tipo di soggettività sopra accennato, quello che, nel dubbio tra la versione nitzscheana e la versione teleologico-finalistica del naturalismo e del darwinismo sociale, parla attraverso la cifra della coscienza (o dell’autoriflessività, per utilizzare un termine sociologicamente imbarazzante). Questo soggetto è, in sostanza, il personaggio che si fa attraversare di netto dai confini interni della modernità, ossia, ancora, colui che questi stessi confini è portato a definirli. Ma l’aspetto coscienziale del soggetto, proprio operando a cavallo di differenti blocchi paradigmatici, subisce un’osmosi duplice: dall’una e dall’altra parte. Nella storia della scienza che ne fonda i confini, e nella storia della narrazione che stiamo qui seguendo. È forse questo il motivo per cui Filippo Rubè, precursore non ancora maturo di un nuovo protagonismo del soggetto, vive in un mondo che il suo autore ha provato a definire ossessivamente attraverso una narrazione via negationis, dove le note paesaggistiche dell’orizzonte stridono spesso con l’esperito del protagonista, e dove il ricorso all’espressione sottrattiva del senza (e di altre simili espressioni negative) è una costante narrativa. Si prendano questi pochi esempi tratti dal romanzo di Borgese (1994):
“Volse il viso dall’altra parte pur trattenendo il polso tepido della donna, e pianse senza rumore” (ibidem, p. 49).
“Guardò di soppiatto quelle labbra senza rilievo” (ibidem, p. 56).
“Impassibile in vista, si torceva come sotto la violenza d’una iniquità senza nome” (ibidem).
“La pace e la guerra erano ugualmente remote, indifferenti come la vita e la morte in certe beatitudini preagoniche senz’attaccamento né speranza” (ibidem, p. 71).
“Egli marciava oramai nel mezzo della strada […], sull’orlo della battaglia nascosta ch’era senza fanfare e senza bandiere” (ibidem, p. 78).
“Gli pareva che quella civiltà avesse raggiunto una delineazione geometrica, senza ombre e sfumature, senza residui di dubbio e di dolore” (ibidem, p. 150).
“Pregò senza credere in Dio” (ibidem, p. 163).
“Poi di nuovo in marcia, senza rumore […]. Sì, così era stata la grande guerra senza né sole né bandiere, senza canti, se non era un canto l’ululo osceno di quel briaco alla cantonata; in certo modo si poteva perfino dire senza suono di combattimento” (ibidem, pp. 184-185).
“Sicché non gli restò per distrarsi che assistere alla toeletta di Eugenia […]; senza rughe, senza gioielli, senza sorriso” (ibidem, p. 203).
“E lui, piangendo senza lacrime, e senza inseguirla […]” (ibidem, p. 278).
“Ma lui non guardava né l’acqua né i monti” (ibidem, p. 279).
“Il viaggiatore sconosciuto […] aveva accanto una cartella di cuoio nero e non l’apriva; aveva tre o quattro giornali e non li leggeva; dalle due tasche della giacca sporgevano alcuni incartamenti e non li cavava mai fuori” (ibidem, p. 367).
È dunque come se Borgese, nel dipingere la trama all’interno della quale si muove il personaggio, avesse voluto aspergere la narrazione di una sostanza dichiaratamente amorfa, che trova la sua intima ragione nel gioco della sottrazione. Come se i pezzi del mondo in cui Filippo Rubè sarebbe dovuto crescere, crollassero volta a volta, non lasciando altro che un vuoto paesaggistico ed esistenziale a cui il personaggio, spaesato giovanotto costruito per un destino monumentale, non riesce in alcun modo ad adeguarsi. Infatti, come sostiene de Leva, ogni occasione che la trama offre a Rubè per adempiere al suo destino di epigono del romanzo ottocentesco, sfugge liquefacendosi nel vortice modernista della frammentazione, in cui è compito del soggetto costruire la trama, vedere il mondo, esperirlo e averne una cognizione. Non più subirlo assoggettato dalla trama. E ognuna delle possibilità che canonicamente definiscono le tappe del romanzo di formazione ottocentesco, si perdono nelle spire riflessive di un protagonista apolide: la città, la professione, la donna, la guerra, la politica. Tutti elementi attorno a cui potrebbe svilupparsi una trama monumentale, ma tutti elementi obsoleti, incapaci di far raggiungere al personaggio il suo canonico destino. E il gioco di Borgese, come sottolinea de Leva, sta proprio nell’evidenziare questa incapacità attraverso l’utilizzo di una trama senza un’unica missione narrativa, una trama staminale e per questo stesso motivo ancora incompiuta. “Rubè […] una volta concluso il proprio romanzo di formazione passa attraverso il melodramma, il racconto poliziesco, la confessione e il romanzo familiare senza potersi mai risolvere in alcuno di questi” (p. 71).
Rubè non solo come protagonista di un romanzo, ma come protagonista della letteratura: soggetto incoerente fatto di negazione e di disposizioni sottrattive. Rubè, diciamo noi, come protagonista di un’epoca, come un soggetto heideggerianamente gettato (Heidegger, 1971, p. 178), spaesato di fronte alla diffusione delle sue possibilità e angosciato dall’incapacità di rivivere il passato e di rivolgersi verso il futuro seguendo la sua trama singolare. In sostanza, a voler essere brutali, il caratterista di quella trama scientifica più ampia che è la modernità. Posto che quest’ultima (con le sue versioni tarde o posteriori) sia altro che un semplice nome.
LETTURE
× Binswanger L., Freuds Auffassung des Menschen im Lichte der Antropologie, 1936, trad. it. La concezione dell’uomo in Freud alla luce dell’antropologia, in ID Essere nel mondo, Astrolabio, Roma, 1973.
× Binswanger L., Freud und die Verfassung der klinischen Psichiatrie, 1936, trad. it. Freud e la costituzione della psichiatria clinica, in ID Essere nel mondo, Astrolabio, Roma, 1973b.
× Borgese G.A., Rubè, Mondadori, Milano, 1994.
× Freud S., Das Unbewusste, 1915, trad. it. L’inconscio, in ID Metapsicologia in ID Opere, Vol VIII, Bollati Boringhieri, Torino, 1976.
× Heidegger M., Sein und Zeit, 1927, trad. it. Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 1971.
× Husserl E., Logische Untersuchungen, 1901-1913, trad. it. Ricerche logiche, 2 Voll., Net, Milano, 2005.
× Lewin K., The Conflict between Aristotelian and Galileian Modes of Thought in Contemporary Psychology, 1931, trad. it. Il conflitto tra una concezione aristotelica ed una concezione galileiana nella psicologia contemporanea, in ID, Teoria dinamica della personalità, Universitaria, Firenze, 1965.
× Lewin K., Field Theory in Social Science, 1951, trad. it. Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 1972.
× Musil R., Der Mann ohne Eigenschaften, 1942, trad. it., L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1996.
× Nietzsche F., Unzeitgemässe Betrachtungen, Zweites Stük: Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, 1874, trad. it., Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 2001.
× Svevo I., La coscienza di Zeno, Garzanti, Milano, 1992.